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Le aspettative declinanti di una generazione (e di un paese)

Tra i doni avvelenati consegnati dalla crisi in questi anni, quello del conflitto latente, sul mercato del lavoro e fra generazioni, ha assunto aspetti e declinazioni inattese.

Gli spazi si sono ristretti: entrare nell’arena occupazionale non è stato mai così difficile, soprattutto per i giovani; uscirne invece è diventato allo stesso tempo molto facile, ma anche più difficile se si punta a mantenere standard di vita accettabili, paragonabili a quelli raggiunti durante la vita lavorativa, una volta ritirati dal lavoro.

La segmentazione dell’offerta di lavoro e degli occupati, indotta e prodotta dalla crisi, non si è soltanto esplicitata nell’evidente svantaggio e nelle difficoltà dei giovani nell’accesso al lavoro, ha anche ridotto l’orizzonte di opportunità delle persone più avanti nell’età, a partire da chi ha oggi 50 anni.

Non si è innescato solo un deficit di turn over, ma si sta diffondendo una concorrenza latente e “intragenerazionale” che si traduce in una ricerca affannosa del mantenimento dei livelli di benessere raggiunti, in comportamenti conservativi che riflettono la riduzione oggettiva degli spazi di iniziativa e alimentano inevitabilmente un “egoismo difensivo”.

Sul piano demografico, chi è nato nel 1964 – appunto cinquant’anni fa – è appartenuto ad una delle coorti più consistenti rispetto ai livelli di natalità, e le famiglie in cui i cinquantenni sono cresciuti hanno beneficiato degli importanti progressi sul piano della salute, dell’istruzione, dell’assistenza e del benessere realizzati negli anni seguenti in Italia. La visione del futuro delle famiglie e degli individui nei successivi vent’anni, pur dovendo questi affrontare i periodi più bui dello scontro politico e pur dovendo adeguarsi, per la prima volta dopo molti anni, agli effetti di un’austerità indotta da shock economici esterni, è restata comunque positiva, trainata dal ricordo della sfida alla povertà, vinta dalle generazioni precedenti, all’indomani della fine della Guerra.

Sul piano occupazionale, l’ingresso nel mondo del lavoro di questa generazione è avvenuto intorno alla fine degli anni ’80, proprio nel momento in cui in Italia si esauriva la spinta alla crescita di quel decennio, sebbene si trattasse di una crescita “drogata” da un incontrollata propensione all’indebitamento da parte del settore pubblico.

Qualche anno dopo, le vicende politiche dei primi anni ‘90, un crescente rigore delle finanze pubbliche (su tutte la riforma delle pensioni nel 1995) collegato all’avvio della creazione della moneta unica europea e un progressivo indebolimento della struttura produttiva italiana, dovuto all’intensificarsi dei processi di integrazione economica a livello mondiale, modificavano sostanzialmente la proiezione delle aspettative individuali.

Da allora in poi la sensazione di incertezza ha trovato un continuo alimento nella deludente performance dell’economia italiana – la produzione di ricchezza nazionale entra, a partire dalla metà degli anni ’90, in una fase di tendenziale stagnazione, per poi sfociare in una crisi di cui ancora non si riesce a vedere la fine – e ha portato gli individui di questa generazione alla ricerca di posizioni difensive, di ripiegamento e di ridimensionamento dei propri obiettivi di benessere.

Soffermarsi su chi ha oggi cinquant’anni può essere una prospettiva di interpretazione interessante per ragionare sui fattori che hanno generato e stanno generando una ricomposizione delle traiettorie di benessere. Ma forse non è sufficiente.

Occorre guardare anche alle componenti più anziane, a chi ha oggi sessant’anni o settant’anni, alla loro presenza – se non alla loro persistenza – nel mercato del lavoro e alla loro condizione di vicinanza alla pensione, traguardo questo che sta via via diventando sempre più centrale nella riflessione individuale, poiché su questo elemento si gioca buona parte del trade off tra incertezza e sicurezza nel momento in cui si uscirà dal lavoro.

Occorre guardare a queste fasce d’età per capire il crinale che ha preso il nostro sistema di welfare, generando una latente conflittualità tra chi ha acquisito legittimamente determinati diritti e che legittimamente potrà godere di un livello di sicurezza garantito, e chi invece vedrà avvolgere

nella nebbia il proprio destino e la propria stabilità economica al momento della pensione, a fronte di un forte disallineamento fra percettori e finanziatori del sistema previdenziale.

Bisogna provare a comprendere gli effetti che le recenti riforme del lavoro e delle pensioni stanno producendo, non soltanto sul versante della sostenibilità delle finanze pubbliche, ma anche sulla quotidianità delle persone e delle famiglie, sulle aspettative di una generazione che ha già sulla pelle i segni di sette anni di crisi, sulle scelte obbligate di ridimensionamento degli obiettivi di benessere, che la retorica della “sobrietà”, a cui si è fatto grande ricorso in questi anni, a stento nasconde.

