Il braccio di ferro tra Governo e sindacalismo confederale è in pieno svolgimento. All’apparenza, hanno tutti buone ragioni per fare quello che fanno. Il Governo – ossessionato dalla persistenza di un cavallo che non vuole bere – tenta, blandisce le aspettative più recondite degli imprenditori e dei consumatori sia con il Jobs Act che con la legge di stabilità, tra l’altro considerati da Bruxelles ancora troppo poco sotto il profilo riformistico (e sappiamo cosa vuol dire questo termine in salsa filotedesca). I sindacati confederali, sia che facciano lo sciopero generale che non lo facciano, puntano i piedi. CGIL e UIL non fanno mistero della loro tenace opposizione alle scelte del Governo e quindi mettono sullo sfondo il lungo elenco delle richieste che pur avanzano. La CISL è decisamente orientata a dare selettività agli obiettivi e a ricercare i margini di una trattativa. E tutte e tre le confederazioni traggono motivi di conforto dai dati delle adesioni alle lotte e alle iniziative proclamate.
Ma non basta avere delle buone ragioni, se poi la realtà va in un’altra direzione. Anzi, nella stessa in cui è andata finora e cioè deprimentemente recessiva, come i misuratori congiunturali lasciano intravvedere. Così, quando fra qualche mese, diciamo in primavera, gli effetti psicologici e concreti delle scelte di questo finale d’anno non saranno in linea con le attese del Governo, non basterà puntare il dito contro i “gufi” per convincere un’opinione pubblica già ora sconcertata e per contenere le lotte sociali che la situazione alimenterà e amplierà. Quello sarà un momento complicato per il Governo che non appare provvisto di un piano B e che vedrà all’orizzonte la sagoma della Troika punitrice. Anche per questo, probabilmente, i toni della polemica governativa sullo sciopero e quelli di Renzi stesso si sono attenuati negli ultimi giorni.
Ma neanche per le organizzazioni sindacali i tempi si fanno più semplici. Le loro buone ragioni conclamate si infrangono sulla scogliera della inefficacia, sia che proclamino scioperi, sia che non li proclamino. Il tempo degli accordi separati non c’è più. C’è di meno anche quello della pura testimonianza ovvero del primato dell’identità. Sono prospettive logore nella testa della gente ma anche di molti militanti. La loro pretesa, sempre più pressante, è che si realizzino risultati concreti, legati alle esigenze immediate e prospettiche delle persone. Ma per questi risultati, bisognerebbe almeno rispolverare il vecchio slogan “marciare divisi e colpire uniti”. Lo perseguirono Buozzi, Di Vittorio e Pastore ed erano tempi di guerra fredda. Anche per loro valeva la regola che è difficile essere protagonisti efficaci e vincenti se ci si presenta divisi e disuniti. E forse, questa consapevolezza si sta facendo strada. Nei cortei e nei comizi dello sciopero generale del 12 dicembre, non si sono sentite invettive nei confronti della CISL (come in altri momenti), né da questa sono partite caricature dell’iniziativa mobilitativa o proclami di belligeranza.
Un primo banco di prova di un cambiamento di clima tra Governo e sindacati è l’attuazione dei decreti delegati previsti dal Jobs Act. Indipendentemente dalla forma che prenderà il confronto, molta della sostanza di quella legge è tutta da scrivere ed occorrerà una buona dose di volontà mediatoria da ambo le parti per raggiungere risultati soddisfacenti. Anzi, paradossalmente, i sindacati partono avvantaggiati perché alla prova della scrittura dei decreti delegati sono innanzitutto le reiterate dichiarazioni del Presidente del Consiglio che ha qualificato questo atto parlamentare come una pietra miliare nel superamento del dualismo nel mercato del lavoro italiano. Basterebbe sanzionare questo salto di qualità nel disboscamento delle varie forme di precariato, nella valorizzazione delle politiche attive come condizionatrici vere delle politiche passive e della ripartizione degli orari come argine alla prospettiva della disoccupazione per mettere tutti i veri riformisti nella condizione di riconoscersi in quel provvedimento legislativo.
La partita, però, non si chiude qui. Nella prospettiva di medio periodo – ma che si imposta a breve – c’è da far quadrare i conti tra un debito pubblico crescente e un tasso di occupazione decrescente. Le misure finora adottate, per il loro carattere strutturale, potranno avere efficacia nel tempo, difficilmente invertiranno la rotta di quei due macigni nel 2015. E quei macigni o si spostano con il contributo di tutti o resteranno una minaccia sulla stabilità della coesione sociale. Non un contributo qualsiasi ma un vero e proprio patto di solidarietà che riguardi i soggetti politico-istituzionali e le parti sociali e che sia tanto consistente come messaggio di fiducia da sconfiggere l’antipolitica evocata come cancro dal Presidente della Repubblica e alimentata dai fenomeni corruttivi come quelli cresciuti attorno al Campidoglio.
Di questo patto di solidarietà devono essere chiari gli obiettivi: ridurre il debito pubblico, occupare subito i giovani e devono essere esplicite le linee di azione. L’Europa deve fare la sua parte in fatto di investimenti, ma l’Italia deve trovare risorse aggiuntive per creare occupazione subito, nel corso del 2015. Quest’azione deve fare perno su una ridistribuzione della ricchezza nazionale che, chiedendo ai più ricchi un sacrificio temporaneo e straordinario, finanzi unicamente l’occupazione dei giovani in tutte le forme possibili ma soprattutto nei luoghi dove già ora si produce. Una ridistribuzione della ricchezza nazionale che serva a ridistribuire il tempo di lavoro, contrattualmente definito, non è una insensatezza ma la più realistica scelta per convincere tutti di tirare la carretta e soprattutto nella direzione giusta.