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Debito pubblico, fisco e sistema delle imprese

Il giorno 2 Luglio 2015, presso l’Università di Torvergata, si è tenuto un interessante dibattito tra cultori teorici (Professori: Gorini, Lupi, Piga e Vitaletti), parti sociali (Sindacalisti: Angeletti e Trevisani), e parti istituzionali (Dirigenti: Di Nicola e Pisani). Il tema è stato il debito pubblico, la fiscalità ed il sistema delle imprese. Il coordinatore è Diodato Pirone, capostruttura del settore economico del Messaggero. Il dibattito è stato ripreso in un video, reperibile in internet sul sito: https://youtu.be/BqC_ut0d9F8 . Io, di cui si presenta il libro Le due facce della luna. Il riformismo nell’economia politica, ho introdotto la discussione. 

Riguardo al debito pubblico ho premesso che occorre lavorare per una riduzione sia della pressione fiscale che della spesa pubblica, per le quali ho anche indicato gli strumenti nel breve termine. E’ inoltre fondamentale, strutturalmente, la riapertura del deficit pubblico, per rilanciare la domanda ed evitare di inoltrarci ulteriormente nella depressione economica. Questo perché gli investimenti privati languono, per la stasi demografica e la dominanza del settore dei servizi, mentre i risparmi, specie nei paesi avanzati, crescono in continuazione. Nei principali paesi avanzati il debito è cresciuto dal 2006 al 2013 dal 77% al 109% del Pil (Fiscal Monitor IMF, Aprile 2014). Paesi come la Germania, che evitano il debito, hanno avanzi della bilancia dei pagamenti enormi, vicini ormai all’8% Pil (secondo Eurostat 2014, Tables, Graphs and Maps Interface). L’avanzo della bilancia dei pagamenti ha effetti devastanti: nel libro si mostra che la crisi del 2007 è stata innescata dall’aggiunta dell’avanzo commerciale Cina a quello della Germania e dei paesi OPEC: così si è generato infatti un superamento del disavanzo strutturale statunitense, e si è innescato il tracollo. Quando il debito è alto rispetto al Pil occorre tuttavia, rispetto a quando il debito è basso, procedere al controllo dei saggi di interesse. La cosa va fatta in maniera coordinata: in particolare, si deve muovere il G20.

Alcuni degli intervenienti (Piga, Lupi) si sono detti favorevoli all’espansione della spesa pubblica (peraltro, non auspicata dal sottoscritto). Secondo loro, il problema principale è l’efficienza della Pubblica Amministrazione, che trova, in particolare in Italia, remore strutturali nella riluttanza  di dirigenti e di funzionari a prendere iniziative ed assumersi rischi. Ne derivano cautele, formalismi e desideri di “copertura”, forse più dannosi della corruzione. Questa è frequente nelle gare d’appalto (Angeletti, Lupi): in tale campo una riduzione delle stazioni appaltanti sarebbe auspicabile. Angeletti sostiene che il capitalismo finanziario ha alla base il debito pubblico. All’interno della spesa pubblica, gli intervenienti preferiscono quella per investimenti. Gorini sostiene la visione classica, per cui, strutturalmente, i risparmi si trasformano in investimenti salvo crisi congiunturali. Dunque il debito non si crea strutturalmente, e l’economia opera con saggi di interesse normalmente alti: la bassezza di quelli attuali è attribuibile alla crisi, che è congiunturale. Il debito è anche causa di squilibri intergenerazionali: ad esempio in Grecia ha favorito gli anziani, ed ha danneggiato i giovani. E’ la stessa posizione dell’autore del libro, fino ad alcuni anni fa.

Riguardo alla fiscalità, personalmente ne sostengo la riforma: ciò sia per consentire l’intervento strutturale sui tassi di interesse; sia per ridurre le rendite; sia per ridurre l’evasione. Sulle imposte dirette vanno potenziate le ritenute alla fonte, per consentire alle imprese meccanismi di prelievo  sugli interessi, che ne avvicini la tassazione al 100%, al netto della componente inflazionistica. Inoltre, per ridurre le rendite delle imprese, propongo una doppia aliquota, sul modello pre-riforma degli anni settanta: una normale, bassa, ed una superiore, quando i redditi superino certe soglie del saggio di profitto. La tassazione deve essere rigidamente su base nazionale e deve essere proporzionale. La progressività va cercata sui contributi sociali, dove può operare meglio che sull’Irpef; nonché sulla base di prelievi sui redditi settoriali, quando questi superino determinati ammontari, con applicazione da parte dei datori di lavoro. Le aliquote sulle imposte dirette devono scendere drasticamente, e quelle sulle imposte indirette devono salire, senza toccare l’Iva: si propone un prelievo elettrico ed uno sugli acquisti delle imprese. Il contenimento dell’evasione su queste basi sarebbe assicurato. Di più, si propone in tema di evasione una revisione degli studi di settore, concentrandoli sulle vendite al consumo. Parametri di controlli esterni degli studi sono necessari, e vanno basati sulla suddivisione dei consumi Istat, che sono da riportare, su base territoriale, alle singole imprese che vendono al consumo, coinvolgendo nell’operazione commercialisti e rappresentanze.

