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Un respiro più positivo e qualche svarione

La legge di stabilità presentata da Renzi/Padoan va inquadrata nel deterioramento della situazione economica che si è verificato tra la presentazione del Def ad aprile e la Nota di aggiornamento del 30 settembre. Da una previsione di crescita del Pil del +0,8% nel 2014 e dell’1,3% nel 2015, si è passati a una previsione di un -0,3% nel 2014 e di un modesto +0,5% nel 2015, con conseguente peggioramento di tutti gli indicatori di finanza pubblica. In questo contesto il Governo ha ritenuto che continuare a osservare gli obiettivi del Piano a medio termine indicati nel Def, in base alle regole fiscal compact, sarebbe stato impossibile. Una scelta di questo tipo, infatti, avrebbe comportato una manovra con saldo positivo, con effetti negativi non solo per l’economia e l’occupazione, ma per gli stessi obiettivi di finanza pubblica. Il Governo ha preso un’altra strada, quella di una manovra in deficit nell’intento di far ripartire il sistema economico. Da qui la decisione di portare l’indebitamento netto nel 2015 dal 2,2 tendenziale al 2,9% programmatico.

Il Governo rispetta il limite del 3% e mantiene un avanzo primario, ma il percorso di avvicinamento agli obiettivi di medio termine subisce un rallentamento e non si riduce dello 0,5% il deficit strutturale, mantenendolo nel 2015 allo stesso livello del 2014. Il Governo sostiene, tuttavia, di non violare le norme europee in ragione delle clausole di flessibilità contenute nel fiscal compact in caso di eventi eccezionali. Il contenzioso subito aperto con la Commissione uscente pare in via di superamento con un compromesso tutto “politico”. La Commissione sembra rinunciare a una correzione dell’indebitamento strutturale dello 0,5%, ma il Governo italiano porta la correzione dallo 0,1% previsto nel Def a un valore superiore allo 0,3%. Si riduce, quindi, a circa 7 mld, la parte in deficit della manovra. Dal punto di vista parlamentare si rende forse necessaria una nuova votazione sul Def e, soprattutto, viene meno quel pacchetto di risorse (3,4 mld) accantonate dal governo che avrebbero potuto essere usate per ulteriori riduzioni di imposte o per aumentare, ad esempio, le risorse destinate agli ammortizzatori sociali. Una volta approvati i saldi della manovra sarà pertanto, più difficile per tutti operare modifiche se non indicando coperture specifiche. Trovato il compromesso, lo scontro, tuttavia, appare solo rinviato. Nel prossimo novembre ci saranno le nuove previsioni a medio termine dell’Unione, mentre nella prossima primavera Commissione ed Euro gruppo dovranno valutare complessivamente lo stato dell’economia europea e quello dei singoli paesi. In quell’occasione saranno verificati sia i primi effetti della legge di stabilità sia lo stato del programma di riforme. Da un lato saranno decisivi i risultati che l’Italia avrà raggiunto, dall’altro sarà non meno importante il prevalere, o no, all’interno dell’Unione di una linea di politica economica non più legata all’austerità espansiva, ma orientata alla crescita. Non si vedono all’orizzonte molti spiragli in questo senso. L’assoluzione parziale alla Francia e all’Italia appare più un compromesso a fronte di un rischio rottura con due dei maggiori paesi europei e, soprattutto, di quel che resta dell’asse Francia-Germania, più che un convinto mutamento di linea. Molto dipenderà dall’andamento dell’economia, ma anche dal grado di credibilità dell’Italia.

Nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia si afferma che le scelte fatte dal governo appaiono motivate, data l’eccezionale durata e profondità della recessione, se i margini di manovra ricavati dal rinvio del processo di aggiustamento dei conti pubblici saranno utilizzati efficacemente per rilanciare la crescita dell’economia. La manovra, e i suoi contenuti, sono sufficienti per realizzare quest’obiettivo? Se partiamo dall’eccezionale durata e profondità della recessione la risposta è probabilmente no. Nella stessa nota di aggiornamento del DEF il PIL programmatico mostra un +0,6% in luogo di un +0,5% tendenziale. L’impulso all’economia dovrebbe essere più forte, con maggiori sgravi fiscali e con investimenti pubblici. Ma questo si scontra con i vincoli europei e con la necessaria credibilità di far fronte al debito pubblico. Nell’impossibilità di cambiare le regole europee, il governo le forza rifiutando una manovra recessiva, ma restando all’interno del 3%. E’ molto probabile che in questo modo si produca solo un rinvio dello scontro, ne sono testimonianza le pesanti clausole di salvaguardia nel 2016/17 che prevedono ingenti aumenti di IVA e accise, clausole che fin da oggi il governo appare non intenzionato a rispettare. Tra un anno, a meno di una ripresa maggiore di quella prevista, ci troveremo allora con la stessa alternativa di oggi, rinviare di nuovo l’obiettivo di medio termine o fare una manovra di aggiustamento dei conti pubblici, necessariamente recessiva. Vi è un’alternativa?

