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Un progetto d’industria per il paese

In questi anni è cresciuta la consapevolezza dell’importanza dell’industria per l’economia del nostro Paese e la convinzione che, senza la ripresa delle attività industriali, difficilmente si potrà tornare a crescere e a creare lavoro.

La crisi industriale di questi anni è stata pesantissima, in Europa e ancora di più in Italia.

Abbiamo perso quote di mercato e volumi di produzioni, la produttività è cresciuta meno di quella di altri Paesi europei e l’occupazione è scesa di circa 600 mila addetti. In questi anni di crisi, la manifattura ha perso quote significative di capacità e di volumi produttivi e, senza un cambiamento di rotta, una parte significativa della perdita di posti di lavoro e di competenze e professionalità rischia di essere permanente e il basso grado di utilizzo degli impianti rischia di  penalizzare ancora di più la già bassa produttività.

Ciò nonostante una parte significativa delle nostre imprese e alcuni settori del manifatturiero hanno continuato a lavorare, grazie soprattutto alla tenuta e ai buoni risultati delle esportazioni. E’ questa anche una conferma dell’immutato valore competitivo delle nostra imprese e della qualità delle nostre produzioni.

La crisi ha segnato anche il comune sentire dei lavoratori. Meno propensi ai proclami e alle “avventure” sindacali, più interessati e preoccupati del proprio lavoro e per questo più attenti al buon andamento della loro impresa.

Lo stesso vale per la politica locale che in questi anni di crescenti difficoltà ha scoperto quanto la crisi industriale nei loro territori abbia peggiorato le condizioni economiche e sociali delle loro comunità.

E’ ormai evidente che senza un rilancio dell’industria, il Paese non esce dalla crisi. C’è il rammarico di constatare che c’è voluta la più importante crisi industriale del secolo per accorgersi del contributo determinante dato dall’industria alla ricchezza e alla prosperità del Paese.

E’ la nostra vocazione economica più importante ed è quello che sappiamo fare meglio e che ci ha consentito negli anni di diventare un Paese ricco ed evoluto.

Cento anni di storia industriale hanno sedimentato diffuse capacità imprenditoriali e competenze e saperi industriali che ci sono riconosciuti nel mondo e che rappresentano ancor oggi uno dei patrimoni più importanti di cui disponiamo che, per questo, non possiamo permetterci di disperdere.

Siamo ancora la 2° industria manifatturiera in Europa e l’8° nel Mondo. Abbiamo impianti, tecnologie e presenze industriali in tutti i settori e mercati più importanti. Se vogliamo tornare a crescere è dall’industria che dobbiamo ripartire. E non per conservarla così com’è, ma per migliorarla nella tecnologia e nell’innovazione e nella internazionalizzazione.

Il peggio della crisi sembra passato ma l’occupazione nell’industria ancora non cresce. E questo nonostante si siano determinate condizioni straordinariamente favorevoli agli investimenti.

Non mancano, infatti, oggi in Europa e nel Mondo liquidità e risorse finanziarie per sostenere progetti di crescita e investimento. Ci sono infatti Paesi in Europa che, grazie a ciò, stanno uscendo dalla crisi prima e meglio di noi, ed altri nel Mondo che in questi anni hanno continuato a crescere a ritmi tre o quattro volte superiori a quelli europei.

Per il nostro Paese è una condizione difficile: cresciamo meno in un’Europa che cresce molto meno di altre economie globali. Per la crescita e per il lavoro c’è certamente bisogno di un’Europa più unita e che dia più sostegno alla crescita, ma c’è bisogno anche di più Italia.

Il Governo si illude se pensa che sia sufficiente affidarsi allo “spontaneismo” del mercato e alla “stitiche” flessibilità europee o alla modestia del Piano Junker. Questo non basterà per rilanciare l’industria e l’economia del Paese, in una dimensione più internazionalizzata.

Non ci sono scorciatoie nè cose semplici da fare. Per irrobustire la crescita e dare risposte all’occupazione non c’è altra strada se non quella di stimolare con provvedimenti straordinari la domanda aggregata di consumi e investimenti e mettere al centro dell’agenda del Governo un Progetto di Industria per il Paese con scelte che contribuiscano a realizzare un più avanzato posizionamento competitivo della nostra Industria sui mercati.

Abbiamo apprezzato in questi anni di crisi l’impegno del Governo nella difficile gestione delle tante crisi aziendali aperte. Ma non si può confondere il meritorio impegno del Ministero dello Sviluppo Economico nei tavoli delle crisi aziendali e il salvataggio di aziende con la politica industriale di cui ha bisogno il Paese. E’ necessario andare oltre la sola gestione delle emergenze delle crisi aziendali.