Lupi, Trevisani, Pisani e Di Nicola si sono occupati della tematica fiscale. Lupi sottolinea gli equivoci collegati alla spiegazione dell’evasione fiscale in termini di senso civico, ricordando che la maggior parte del gettito arriva attraverso organizzazioni pubbliche e private (tassazione attraverso le aziende), e che il dichiarato di piccoli commercianti ed artigiani, pur scontando una evidente evasione, è molto più veritiero, riguardo alla presenza della funzione di controllo degli uffici tributari su queste categorie di contribuenti. Trevisani affronta tre argomenti: la tassazione locale degli immobili; l’Irap; gli studi di settore. Sulla tassazione degli immobili sottolinea l’assoluta necessità che quelli strumentali utilizzati dalle imprese non siano trattati alla stregua delle seconde case. Ritiene, pertanto, necessaria la previsione di un’aliquota massima di tassazione notevolmente più ridotta dell’attuale. Ricorda, al riguardo, che la sola IMU pesa sui bilanci delle imprese per circa 7,2 miliardi e che l’indeducibilità della stessa determina un ulteriore prelievo in termini di maggiori imposte dirette ed IRAP pari a circa 1,4 miliardi. Sull’Irap ritiene necessario – anche alla luce del fatto che il tributo è stato snaturato nel corso degli anni eliminando, in primis, il costo del lavoro – un suo ripensamento complessivo, magari ritornando ad un’imposta similare alla vecchia ILOR. Sugli studi di settore Trevisani sostiene che gli stessi sono un positivo elemento di compliance, mentre il loro utilizzo in accertamento (trattandosi, pur sempre, seppur sofisticati, di valori parametrici) ha dimostrato nel tempo la propria “fragilità”. Pertanto è dell’avviso che gli studi possano essere utilizzati in sede di selezione dei contribuenti ed anche per attribuire un regime premiale a coloro che sono perfettamente in linea con gli stessi. Pisani sostiene che ora l’Agenzia delle entrate ha un budget di cassa sul recupero dell’evasione, che si posiziona ormai su quattordici miliardi di euro. Sull’evasione la Ue calcola che i lavoratori autonomi in media evadano il doppio dei dipendenti: è dunque la prevalenza del lavoro autonomo, cioè della piccola impresa, la causa della maggior evasione in Italia.  Di Nicola apprezza il passaggio dalle imposte dirette alle imposte indirette, che rafforzerebbe la competitività del sistema in un regime di cambi fissi, non escludendo nemmeno un utile ruolo redistributivo dei contributi proposto dall’autore del libro. Insiste tuttavia per la preservazione del ruolo dell’Irpef, oggi unica imposta ad operare una significativa azione redistributiva, sebbene bisognosa di importanti ed urgenti correttivi, per superare inefficienze e paradossi ricordati anche dall’autore. Sul sistema pensionistico, è d’accordo sul fatto che esso generi un forte deficit strutturale, sui cinquanta miliardi. Esso è dovuto tuttavia ai trattamenti del passato: per il futuro il sistema contributivo introdotto con la riforma del 1995 è destinato a portare equità tra generazioni ed equilibrio finanziario, e dovrebbe perciò accompagnarsi a pensionamenti flessibili con approccio attuariale, fondamentali in un’economia globalizzata.

Veniamo alla piccola impresa. Io ne ho sostenuto l’importanza e la vitalità, in specie per l’economia italiana, dove, assieme ai suoi dipendenti, genera la maggioranza dell’occupazione. Sono in particolare preoccupato per i molti che insistono sulla mancanza di competitività dell’economia, quando, soprattutto a causa delle medie imprese, si genera ormai un avanzo della bilancia dei pagamenti pari al 4% del Pil, maggiore del massimo previsto dalle regole europee. Ciò è avvenuto nonostante la concorrenza cinese, che è sostanzialmente sleale, in quanto basata su retribuzioni bassissime.

La maggioranza degli intervenienti ha ripreso questo tema. Piga, in primo luogo, ha ricordato che nessuno degli ultimi tre governi, compreso il governo Renzi, ha varato la legge di sostegno della piccola impresa, nonostante essa fosse pronta; né l’Europa, diversamente dalle altre grandi nazioni (USA, Cina, etc.), si è preoccupata di introdurre un riserva per gli appalti delle piccole imprese. Lupi ha affermato che tutto il settore privato dell’economia si basa su regole semplici, che gli imprenditori attuano, non avendo tempo di occuparsi del resto: a questo provvedono i commercialisti. Trevisani ha detto che ormai la piccola impresa, quella fino a cinquanta dipendenti, è la maggioranza dell’economia italiana. Pisani ha affermato che si può tentare di rialzare la dimensione media: è tuttavia ormai un dato acquisito che in Italia la dimensione è più bassa che negli altri paesi avanzati. 

L’intervento di Angeletti sulla piccola e media impresa è stato esemplare.  Egli ha notato in particolare che la Uil da due anni ha cambiato organizzazione, strutturandosi “a rete”, cioè sul territorio, di cui tende a seguire tutte le competenze. Prima, invece, era organizzata “per categorie” (metalmeccanici, chimici, ecc.), come lo sono tuttora, in prevalenza, la Cisl e la Cgil. Secondo lui questo è un portato della grande crisi, che ha ridotto ulteriormente la dimensione delle imprese. Un altro aspetto di cambiamento del sindacato (in questo caso, tutto) è verso la grande impresa. Prima questa era intesa come un monopolio, per cui doveva adeguarsi ai desiderata sindacali (come dimostra esemplarmente l’atteggiamento tenuto verso la Fiat). Ora la concorrenza globale manifesta in pieno i suoi effetti, ed il sindacato si è dovuto adeguare: questo spiega accordi come quello di Pomigliano d’Arco, con la disponibilità a lavorare anche i giorni festivi. In passato un accordo del genere sarebbe stato inconcepibile.

 

 (*) Membro del Collegio dei Sindaci Inps

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