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Per il nuovo mercato del lavoro rivedere l’idea di pensione

Il Presidente dell’Inps Boeri ha ripetutamente affermato che il sistema pensionistico italiano ha bisogno di un’ultima riforma, proponendo un intervento in favore della flessibilità di uscita dal lavoro prima dell’età di vecchiaia. Per Boeri, quindi, il problema residuo del sistema pensionistico italiano così come riformato dai ripetuti interventi operati dal 1992 (Amato) al 2011 (Fornero) è quello dell’età di pensionamento. 

Non vi è dubbio che la crisi esplosa nel 2008 con gli effetti pesanti sull’occupazione ha evidenziato tutti i limiti della riforma Fornero su questo punto e la pesante sottovalutazione della crisi in atto, con la conseguente necessità di ripetuti interventi di “salvaguardia” dei cosiddetti esodati (con l’attuale legge di stabilità siamo alla settima salvaguardia). L’eliminazione delle quote, previste dall’accordo sul welfare del 2007 e la crisi economica hanno posto e pongono certamente un problema di tutela dei lavoratori espulsi dal mercato del lavoro in tarda età ma ancora lontani dall’età di pensionamento di vecchiaia. 

Credo tuttavia che, aldilà di provvedimenti contingenti, sia sbagliato chiedere al sistema pensionistico di porre rimedio a questo problema. Una flessibilità di tre anni non è certo in grado di risolvere il problema degli ultracinquantenni espulsi dal mercato del lavoro e non si può certo pensare di estendere la flessibilità ad un numero superiore di anni (quanti?). Vorrebbe dire mettere in discussione tutto un processo di riforma basato sulla necessità di adeguare l’età della pensione all’aumento della speranza di vita e alla necessità di creare un nuovo equilibrio tra lavoratori attivi e pensionati. 

Il problema va affrontato con gli strumenti del mercato del lavoro, prevedendo appositi ammortizzatori sociali al cui finanziamento debbono concorrere le imprese. Alcuni strumenti in tal senso sono stati, invero, introdotti. I fondi di solidarietà, come disciplinati dalla legge 92/2012 e dal decreto legislativo n. 148/2015, possono erogare prestazioni di sostegno al reddito che accompagnano fino alla pensione i lavoratori anziani espulsi dall’azienda ed ai quali manchino non più di 5 anni dal raggiungimento del diritto a pensione. Un istituto simile è quello previsto dall’art. 4 della legge 92/2012 che consente all’azienda di erogare, a proprie spese, una prestazione sostitutiva della pensione (la cosiddetta isopensione) per quei lavoratori in esubero ai quali mancano non più di 4 anni dal diritto a pensione. 

Si tratta, tuttavia, di misure parziali sia perché non riguardano la generalità dei datori di lavoro (solo quelli con più di 5 dipendenti, nel caso della prestazione erogata dai fondi di solidarietà, e solo le imprese con almeno 15 dipendenti, nel caso della prestazione a carico dell’azienda) sia perché si tratta di strumenti affidati alla sola contrattazione collettiva. Queste misure andrebbero rese obbligatorie, invece, in tutti i processi di gestione di esuberi di personale. E’ la via seguita da altri paesi europei che non caricano sul sistema pensionistico forme camuffate di prepensionamenti o di tutela reddituale di disoccupati anziani, ma che le collocano in altri settori del welfare. 

Una flessibilità superiore ai tre anni comporterebbe poi una penalizzazione necessariamente alta e rovescerebbe sul lavoratore il costo dell’intervento con una drastica e inevitabile riduzione dell’importo della sua pensione. Il problema non è quello di chi sceglie volontariamente di lasciare il lavoro, ma quello di chi è espulso dal lavoro; perché penalizzare questi ultimi anche sul lato pensionistico? Un’estesa flessibilità di uscita non costituirebbe un incentivo per le imprese a espellere lavoratori anziani appena raggiunta l’età minima prevista dalla flessibilità, senza costi per l’impresa e scaricando sui lavoratori gli effetti negativi e permanenti sulla pensione?

Identificare il problema della flessibilità come l’ultimo problema da risolvere nel nostro sistema pensionistico significa, peraltro, dimenticare e sottovalutare il vero problema dell’attuale sistema, il suo scollamento con il mercato del lavoro ai fini della maturazione di una pensione adeguata. L’attuale sistema pensionistico a base contributiva è costruito sulla figura di un lavoratore che sta diventando sempre più minoritario sul mercato del lavoro, un lavoratore regolare e continuo nella sua contribuzione. A chi possiede queste caratteristiche il sistema assicura prestazioni pensionistiche sufficienti, a chi ne è privo no. 

Per chi ha carriere irregolari, vuoti contributivi, bassi stipendi, basse contribuzioni le aspettative pensionistiche sono negative e insufficienti, spesso anche con età di pensionamento molto ritardate. Non è colpa del contributivo, anche nel sistema retributivo chi aveva pochi anni di contribuzione e/o basse retribuzioni maturava basse pensioni e ne sono testimonianza le pensioni integrate al minimo e, in generale, molte pensioni di importo basso attualmente esistenti. 

