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Tornare a pensare il futuro

Bisogna prendere atto che è finito un lungo ciclo e quindi è necessario ripensare l’azione del sindacato.

La vecchia fase – tramontata da tempo in altri paesi – di un sindacato influente nell’arena pubblica è stata tenuta in vita artificialmente in Italia. Dalle battaglie di dieci anni fa sull’art.18, che hanno dato l’illusione di poter rimuovere le trasformazioni profonde del mercato del lavoro, al mantenimento di un piede, più o meno robusto, nelle stanze istituzionali per riceverne in cambio alcune protezioni ( per le organizzazioni più che per i lavoratori).

Le spinte di Renzi ( gli 80 euro ai redditi bassi, il definitivo – per quanto discutibile – superamento dell’art.18) hanno semplicemente certificato un dato di fatto. Che quel ruolo del sindacato – generale e sostenuto dalle risorse pubbliche – non è più riproducibile se non si dà luogo ad un chiaro riposizionamento delle organizzazioni sindacali.

Queste sono scresciute e si sono consolidate nel nostro paese, grazie all’abilità delle strutture sindacati nel reinventarsi continuamente uno spazio utile, ma dentro un involucro protettivo predisposto dalle istituzioni ( dai patronati, ai Caaf, ai distacchi etc.).

Appare dunque naturale che a questo punto – ridimensionato, non venuto meno del tutto quell’involucro – i sindacati tornino in primo luogo ad occuparsi del ‘sociale’  e delle relazioni industriali : anzi, se vogliamo allargare il tiro oltre gli strumenti tradizionali,  dovremmo parlare di tutto quanto rientra nel campo delle ‘relazioni di lavoro’.

Dunque l’azione dal basso, non solo nei luoghi di lavoro ma nei territori :  luoghi promettenti non solo per l’aggregazione dei lavoratori, ma anche per le nuove dimensioni della contrattazione. Lo scopo è quello di ricostruire i legami sociali orizzontali tra i lavoratori, provando a delineare  nuove sintesi tra le questioni delle condizioni di lavoro, della produttività delle imprese e delle politiche sociali.

Questo baricentro ripensato non riveste un intento a-istituzionale o anti-istituzionale, come immaginano nei paesi anglosassoni i sostenitori del community organizing, impegnati a rifondare i sindacati dalle precedenti incrostazioni. Se vorranno tornare ad una rappresentanza ‘generale’ dello sfaccettato universo lavorativo, i sindacati dovranno comunque mirare a ricadute istituzionali non immediate in direzione di una nuova universalizzazione dei diritti. Ma intanto è preferibile immaginare un diverso baricentro d’azione.

Ma perché c’è bisogno di questo cambiamento di pelle, grazie ad una piena immersione dentro le trasformazioni sociali dei lavori ?

La spiegazione la si trova in un dato sociologico, che è anche culturale.  Il restringimento della rappresentanza sindacale negli ultimi vent’anni (parliamo in senso lato, non solo dell’esperienza italiana, che resta tra le meglio posizionate) ha portato le organizzazioni a occuparsi in modo specializzato di una fascia più ristretta di lavoratori. Lavoratori di mezz’età o più anziani che hanno attraversato gli anni d’ oro delle conquiste sindacali, e che a quelli parametrano le loro aspettative. Un nucleo, importante, qualche volta militante (anche se sempre meno), ma divenuto in corso d’opera ‘conservatore’. In tutto ciò non c’è niente di male. E’ naturale per i sindacati essere conservatori dei diritti acquisiti, ed essere nostalgici dei loro momenti migliori. Ma, se essi  sono solo questo, sono condannati a perdere la carica dell’innovazione e quindi stentano a sintonizzarsi con gli altri gruppi sociali : i nuovi proletari prodotti dal post-fordismo, decisamente poco protetti, ma anche sotto o per niente rappresentati.

Dunque questo ‘ritorno’ al sociale è obbligato, se si vuole segnare una inversione di tendenza rispetto alla prevalenza di un atteggiamento di rassicurante adattamento conservatore.

Tante strutture e militanti sindacali già avvertono questo problema, e già in parte mettono in atto – in ambito locale e micro – prassi e strategie di innovazione. Questo è il presupposto materiale per un nuovo corso. Al quale però mancano due aspetti cardine, i quali sono legati ad una attitudine più strutturale a ripensarsi delle grandi organizzazioni.  

Il primo riguarda la capacità di generalizzare le buone pratiche traducendole in nuovi format organizzativi. 

Il secondo investe la capacità di dare forma a questo nuovo corso, con nuove identità collettive e una ‘visione del futuro‘, tali da ricondurre i sindacati con più nettezza dentro il campo dei soggetti che non si accontentano né del passato, e neppure dell’esistente.

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