Non ci si può “inventare” una politica industriale per ogni azienda, ma serve piuttosto e con urgenza affrontare e risolvere, con soluzioni strutturali, i nodi competitivi che penalizzano le nostre imprese nella competizione europea e globale. In assenza di ciò, non riusciremmo nè a dare solidità e prospettive alle soluzioni trovate ai tavoli delle crisi aziendali né ad aprire nuove opportunità di rilancio per l’industria nazionale. Tanto meno saremo in grado di attrarre investimenti dall’estero.

Come si può, in questo contesto, rilanciare l’ILVA senza affrontare in modo strutturale il nodo del rapporto tra ambiente e produzione siderurgica. (il Decreto ILVA ha salvato l’azienda ma la prospettiva è ancora da costruire e non c’è molto tempo a disposizione)?

Come si possono risolvere stabilmente le crisi di Alcoa, AST e Lucchini e di tutta l’industria manifatturiera senza affrontare con solide soluzioni il nodo di un costo dell’Energia che in Italia supera del 30% quello medio dei paesi concorrenti?

Quanta flessibilità bisognerà concedere nel lavoro per recuperare un gap così pesante?

Come potranno avere successo gli accordi sindacali Electrolux, Indesit, Natuzzi e FIAT senza una ripresa dei consumi interni e senza sostegni alle esportazioni?

Come si rilanciano la crescita e l’industria senza un programma straordinario per le infrastrutture, in particolare per il Mezzogiorno?

Come si può rilanciare il sistema delle piccole imprese, schiacciate dall’assenza di credito e senza fare scelte che ne riducano la frammentazione e ne aumentino le capacità di capitalizzazione e internazionalizzazione?

E come preservare il patrimonio di tecnologia e saperi industriali senza un forte investimento nella formazione e nella ricerca e senza la creazione di fecondi e stabili rapporti tra scuola e università con l’impresa e il lavoro?

Come è possibile attrarre investimenti anche dall’estero, con un livello di tassazione tale da scoraggiare il lavoro e l’investimento industriale e in una situazione nel Paese di permaente instabilità delle regole e di inefficienza della Pubblica Amministrazione e della Giustizia?

E le aziende pubbliche? Quale ruolo devono avere per il sostegno e lo sviluppo industriale del Paese? Come si fa a individuare ciò che va difeso perchè ritenuto strategico per il Paese da ciò che non lo è senza un’idea e un progetto di industria per il Paese? Già Seneca affermava, “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.

Sembra invece che anche questo Governo, come quelli precedenti, pensi che la responsabilità delle politiche di indirizzo del Governo azionista nelle imprese a partecipazione pubblica si esauriscano nelle nomine di Amministratori Delegati di fiducia, per poi affidare a loro (manager a tempo) il compito di decidere cosa è importante e strategico per il Paese!

In tutti i paesi industrializzati si sono fatti concreti passi avanti per rafforzare o ricostruire la propria base industriale e nella gran parte dei casi lo si è fatto coinvolgendo e dialogando anche coi sindacati. Così è stato negli Stati Uniti d’America, ad esempio, con le politiche pro-industria di Obama.

In Germania con il piano “Germany as a competitive industrial nation” del 2010 e con investimenti importanti nel miglioramento dell’innovazione e delle competenze e sulla sostenibilità dello sviluppo. In Inghilterra, con il varo, nel 2013, del piano “Industrial Strategy” e in Francia, sempre nel 2013, con la strategia “Nouvelle France industrielle” entrambi a sostegno dell’obiettivo di preservare nei rispettivi Paesi le proprie filiere tecnologiche e industriali più importanti e lo sviluppo di nuovi settori di attività.

E l’Italia? L’investment compact non è stato nè sarà sufficiente a far ripartire e a dare prospettive all’industria italiana. Sappiamo bene della difficile condizione della finanza pubblica e anche della pigrizia e del conservatorismo di molte imprese. Ma non abbiamo alternative, dobbiamo occuparci ed investire nell’industria se vogliamo tornare a crescere.

Ci vogliono idee e risorse e soprattutto la volontà politica del Governo di mobilitare tutte le componenti del Paese verso questo obiettivo.

Ci sono due condizioni necessarie per occuparsi di politica industriale. In primo luogo bisogna conoscere l’industria ed essere consapevoli del nuovo contesto competitivo; in secondo luogo è richiesto di saper operare scelte e assumere decisioni anche impegnative, magari non sempre popolari.

L’industria italiana è cambiata meno di quanto sarebbe stato necessario. Continuiamo ad avere un sistema industriale composto da poche grandi imprese e da troppe piccole imprese che in passato hanno certamente rappresentato un punto di forza del nostro sistema industriale ma che oggi, invece, in un mercato globale e più concorrenziale, sono diventate un evidente punto di debolezza.

