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Cio’ che non va nella scuola secondo Matteo

Perché la legge 107/2015 (meglio nota come Buona Scuola), che, effettivamente, introduce un’inversione di tendenza rispetto alle politiche scolastiche dell’epoca Tremonti – Gelmini, interrompendo il “borseggio” del bilancio del MIUR, e, anzi, dando luogo a nuovi investimenti nel settore, è, ciò  nonostante,  così palesemente invisa al “popolo della scuola”, il quale ha espresso il proprio clamoroso dissenso con uno sciopero, quello del 5 maggio 2015,  che resterà negli annali, avendo registrato l’adesione di oltre 600.000 operatori scolastici, pari all’80% degli addetti?

Beh, intanto i numeri degli investimenti previsti non sono quelli ufficiali. Prendiamo, ad esempio, la questione delle assunzioni, sulla quale il governo ha particolarmente accentrato la propria comunicazione. Dai 150.000 posti annunciati nel documento dello scorso settembre 2014 (le famose 136 pagine sulle quali il governo avviò una – per le sue tesi –  deludente consultazione on line) si è passati ai 102.734 effettivi. Dei quali, peraltro, circa la metà è semplice e doveroso turnover e solo 50.000 il cosiddetto organico potenziato, ossia l’investimento in risorse professionali che dovrebbe assicurare il rafforzamento dell’offerta formativa. 

Niente di clamoroso, quindi, e, anzi, complessivamente, qualcosa in meno di quanto fatto dagli stessi governi di centro destra, i quali da una parte tagliavano e, dall’altra, rimpiazzavano il turnover degli anni di propria competenza. Con in più l’aggravante che i provvedimenti governativi hanno fortemente diviso il mondo del precariato, in quanto la scelta di stabilizzare solo gli iscritti nelle graduatorie ad esaurimento non tiene conto del fatto che molte di quelle graduatorie sono, vivaddio, effettivamente esaurite e che, nel frattempo, in questi anni il funzionamento della scuola è stato assicurato dai precari delle graduatorie di istituto, con gli stessi titoli e, assai spesso, con maggiore servizio effettivamente prestato nella scuola. 

A ciò si aggiunga, poi, che i fortunati vincitori della lotteria si sono dovuti sobbarcare l’onere di una disagevole e costosa migrazione interna nelle varie regioni d’Italia, per raggiungere la sede di destinazione. Debole, per gli insegnanti che conoscono la realtà, la difesa del governo rispetto a questa obiezione, che più o meno recita: non è colpa nostra se gli alunni sono al Nord e gli insegnanti vengono dal Sud. Sarebbe bastato, difatti,  un pur fugace confronto con il sindacato (evitato, invece, come la peste) per avere la “dritta” giusta, ossia: stabilizzare l’organico di fatto (cioè quello che si utilizza effettivamente ogni anno, in deroga ai parametri ufficiali dell’organico di diritto) per avere gli insegnanti che servono, nei posti in cui servono. 

A questa stabilizzazione si sarebbe aggiunto il potenziamento e si sarebbe, così, realizzato un provvedimento equo e inattaccabile politicamente. Ma ci voleva  l’umiltà, che il governo non ha mostrato, né in questa, né in altre occasioni, di ammettere che il confronto con il sindacato può essere utile. 

Naturalmente, la 107 mette in campo anche somme destinate ad usi diversi da quelli occupazionali, ad esempio nel campo dell’edilizia scolastica, dove la situazione è drammatica e ha dato luogo anche ad incidenti mortali (Vito Scafidi, studente 17enne, morto nel 2008 per il crollo del controsoffitto di un’aula del liceo Darwin di Rivoli). Ma, nella loro innegabile importanza, queste spese sono considerate, e sono di fatto,  semplicemente dovute. 

La Scuola non ritiene di dover essere particolarmente grata per provvedimenti che, da un lato, il governo avrebbe dovuto assumere ben prima di ora  e che, per di più, sono vissuti, nel comune sentire, come un’accorta misura anticongiunturale che aiuta, però, più l’ edilizia che non la Scuola in senso stretto. Non è che i magistrati o i medici si considerino particolarmente beneficati dall’esecutivo di turno quando quest’ultimo provvede ad evitare che gli operatori della giustizia o quelli della sanità rimangano sepolti sotto le macerie dei palazzi di giustizia o degli ospedali!

Sempre sul piano degli investimenti, si è molto parlato in questi giorni dei 500 euro annuali destinati alle spese di aggiornamento del personale docente. Un importo erogato congiuntamente allo stipendio, ma da rendicontare puntigliosamente, che i docenti finiscono per considerare più un adempimento che non un benefit. Anche qui, elargire somme al di fuori di una strategia complessiva  (affidandole, così, almeno in parte,  alla discrezionalità di chi le usa e potrebbe, quindi, lasciarsi soggiogare dal fascino della filosofia indiana, anche quando insegna, poniamo, economia aziendale o elettrotecnica) appare più una scelta volta a favorire la circolazione del denaro che non un aiuto alla Scuola in quanto tale. 

Forse,  nel quadro della filosofia del provvedimento, che si presume sia quella di concedere un aiuto generico alla classe docente, al di fuori dell’ottica sistemica di una politica dell’aggiornamento, sarebbe stata più utile, e più compresa, la possibilità di detrarre la stessa cifra dalla dichiarazione dei redditi, come avviene per altre categorie di professionisti.

