Il jobs act (JA) può senz’altro essere considerato come uno degli interventi qualificanti del governo Renzi e, come accade spesso, e forse non solo in Italia, il dibattito che ha suscitato é stato fortemente condizionato dai pregiudizi da un lato e dalla necessità di una narrazione capace di suscitare consenso dall’altro. Nelle righe che seguono tenteremo di analizzare in primo luogo il significato di questo intervento sul mercato del lavoro e poi i possibili effetti.
Al di là di come é stato raccontato, e cioè come uno strumento di lotta alla precarietà del lavoro, il JA é un intervento che si propone prioritariamente lo scopo di abbassare il costo del lavoro. Una decisione evidentemente impopolare per qualsiasi governo, che tuttavia é sollecitata dalle forti pressioni fatte dalle istituzioni internazionali e dalla cultura oggi prevalente. Quando parlano della necessità di riforme di struttura, le istituzioni internazionali hanno in mente in primo luogo le politiche volte a rafforzare la flessibilità del mercato del lavoro, che, in termini meno astratti, vuol dire interventi volti a creare le condizioni perché ridurre il costo del lavoro e, alla fine dei conti, anche i salari. Una misura che può trovare un ulteriore sostegno nelle situazioni in cui non si può utilizzare il cambio come strumento di aggiustamento macroeconomico della competitività, come nel caso dei paesi euro con i quali peraltro si ha la parte di gran lunga più consistente degli scambi con l’estero italiani.
Per riflettere sul JA in maniera non superficiale, a giudizio di chi scrive, é necessario muoversi in quattro direzioni. La prima si può esaurire in poche battute e riguarda la questione suscitata dalla necessità di narrazione del governo e cioè gli effetti del JA sulla stabilità del lavoro. La seconda é quella della riflessione su cosa significhi una cultura economica, ma anche politica, che considera la società come un sottoprodotto delle regole dell’economia. La terza è quella del realismo politico. Non ci si può mai dimenticare del fatto che, qualunque siano le convinzioni sul significato e sulla validità delle politiche perseguite dai governi, i condizionamenti internazionali (sia nel senso delle istituzioni che in quello dei mercati), incidono in maniera significativa sulla vita dei singoli paesi. Nell’ultima parte guarderemo avanti per tentare di capire quali possono essere gli effetti non immediati sulla società italiana di un intervento come il JA.
- JA e stabilizzazione del lavoro. I sistemi economici sono caratterizzati da incertezza e instabilità congenite. Uno dei problemi di chi governa l’economia é quello di ripartire gli oneri dell’incertezza-instabilità tra la società, lo stato e le imprese. La cultura della competitività tende ad evitare che le imprese siano gravate da questi oneri, che quindi vanno trasferiti sullo stato, quando possibile, ma, sostanzialmente, sulla società. Il JA si adegua sostanzialmente a questa logica, anche se non completamente nell’immediato. Tende a far diminuire il costo del lavoro attraverso una minore tassazione. In sostanza lo stato incentiva con la fiscalità, sia pure per un certo numero di anni, il nuovo tipo di contratti. Un contratto che non peggiora la situazione del lavoro sul piano economico e migliora potenzialmente la sua stabilità. Diciamo potenzialmente perché é difficile pensare che la filosofia economica che sta dietro al JA – e dietro la cultura del mercato – possa considerare valido un esito che aumenti quella che é vista come la rigidità nell’uso del lavoro. Con il JA non si fa che andare incontro alle esigenze di flessibilità delle imprese generalizzando ciò che era implicito nei contratti di lavoro temporaneo, e cioè la maggiore libertà nei licenziamenti. Il tutto in assoluta coerenza con le indicazione che ci arrivano da fuori del nostro paese. Tutto questo non per sminuire il JA ma solo per chiarire che, a giudizio di chi scrive, il successo o meno del JA non deve essere misurato dagli effetti – improbabili – sulla stabilità del lavoro, ma dalla sua capacità di riavviare realmente la crescita economica.
- JA e valori. Una questione che può apparire a molti come una fuga dalla realtà, come parlare di ciò che non può esistere. Niente di più sbagliato, in primo luogo sul piano scientifico. Rompere il muro dell’ovvio é una assoluta necessità in momenti come questi. Riflettere sulla “civiltà possibile”, come la definiva Caffè, non é parlare del mondo dei sogni ma é un passo indispensabile per qualunque progetto culturale ed é anche un modo per prendere le misure con i problemi dell’oggi. Come nel caso del JA. La questione ovviamente può essere affrontata da molti punti di vista. Noi ci soffermeremo solo su alcuni. Il primo é quello degli obiettivi che una società si deve dare. Nella cultura oggi prevalente l’unico valore che conta, almeno nominalmente, é l’efficienza. Siamo sicuri che sia ragionevole rinunciare a diritti, o se si vuole, a elementi di qualità della vita in cambio di quello che ci é indicato come l’unico riferimento per il benessere e cioè la crescita del reddito? Una crescita della quale potrebbero beneficiare – ed é questo quello che accade – solo pochi. Quella che si sta costruendo é una “società economica” come la definiva Polanyi, cioè una società costruita in funzione delle leggi economiche, o meglio, di supposte leggi economiche dietro le quali si nascondono evidenti interessi sociali. Un mondo a testa in giù in cui l’economia non é più un mezzo di cui dispone la società per realizzare i suoi fini ma diventa un fine essa stessa. Polanyi parlava di questa tendenza già negli anni cinquanta, indicandola come un pericolo sempre presente nelle società moderne, e tanto più attuale quanto più tende a prevalere quella che é chiamata la cultura del mercato. Una cultura per la quale il lavoro non é un diritto, ma é il frutto di un contratto fatto tra individui. In cui la disoccupazione non é un problema sociale ma é frutto di atteggiamenti sbagliati di chi lavora, é espressione di richieste inadeguate. Una cultura per la quale il sindacato, per le ragioni appena dette, non ha diritto di cittadinanza. E’ un ostacolo che va rimosso o ignorato. Per la quale lo stato non é più tutore di diritti, in primo luogo l’occupazione, e soggetto di mediazione per la tutela dei più deboli, ma é solo inefficienza e corruzione. Una cultura che ha avuto momenti di egemonia, come negli ultimi decenni, ma altri in cui é rimasta assolutamente marginale. Insomma, guardando alla storia possiamo sperare per il futuro e contemporaneamente essere sicuri che non siamo di fronte a verità, ma a lettura (interessate) della realtà. E dunque, per quanto si possa essere d’accordo sui limiti dell’esperienza del sindacato, per quanto sia evidente l’esistenza di aree di inefficienza nello stato e anche di corruzione, possiamo continuare a guardare alla nostra costituzione come ad un punto di riferimento assolutamente realistico.