E’ un mercato globale dominato dalle grandi Multinazionali (le prime 500 multinazionali producono da sole un terzo del PIL mondiale) e dai processi di internazionalizzazione, non solo dei mercati, ma anche, dei processi produttivi e dei modelli organizzativi d’impresa che si costituiscono in catene globali del valore il cui prodotto finale è dato dal contributo delle diverse forniture di componenti e semilavorati provenienti da tutte la parti del Mondo.

Tutto ciò ha messo in crisi il modello tradizionale dei distretti industriali, più pensati per il mercato domestico e costruiti sui vantaggi della vicinanza geografica e sulla ottimizzazione dei costi piuttosto che sullo sviluppo della tecnologia necessario per far crescere ed irrobustire la loro presenza su mercati esteri. Oggi, per la piccola e media impresa italiana, è quindi fondamentale crescere di dimensioni e poter investire maggiormente in innovazione tecnologica e specializzazioni produttive.

Contemporaneamente, la grande impresa deve tornare a rappresentare il punto di riferimento per la costruzione di filiere di specializzazioni produttive che sostengano la qualità e la concorrenzialità delle produzioni italiane nei mercati italiani ed esteri.

L’Italia è l’unico tra i paesi industrializzati che non ha ancora definito una strategia organica in grado di affrontare e risovere i punti di debolezza e di ottimizzare i punti di forza del nostro sistema industriale per rispondere alle nuove sfide della competizione globale.

E’ un impegno che chiama in causa soprattutto il Governo e gli imprenditori ma che riguarda anche il Sindacato. La politica industriale non può essere solo rivendicata, nè l’impegno e la responsabilità dello sviluppo dell’industria possono solo essere materie delegate ad “altri”. Un Progetto di Industria per il Paese ha bisogno anche di un Sindacato che si sappia mettere in gioco nei cambiamenti e assumersi le proprie responsabilità attraverso la contrattazione e in un rapporto serio e non populistico con i lavoratori. Viviamo in tempi in cui non è data a nessuno la possibilità di chiedere agli altri cambiamenti senza essere disponibili a compromettersi nel cambiamento richiesto.

Fare politiche industriali non è facile, significa scegliere, saper prendere decisioni impegnative e assumersi responsabilità e d’altronde, parafrasando una famosa frase di Einstein: “follia è fare sempre la stessa cosa nello stesso modo aspettandosi risultati diversi”. Serve un salto di qualità nella cultura sindacale e nella cultura del lavoro, un vero e proprio cambio di paradigma per modernizzare e rendere le relazioni sindacali più forti ed adeguate a sostenere il rilancio dell’industria e dell’occupazione nel nostro Paese e la valorizzazione e riqualificazione del lavoro industriale.

Si tratta di mettere al centro dell’azione sindacale il valore dell’impresa e del lavoro come beni comuni inscindibili da valorizzare nella contrattazione tra sindacato e impresa e nella partecipazione dei lavoratori alla vita dell’azienda e ai risultati d’impresa. Considerare l’impresa e il lavoro bene comune, significa avere consapevolezza che non si potrà avere una industria forte e competitiva con ingegneri tecnici e operai poco preparati e mal pagati e persone non rispettate sul lavoro.

Nello stesso modo non si potrà più considerare l’impresa come una arena nella quale esercitarsi nella lotta di classe, piuttosto che una risorsa importante in primo luogo per i lavoratori, per lo sviluppo del territorio e per il Paese.

Un Progetto di Industria per il Paese non può prescindere quindi da relazioni sindacali stabili e partecipative a da una contrattazione che non si occupi solo di redistribuire la ricchezza, ma anche di quanto che c’è da fare affinché la ricchezza da redistribuire si crei.

Non partiamo da zero. Il Sindacato ha già reso più moderne le regole sulla rappresentanza ed è impegnato a riscrivere le regole e i contenuti della contrattazione; ci sono nel Sindacato Confederale risorse ed intelligenze capaci di riformare il Sindacato e di costruire, insieme alla rappresentanza delle imprese, nuove e più moderne relazioni sindacali capaci di sostenere lo sforzo di riposizionamento della nostra industria sui mercati e di rilanciare l’occupazione nel nostro paese.

Non c’è neanche bisogno di guardare lontano per capire quello che ancora c’è da fare. In Germania la partecipazione tra capitale e lavoro è prevista dalla legge e i rapporti di collaborazione tra sindacato e impresa è uno dei più importanti fattori di successo dell’indusria e dell’economia tedesca.

 

  (*) Segretario confederale Cisl

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