E’ certamente condivisibile un giudizio negativo su di una politica europea che troppo ha indugiato, e continua a farlo, in un’idea completamente sbagliata dell’austerità espansiva. Un’eventuale linea italiana di “mani libere”, ci porterebbe, con molta probabilità, fuori dall’euro e al ripudio del debito pubblico, con conseguenze disastrose in particolare per le classi sociali più deboli. Si tratta allora di cercare un credibile punto di caduta tra le due politiche che tenga conto delle esigenze di crescita ma anche dei vincoli che derivano per il nostro paese non dal fiscal compact, ma dal suo debito e dal fatto di essere un’economia aperta ai mercati internazionali e operando con più decisione per mutamenti sostanziali delle politiche europee.

La tavola di riepilogo degli effetti della Legge di stabilità 2015 sull’indebitamento netto per il prossimo anno, pubblicata dal Tesoro, conferma sostanzialmente quanto indicato da Renzi per il 2015: 36,2 mld di interventi, 25,7 mld di coperture e 10,4 mld di aumento del deficit. Tra i 36 mld di interventi vi sono i 3,4 mld messi da parte per eventuali contenziosi con l’Europa. Le poste maggiori dal lato degli interventi sono la conferma e la stabilizzazione del bonus di 80 euro mensili in favore dei lavoratori dipendenti e la deduzione integrale, agli effetti IRAP, del costo complessivo del lavoro  dipendente. La stabilizzazione del bonus (9,5 mld) è un fatto certamente positivo e costituisce un intervento immediato e necessario a sostegno dei redditi di lavoro più bassi. Pone tuttavia alcuni problemi di struttura dell’Irpef che occorrerà correggere in tempi brevi. La deduzione dall’imponibile Irap (per circa 5 mld) del costo per lavoro a tempo indeterminato e il contemporaneo sgravio contributivo per tre anni per i nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato sono misure importanti per la competitività del sistema. Entrambi i provvedimenti operano, tra l’altro, una distinzione a favore del lavoro a tempo indeterminato. In particolare gli sgravi per i neo assunti determinano, a parità di remunerazione, nei primi tre anni un costo inferiore per l’imprenditore rispetto a quello previsto per i parasubordinati cambiando drasticamente le convenienze a favore dell’occupazione dipendente a tempo indeterminato. Questa è sempre stata una richiesta del sindacato. Diminuire il costo del lavoro, così come modificare le regole del mercato del lavoro, non produce di per se occupazione, solo una ripresa economica può farlo, ma ne costituiscono una fondamentale premessa. Sempre dal lato delle minori entrate va ricordata la soppressione per il 2015 della clausola di salvaguardia di Letta che avrebbe comportato un aumento di 3 mld d’imposizione fiscale.

Secondo la tabella diffusa dal MEF la copertura degli interventi sarà assicurata, oltre che dai 10,4 mld in deficit, da 16 mld di minori spese e da 9 mld di maggiori entrate. In realtà gli effettivi tagli di spesa, a giudicare dalla lettura di bozze della Relazione tecnica, ammontano a poco meno della metà della cifra indicata. La somma restante deriva dal venir meno di una parte del Tfr versata nel Fondo Inps-Tesoreria (circa 2,6 mld), da riduzione e da rimodulazione di Fondi vari. Questo rende da un lato più credibile l’effettiva realizzazione dei tagli, ma, dall’altro, riduce la loro portata effettiva e fa trasparire la difficoltà di operare in tempi brevi una profonda spending review. Sulle regioni ricade certamente un compito gravoso, quello di non trasferire, come in passato è avvenuto, il peso dei tagli sui cittadini. I margini per farlo sono ampi ed è l’occasione per dimostrare l’utilità dell’istituto regione a fronte di chi sostiene che le regioni siano principalmente fonte di spreco. Le entrate derivanti dalla lotta all’evasione (3,8 mld) sono una scommessa in passato sempre persa, vedremo questa volta.

Tra le diverse misure della legge di stabilità ve ne è una che appare incomprensibile e frutto, probabilmente, di un progressivo arretramento di fronte ad una graduale presa d’atto della realtà, senza il coraggio di rinunciarvi. Ci riferiamo alla misura relativa al Tfr in busta paga e alla tassazione ordinaria cui sarà soggetta questa voce. Dal punto di vista del lavoratore è una rapina con un’aliquota di tassazione nel migliore dei casi pari al 27,5%, cui aggiungere le addizionali Irpef, contro un’aliquota di tassazione del Tfr del 23%. Altrettanto incomprensibile l’aumento di tassazione sulla rivalutazione annua del Tfr e sui rendimenti dei Fondi pensione. Su ambedue i temi, Tfr e Fondi, sono possibili e necessarie diverse riflessioni e, probabilmente, profondi cambiamenti. Si tratta di istituti importanti che richiedono conoscenza e riflessione profonda prima di intervenire, cosa che non appare sia avvenuta.

(*) Esperto di previdenza, ex dirigente generale dell’Inpdap

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