- JA e realtà politica. Come si diceva, avere costantemente in mente la questione dei valori e delle civiltà possibili, non deve voler dire una fuga dalla realtà. E non ci si può nascondere il fatto che questa oggi é fatta di interessi consolidati, di mercati finanziari, di regole e istituzioni internazionali, di interessi dei paesi forti, di cultura del mercato. Anche da questo angolo visuale occorre guardare al JA, per capirne il significato. Nella situazione italiana, cioè quella di un paese con un livello molto alto di debito pubblico, é essenziale poter contare sulla fiducia dei mercati e delle istituzioni internazionali, anche essendo coscienti che i loro interessi non sono i nostri né coincidono con i nostri valori. Questo almeno fino al momento in cui le regole che governano l’economia restano quelle attuali. La fiducia si ottiene solo facendo quello che i mercati (finanziari in primo luogo) e istituzioni internazionali vogliono; quello che ritengono giusto o coerente con la loro visione del mondo, con le loro convinzioni tecniche o, più semplicemente con i loro interessi. E’ possibile che la pressione internazionale per abbassare i salari nel nostro paese sia legata agli interessi dei gruppi sociali forti, in primo luogo di nuovo i mercati finanziari, per creare le condizioni di un ulteriore ampliamento del risparmio e quindi anche delle risorse disponibili per la finanza, o per migliorare la propria posizione nella distribuzione dei redditi. E dunque che le motivazioni di interventi come il JA non abbiano affatto un retroterra tecnico, come non poche analisi suggeriscono. Quello che é certo, é che, ripetiamo, date le regole attuali, la fiducia dei mercati finanziari e delle istituzioni internazionali é indispensabile per creare le condizioni se non di uno sviluppo consistente, per evitare il proseguire di politiche recessive. Nel giudizio sul JA non si deve dimenticare che se é coerente con la cultura e gli interessi dei mercati e delle istituzioni internazionali, finisce dunque con l’esserlo anche rispetto all’interesse del nostro paese. Almeno nel breve periodo.
- JA e lungo periodo. Abbiamo già detto che la questione degli effetti sulla stabilità del lavoro sia irrilevante e che il problema é piuttosto quello degli effetti in termini di crescita di reddito e occupazione. La risposta a questa domanda non é scontata e dipende dagli occhiali teorici con cui si guarda al problema. Per la cultura oggi largamente prevalente la risposta é positiva. La flessibilità sociale, come abbiamo già detto, asseconda le leggi economiche e favorisce lo sviluppo. Per tutti gli altri studiosi l’impatto é molto più discutibile e dipende da un insieme di circostanze piuttosto ampio e cioè in primo luogo da come gli imprenditori utilizzeranno i maggiori margini potenziali di profitto; se, in particolare, abbasseranno i prezzi o se faranno investimenti, etc. . Ammesso poi che gli imprenditori prenderanno le decisioni giuste dal punto di vista dello sviluppo, non si può affatto dare per scontata che vi sia domanda sufficiente per far aumentare produzione e reddito. In un contesto in cui la ricetta dei bassi salari é seguita da tutti i paesi é difficile pensare ad una domanda mondiale in espansione. In ogni caso, al momento, nessuna argomentazione può essere considerata conclusiva dal punto di vista delle prospettive economiche. Un problema non secondario perché se non si avvia un processo di uscita dalla crisi il sistema italiano potrebbe implodere. Interventi come il JA possono permettere al sistema politico italiano di guadagnare una fiducia a tempo. Gli stessi costi sociali, lo stesso allontanamento da valori fondanti la nostra convivenza civile, al di là dei differenti punti di vista, possono diventare accettabili se assumono un carattere strumentale verso qualcosa di diverso. E spetta alla politica trovare le strade che rendono questo possibile, in primo luogo attraverso una ripresa del dibattito sulle regole dell’economia. Se questo avverrà, ricorderemo le scelte degli ultimi anni come scelte sostanzialmente sagge. Se non dovesse avvenire, il giudizio non potrebbe che cambiare drasticamente.
(*) Docente di Politica Economica all’Università di Camerino