Insomma, gli aspetti positivi che la legge 107 presenta affogano nel raffazzonamento complessivo del provvedimento, frutto di un’improvvisazione che consegue alla pretesa dell’autosufficienza da parte del governo Renzi, restio al confronto sociale anche più di quanto accadesse con i governi di centro destra. Ecco, allora, che, inevitabilmente, gli operatori finiscono per focalizzare la propria attenzione in modo pressoché esclusivo sugli aspetti negativi di quella che possiamo definire, con evocativa assonanza, la Scuola secondo Matteo. 

In primis, la chiamata diretta dei docenti da parte del dirigente scolastico, sia pure nel quadro delle liste di nomi presenti nei cosiddetti ambiti territoriali. Una misura che trasforma geneticamente la Scuola italiana da quella dai “Decreti Delegati” del 1974 (ossia la comunità educativa) nella Scuola del dirigente scolastico, il quale, attraverso la scelta del corpo docente, ha la possibilità di plasmare l’istituto che dirige a propria immagine e somiglianza, con buona pace del dettato costituzionale in materia di libertà di insegnamento (art. 33, principale estrinsecazione dell’art. 21 che statuisce la libertà pensiero). Il timore è che i dirigenti di sinistra assumano i docenti di sinistra, mentre quelli di destra possano agire in modo simmetricamente opposto; e così via tra tutte le possibili dicotomie che dividono un paese da sempre campanilista e fazioso, tanto da conservare il segno della propria partigianeria nei cognomi più diffusi sul territorio nazionale (Rossi, Bianchi e Verdi). 

Così, non è difficile immaginare, già oggi, uno scenario di scuole attente alla provenienza  regionale dei propri insegnanti e magari, in prospettiva futura, nell’Italia sempre più multietnica in cui viviamo, di scuole sensibili all’orientamento religioso. Nel senso che, quando sarà realizzata l’auspicabile integrazione degli immigrati nel nostro contesto sociale e le quarte o quinte generazioni avranno la possibilità di accedere a professioni più elevate di quelle attualmente ricoperte, il meccanismo selettivo previsto dalla 107 potrebbe – perché no? – favorire  la “coesistenza competitiva” tra le istituzioni scolastiche ad indirizzo cattolico e quelle ad indirizzo islamico.  Un epilogo degno delle ossessioni dello scrittore francese Houellebecq e una vera e propria beffa per la Scuola attuale, che in questi anni ha ricoperto il ruolo di presidio pressoché unico per l’integrazione dei nuovi cittadini, nel contesto di tipo laico e pluralistico voluto dalle leggi vigenti. 

L’altro provvedimento della legge 107 particolarmente in uggia ai docenti è il meccanismo premiale del bonus sullo stipendio, concesso ai docenti più meritevoli da un ridisegnato Comitato di valutazione, in cui sono presenti anche genitori e studenti. Al di là della fin troppo facile obiezione che concedere il diritto di valutare il merito dei docenti a studenti, o genitori di studenti, con scarso rendimento scolastico equivale a dare agli ergastolani il potere di giudicare la magistratura, il punto è che questi meccanismi introducono competizione laddove  ci sarebbe bisogno di cooperazione e condivisione (si veda, in proposito, il rapporto della Fondazione Agnelli – dicesi Fondazione Agnelli e non sezione Rosa Luxemburg di Pietralata-  dal titolo La valutazione della scuola, A cosa serve e perché è necessaria all’Italia, Laterza, 2014, pagg. 140-144). 

La Scuola ha certo bisogno di costruire una propria cultura della valutazione, ma come strumento offerto al singolo docente e alla scuola stessa nel suo complesso per misurare e valutare l’efficacia e l’efficienza della propria performance. L’ottica adottata dal governo sottende, invece, un’idea rozza e un po’ qualunquista della valutazione di una prestazione intellettuale complessa, il cui esito dipende in parte da colui che la eroga e in parte dalla predisposizione individuale di colui che la riceve, a sua volta condizionata da una molteplicità di fattori di difficile individuazione e quantificazione. 

Dopodiché, sarà forse anche possibile costruire istituti che premino il merito individuale, prestando, però, la dovuta attenzione al fatto che, per promuovere il largo successo formativo di cui il Paese ha bisogno, è più utile che la Scuola assomigli a un buon coro, capace di eseguire all’unisono la stessa partitura, piuttosto che a una confusa accozzaglia di ottimi cantanti solisti, ognuno dei quali canti la romanza che gli piace di più. In questo quadro, non è certo una buona premessa il fatto che, a fronte delle pur non eccelse somme offerte per la valutazione individuale, per i rinnovi contrattuali ordinari della scuola, invece,  siano stabiliti, nel momento in cui scriviamo, sette euro per operatore, dopo un blocco legislativo del contratto che dura dal 2009. 

Last, but not least, la Scuola non si fida dell’uso che il governo farà della troppe deleghe che la legge 107 contiene e che possono stravolgere ancora più profondamente la sua organizzazione. Basti pensare alla delega concernente la redazione di un nuovo testo unico che raccolga in un solo atto tutta la complessa e dispersa normativa scolastica, con annesso potere di modifica da parte del governo, soggetto delegato. 

In conclusione, la vicenda della Buona Scuola è paradigmatica dei limiti che caratterizzano l’azione di un governo che, nel giovanile ardore che anima la sua azione, sembra dimenticare il senso positivo del dialogo sociale e della concertazione, che nulla tolgono al potere decisionale del governo. Non è stata la concertazione ad impedire ai governi del passato di governare. Semmai, dietro di essa, questi hanno nascosto le proprie indecisioni ed incertezze. Adesso si cade nell’estremo opposto.

 

 

 (*) Segretario Regionale Cisl Scuola Lazio

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