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Meglio il decisionismo che la deresponsabilizzazione

Nelle ultime settimane, specie in occasione della predisposizione e prime indicazioni del cosiddetto JobsAct, si è andata affermando una forte recrudescenza del conflitto fra politica e realtà sociale, più precisamente fra primazia della politica e dialettica fra e con le organizzazioni di rappresentanza. Sono tornati in auge i proclami sull’art. 18, si sono ripetuti agli annunci di reciproco condizionamento fra i diversi protagonisti, si sono rimesse in campo pericolose faglie di frattura fra interi gruppi di classe dirigente. Un ritorno di fiamma ricorrente, quasi un immancabile destino di ritorno dell’eguale.

Sembra a me che  il confronto in atto in queste settimane abbia invece due elementi destinati a rompere tale destino: da una parte la non revocabile propensione ad un indiscusso primato della politica, dall’altra la inevitabile tendenza a privilegiare il decisionismo in ogni dinamica economica e sociale. Sono due elementi profondamente intrecciati, ma converrà analizzarli separatamente.

Constatare la propensione al primato della politica nel renzismo imperante di questi mesi può apparire banale; ma occorre comunque prendere coscienza che da troppi anni la società italiana viveva in un continuo adattamento passivo all’evolvere delle cose “del mondo”. Ed è stato detto al proposito che non siamo più un sistema capace di autopropulsione, capace di conoscere sé stesso, capace di definire i propri obiettivi e traguardi di evoluzione, capace di mettere in funzione diversificati processi di autodeterminazione; delle capacità che “fanno” la politica.

Le crisi dell’ultimo decennio hanno accentuato tale debolezza strutturale, anche in ragione della perdita di sovranità statuale e della dipendenza dall’estero (in particolare dall’Europa) che il sistema ha dovuto subire. Come ha osservato un attento osservatore di cose italiane, mentre la nostra società è diventata liquida, “il sistema si è liquefatto”, perdendo le giunture concettuali ed operative che lo tenevano insieme. Per governare una società liquida non bastano più investimenti sistemici, occorre saper elaborare politica, dare primato alla politica, ridando vita alle quattro capacità sopra richiamate, e si capisce allora come, a livello di piccole dinamiche di attualità, abbia avuto successo l’attuale premier, che sembra consapevole che l’approccio sistemico è superato e che l’intreccio relazionale fra i soggetti va sacrificato agli obiettivi politici che si vuole raggiungere. Mentre tali soggetti (in particolare quelli di rappresentanza) sembrano arroccati nella difesa della loro rete relazionale con il potere, e non capiscono che, se la politica mette sul tavolo il peso del suo primato, l’unica dialettica possibile non è sui modi della relazione con essa ma sui contenuti politici (di autocoscienza ed autopropulsione) che vengono posti sul tavolo. In altre parole, i protagonisti del sociale dovrebbero avere idee e orgoglio di pensiero politico per poter contrapporre al primato della politica tematiche e proposte altrettanto politiche.

E qui entro nel secondo grande tema, cioè il peso del decisionismo nell’attuale congiuntura economica e politica. Come per il primato della politica, anche qui da parte di chi conosce e vive la grande complessità della realtà italiana, ci può essere una propensione a rigettare la verticalizzazione del potere e delle decisioni (verso il vertice della finanza mondiale, verso il vertice europeo, verso il vertice governativo, verso il vertice della governance aziendale, ecc.) una propensione concettualmente corretta ed anche corroborata dallo scarso successo (o addirittura dei guai) che tale verticalizzazione ha portato. Ma realismo vuole che si debba accettare la necessità di una più alta assunzione di responsabilità in ogni struttura economico e sociale. 

La grande stagione del policentrismo diffuso, con la moltiplicazione dei soggetti economici e sociali e della soggettività psichica delle loro decisioni, ha portato certamente ad uno sviluppo ampiamente partecipato e tutto sommato di alta qualità sociale ed umana. Non c’è dubbio però che il policentrismo dei soggetti è spontaneo e forte nell’avvio della trasformazione della società ma ha bisogno, in fase adulta di un fattore fondamentale: la serica costante tenace responsabilità dei soggetti stessi. Se invece, come è avvenuto in Italia negli ultimi anni, nei singoli soggetti si insinua il virus della de-responsabilizzazione, e, a cascata, dell’adattamento passivo agli eventi e dell’indifferenza al futuro, allora il policentrismo diventa confuso, sfuggente, liquido e tutto sommato ingovernabile.

Nasce da qui la tendenza (interna ai singoli soggetti) a ricercare procedure di responsabilità e più ancora figure, aziendali prima e istituzionali dopo, che impongono tali procedure. Il decisionismo non è nulla di più e nulla di meno che questo processo di ricerca di dare/imporre responsabilità ad una soggettività individuale crescentemente sballata.

Mi rendo conto che con questa breve nota vado contro non solo ad una opinione collettiva ma anche alla filosofia in cui ho letto per anni lo sviluppo italiano; ma il mestiere che frequento da decenni mi ha sempre imposto la coerenza con la realtà, con quel che succede, più che con le idee e le opinioni, anche quelle mie.

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