Si è detto che queste elezioni europee sono state dominate da uno scontro tra paura e speranza. La seconda ha prevalso oltre ogni aspettativa e sondaggio. Al netto di una minore partecipazione al voto (ma rimaniamo uno dei Paesi più “votaiolo”, anche in Europa), dal popolo dei votanti è emersa un’opzione nient’affatto disfattista sia sull’Europa, sia sulla guida del Paese. D’ora in avanti, occorrerà trasformare quella speranza vincente in fiducia convincente. Il fatto che il Presidente del Consiglio non si sia sbrodolato sulla vittoria riportata, è la conferma della gravosità della responsabilità che incombe sull’Esecutivo e sul Pd.
La fiducia è merce non comprabile al mercato. Va confezionata con scelte, proposte, fatti che corrispondano alle vere esigenze della gente. Forse, occorrerà fare il tagliando alle priorità che questo Governo si era dato al suo insediamento. Allora, gli mancava la validazione popolare e c’è stato chi, su questo, ha pensato di costruirsi una rendita di posizione. Ma ora, né il “tutti a casa” ha una qualche minima ragione di cittadinanza, né ha senso pensare al Governo come un protagonista a termine. Può e deve concludere la legislatura, ridefinendo le sue priorità.
Infatti, l’urgenza delle riforme istituzionali resta tutta, ma ancora più pressanti sono diventati l’emergenza lavoro, la produttività della Pubblica Amministrazione, il rafforzamento della legalità e della giustizia. Tre questioni, che certamente non ne escludono altre, ma che fanno la differenza nello spostamento del baricentro politico dalla speranza alla fiducia. I dati sull’occupazione sono sempre più sconfortanti, specie nel Mezzogiorno ormai scomparso come questione nazionale; le sollecitazioni che vengono dall’economia (i dati Censis sulla caduta degli investimenti esteri aggiungono legna al fuoco delle pressioni sociali) pretendono un sistema pubblico più efficiente; ed infine, le vicende più recenti, soprattutto al Nord, di mala gestione delle grandi opere e di malaffare ad esse connesse mettono all’ordine del giorno le questioni della legalità (a partire dal ripristino del reato di falso in bilancio) e del buon funzionamento della giustizia civile e penale.
Il filo conduttore di questo passaggio dalla speranza alla fiducia è emerso dalle elezioni. E’ la valorizzazione dei produttori. Non quelli della vulgata marxiana. Ma i produttori di idee, di valore aggiunto, di saperi, di buone pratiche, di professionalità d’avanguardia, di novità culturali, di solidarietà concrete. E’ da questi che è venuta la spinta a frantumare le logiche di schieramento ereditate dal secolo scorso e a fare da spina dorsale dell’affermazione della speranza. Dopo molti anni di predominio della pancia sulla ragione, di esaltazione della logica per cui i soldi si fanno con i soldi e non con il duro lavoro, di svilimento della formazione e della scuola, di gonfiamento – nel ciclo del valore delle merci e dei servizi – delle posizioni di rendita e di intermediazione più o meno lecita, di lassismo nella gestione della cosa pubblica, di visione casalinga e casereccia della globalizzazione e del futuro dell’Europa, le elezioni hanno ridato fiato a soggetti singoli e collettivi, aree sociali, gruppi e associazioni finora messi ai margini della vita politica.
Altro che vittoria dei vecchi e dei conservatori. Sono i produttori che hanno dato valore aggiunto a queste elezioni. Sparsi in ogni luogo e in ogni categoria sociale, confusi e non selezionati tra giovani e vecchi, non identificabili secondo confini propri della vecchia politica, ma unificati dalle energie messe a disposizione di una miriade infinita di iniziative. E ciò, indipendentemente se si è formalmente occupati o no. La crisi, infatti, non ha cristallizzato la nostra società, ma anzi ha alimentato un allentamento se non un annientamento di consolidate stratificazioni sociali ed economiche. E se ciò ha prodotto diseguaglianze reddituali e di condizione sociale inaccettabili, non ha impedito la formazione di nuove e talvolta inedite esperienze di lavoro, di impegno, di sperimentazioni. Si pensi soltanto a ciò che sta avvenendo in agricoltura o in tante forme di lavoro autonomo, non organizzate in Ordini professionali. Si pensi alla nascita in pochi anni di molte start up, nonostante le difficoltà, piccole e grandi, che incontrano per affermarsi e ne rallentano il passo.
Tutto questo rimescolamento sociale è carico di potenzialità. Ma può anche essere deluso. Quelli che si devono interrogare con urgenza e senza farsi assistere da medici pietosi, sono le organizzazioni della rappresentanza politica e sociale. Con queste elezioni, si aprono crepe non rappezzabili nella catena del consenso; nel passato, bastava che i singoli fossero legati ai corpi intermedi più classici e questi alle istituzioni, che l’associazionismo di massa inducesse partecipazione di massa alla politica. Non è più così; la rappresentanza dei produttori implica un ridisegno della rappresentanza degli interessi. Se questi sono prevalentemente parassitari (presenti tanto nel privato come nel pubblico), si farà sempre più fatica a convivere con gli interessi fondati sul rischio, sul merito, sulla creazione di valore. Ed in ogni caso, i primi non potranno prevalere sui secondi, pena la deflagrazione della rappresentanza.
Si profila, dunque, una fase inedita nella società italiana. Il dopo crisi non ci riporterà a come eravamo e quindi dobbiamo costruirlo come se fosse effettivamente una novità. In questo sforzo di creatività, la vicenda europea non è un ectoplasma. E’ una componente essenziale del nostro destino, perché una cosa è l’emigrazione di cervelli dall’Italia verso la Germania o l’Inghilterra senza che l’Europa non faccia proprio l’obiettivo di una equilibrata distribuzione del benessere in tutti gli Stati dell’Unione; altra cosa è che l’Europa se ne faccia carico, consentendo a chi va a fare, per necessità o scelta, un’esperienza all’estero, di poter ritornare in Italia a mettere a frutto ciò che ha acquisito. E’ vitale che i “visionari” abbiano spazio in questo divenire.