Tutto ciò getta però un’ombra sui destini stessi del Paese e sulle sue possibilità di crescita futura, dato che il rischio di una progressiva precarizzazione di una parte delle classi più “anziane”, ma ancora in età lavorativa, sembra altrettanto verosimile di quello che ha già assunto caratteri strutturali per le classi più giovani.

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 IN ATTESA CHE ARRIVI LA RIPRESA

In conclusione, mettendo in fila il percorso di analisi e di considerazioni fin qui effettuato, il destino degli Over 50 sembra piuttosto segnato da una serie di condizionamenti, la cui rimozione soltanto potrà generare uno spazio nuovo di opportunità, spazio che al momento appare invece in progressivo ripiegamento.

In particolare:

– pesa su chi ha oggi cinquant’anni una crescente incertezza su quando e come si giungerà alla pensione e, di conseguenza, sulla motivazione ad affrontare i prossimi anni con uno spirito di iniziativa adeguato al livello di incertezza che oggi si coglie e ai rischi reali di cadere nella precarietà;

– pesa ancora sulla componente più giovane degli Over 50 la sensazione di aver “perso il treno” della crescita passata, di trovarsi ancora davanti spazi preclusi da chi è più avanti nell’età e che tende, o è obbligato, a procrastinare il momento dell’uscita dall’occupazione;

– si coglie inoltre la pressione delle classi più giovani – giustamente al centro dell’attenzione delle politiche – che nella logica del turn over e della “staffetta generazionale” spiazzano o spiazzeranno nel breve i più anziani, anche perché i giovani sono portatori di competenze, conoscenze e comportamenti nuovi, legate all’uso delle tecnologie digitali;

– cresce inoltre il senso di spiazzamento (di “vuoto”) rispetto alle competenze richieste dal mercato: la sensazione è quella che nel caso di uscita dall’occupazione, si debba rientrare obbligatoriamente in posizioni di sottoqualificazione rispetto al livello di esperienze e conoscenze acquisite.

L’attenzione delle politiche attive del lavoro in questi anni si è progressivamente orientata ad affrontare le condizioni dei lavoratori più anziani. Osservando il volume dei beneficiari degli interventi fra il 2010 e il primo semestre del 2013 ed escludendo opportunamente dal totale il numero degli apprendisti, emerge una quota crescente per gli Over 50 che passa dal 12,4% al 15,5%, per un volume complessivo di beneficiari che si avvicina alle 100mila unità (tab. 12).

  

In particolare sono le assunzioni agevolate di disoccupati o beneficiari di cassa integrazione straordinaria da almeno 24 mesi a raggiungere il numero medio più elevato di beneficiari: circa 40mila individui nel primo semestre del 2013.

Seguono le assunzioni agevolate di lavoratori iscritti alle liste di mobilità, con modalità contrattuale a tempo determinato: in questo caso la platea dei beneficiari si aggira nei tre anni intorno alle 20mila unità.

A questi segmenti in “sofferenza” si possono anche aggiungere:

– La platea dei “salvaguardati” che in base ai diversi decreti di copertura ha raggiunto, al marzo di quest’anno, un volume che si aggira intorno ai 140 mila lavoratori (tav. 3).

– La dimensione della sottoccupazione che per la fascia di età 55-74 riguarda 70mila addetti con un incremento, tra il 2008 e il 2013, del 119%.

– La condizione di chi è in part time involontario, che per i 55-74enni ha raggiunto nel 2013 quota 219mila, più che doppia rispetto al 2008.

In prospettiva, inoltre, non si può non tener conto degli effetti che la riforma della Pubblica Amministrazione potrà produrre nel medio periodo, seguendo una logica di turn over e ricambio generazionale: nel 2012, secondo i dati Aran, i dipendenti stabili con un’età uguale o superiore ai 60 anni erano pari a 240mila, su un totale di 3 milioni e 238mila dipendenti, (quasi l’11%); l’età media nella PA ha raggiunto i 49 anni nel 2012 con un incremento di cinque anni rispetto al 2001. L’età media dei dirigenti è ancora superiore: 53 anni.

Il matching fra i bisogni emergenti e complessi che vengono da parte della componente più anziana dell’occupazione e le tipologie di interventi di politiche attive e passive del lavoro, messe in atto in questi anni, rappresenta il banco di prova per una verifica di efficacia, ma finora la verifica si è misurata all’interno di un quadro di riferimento schiacciato, per forza di cose, sull’emergenza.

Ciò che sta diventando necessario è invece una visione di ampio spettro su come affrontare un passaggio – anche al di là del tanto atteso ritorno alla crescita – in cui stanno mutando decisamente il concetto di vita attiva e la relazione fra lavoro, stabilità contrattuale, sicurezza economica.

 

 (*) Sono qui riprodotti 2 capitoli (1° e 5°) di un documento del CENSIS, dall’iniziativa UN MESE DI SOCIALE del 18.06.2014, dedicata a ” IL VUOTO DELLA GENERAZIONE ADULTA” sul tema degli OVER 50 

 

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