Quello che è cambiato è il mercato del lavoro. In passato esistevano certamente situazioni di lavoro precario ma anche un mercato del lavoro caratterizzato da un esteso e maggioritario numero di lavoratori regolari. Oggi il rapporto tra queste figure di lavoratori si sta capovolgendo, mentre il sistema pensionistico è rimasto legato ad un mercato del lavoro ormai in via di superamento.

Un sistema pensionistico non può risolvere i problemi del mercato del lavoro, vedi ad esempio la flessibilità in uscita, ma non può prescindere dal mercato del lavoro, altrimenti corre il rischio di non assicurare pensioni sufficienti e di essere insostenibile socialmente.

Un segno evidente dell’occhio rivolto al passato con cui ci si è mossi in tutto il processo di riforma pensionistica iniziato nel 1992 è stata la previdenza complementare. Rilanciata con la legge 335 dopo la falsa partenza del 1992, la previdenza complementare si poneva l’obiettivo di integrare la pensione pubblica comunque ridotta dall’estensione a tutta la vita lavorativa della modalità di calcolo della pensione. Obiettivo condivisibile che, tuttavia, presume anche per la previdenza complementare una carriera regolare e continua e, comunque, una disponibilità di reddito da destinare a questa forma di previdenza. Senza poi dimenticare che il finanziamento maggiore alla previdenza complementare proviene dal Trattamento di fine rapporto, istituto tipico del lavoratore dipendente.  La previdenza complementare così come costruita non è uno strumento capace di porre rimedio alle mancanze della previdenza pubblica, ma, come quest’ultima, guarda al lavoratore dipendente regolare e continuo. Questo lavoratore può maturare una pensione pubblica adeguata a cui eventualmente affiancare una pensione complementare. Il lavoratore precario, solitamente sprovvisto del Tfr, non ha possibilità di maturare una pensione pubblica adeguata e non ha le risorse per dotarsi di una pensione complementare.

Non si è cercato di attenuare questo problema e di aiutare il lavoro precario nemmeno con la normativa fiscale relativa ai fondi pensione. I contributi alla previdenza integrativa sono esenti dall’Irpef nei limiti di un tetto peraltro elevato. I vantaggi maggiori di questa esenzione non vanno ai bassi redditi ma ai redditi più alti soggetti ad una aliquota marginale maggiore e, probabilmente, in grado di aderire alla previdenza complementare anche senza incentivi fiscali.

Guardando al futuro c’è da attendersi un progressivo esplodere di una grave questione sociale rappresentata dalla progressiva diffusione di pensioni non adeguate. Un’esplosione che può essere preceduta da un forte contrasto tra generazioni con ridotte aspettative pensionistiche e un insieme di pensionati che ha goduto di un mercato del lavoro e di regole pensionistiche più favorevoli. Scontro che può crescere di intensità mano a mano che si passerà da aspettative a realtà pensionistiche inadeguate. Se questo è vero, credo allora che il problema principale da affrontare nel nostro sistema pensionistico non sia quello della flessibilità ma quello, per usare un’espressione corrente, della sua sostenibilità sociale per le prossime generazioni di pensionati.

Una delle strade percorribili è quella a cui il governo Prodi rinunciò nel 2007, anche per la contrarietà dei sindacati confederali, l’istituzione di una pensione di base finanziata dallo stato a cui aggiungere la pensione contributiva e, eventualmente, quella complementare. Una pensione di lavoro, maturata con un minimo di anni di lavoro, che può assicurare anche a chi matura una pensione contributiva bassa un importo complessivo di pensione sufficiente. 

Nel 2007 vi erano anche i presupposti finanziari per realizzarla parallelamente ad una equiparazione di contributi pensionistici tra le diverse categorie di lavoratori, dipendenti, precari e autonomi. Oggi le condizioni finanziarie sono certamente più difficili, ma è aumentata la consapevolezza delle prospettive negative derivanti dallo scollamento tra mercato del lavoro e sistema pensionistico e si evidenzia uno scontro generazionale che trova per ora ipotesi di risposte nelle proposte di ricalcolo delle pensioni in essere formulate da Boeri. 

Si tratta di proposte costituzionalmente e tecnicamente senza fondamento e dirette, soprattutto questa volta a finanziare la flessibilità in uscita, non a favore delle generazioni più giovani, ma a favore delle ultime classi delle generazioni più favorite dal vecchio sistema pensionistico.

Non vi è dubbio che l’insieme delle pensioni retributive non corrisponda ai contributi versati. Questa corrispondenza – in un sistema che non collegava la pensione all’età di pensionamento, che basava il calcolo della pensione sugli ultimi anni di lavoro, che non considerava (autonomi) – l’entità dei contributi, era “l’eccezione” e non la regola. Ma nessuno di questi pensionati ha infranto la legge, tutti sono andati in pensione secondo le regole vigenti. Insensato inventarsi ipotesi di ricalcolo tra l’altro tecnicamente difficili, se non impossibili, da attuare. Si può tuttavia immaginare un contributo di solidarietà in base al reddito pensionistico da destinare a un fondo Inps, condizione necessaria per superare eventuali contestazioni della Corte Costituzionale, volto a finanziare una pensione di base per le prossime generazioni. 

 (*) Esperto di previdenza, ex dirigente generale dell’Inpdap       

 

 

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