Il 15 dicembre del 2015 la Commissione Bilancio della Camera ha bocciato un emendamento per l’estensione della Dis-Coll agli assegnisti, ai dottorandi e ai titolari di borse di studio. Con questa decisione il Governo, contrariamente a quanto sancito dalla Carta Europea dei Ricercatori, si è rifiutato di estendere anche alle ricercatrici e ai ricercatori non strutturati il diritto a ricevere l’indennità di disoccupazione prevista invece per gli altri lavoratori parasubordinati. Con quale motivazione? Sebbene iscritti alla Gestione Separata INPS, secondo un’interpretazione alquanto discutibile dell’art. 22 della famosa legge 240/2010, per il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il rapporto di lavoro con l’Università dei precari si caratterizza come “fortemente connotato da una componente formativa”.
A questo ulteriore tentativo di delegittimazione del lavoro di ricerca, del sistema universitario e della formazione in generale, il Coordinamento delle ricercatrici e dei ricercatori non strutturati – costituitosi nel novembre 2014 come piattaforma nazionale per raccogliere e rappresentare il mondo dei post-doc e dei precari della ricerca italiani – ha deciso di rispondere con un questionario per raccogliere dati sulla “materialità” del lavoro precario di ricerca e attraverso uno sciopero alla rovescia.
Era il 2 febbraio 1956 quando Danilo Dolci portò centinaia di disoccupati di Partinico a rimettere in sesto Trazzera vecchia, una strada comunale dissestata e lasciata all’incuria. Quei disoccupati potevano scioperare solo alla rovescia: lavorando.
A sessant’anni da quell’azione per cui Danilo Dolci venne arrestato e difeso in aula da Piero Calamandrei, le ricercatrici e i ricercatori non strutturati hanno deciso di indossare una maglietta rossa con la scritta #ricercaprecaria in ogni attività che realizzano e ad oltranza, per rendersi visibili e per raccontare le ragioni della loro protesta: non solo il mancato riconoscimento della Dis-Coll ma anche un aumento delle risorse pubbliche destinate all’Università, lo sblocco del turnover, un piano di reclutamento che sia tale, l’introduzione di una figura unica pre-ruolo e del valore legale del titolo di studio di dottorato, la critica a questa “valutazione” della ricerca, e in più in generale la promozione e il riconoscimento attraverso politiche di sistema dell’Università e della ricerca pubblica. Hanno deciso di scioperare alla rovescia per rispondere con determinazione alla volontà politica di smantellare il carattere pubblico dell’Università e della ricerca e hanno invitato chiunque sia preoccupato come loro (gli studenti, il personale tecnico-amministrativo e anche il personale strutturato) ad indossare una maglietta di colore arancione con la scritta #ricercaprecaria.
In queste settimane i critici dell’iniziativa hanno ribadito che lo sciopero è “un’astensione collettiva dal lavoro da parte di dipendenti, a tutela dei propri interessi” (art. 40 della Costituzione italiana), e che continuare a lavorare invece di bloccare il processo produttivo, come facevano gli operai nel ‘900, è una dimostrazione della sudditanza delle ricercatrici e dei ricercatori precari al sistema baronale dell’accademia.
La visibilità raggiunta e questa occasione ci permettono di chiarire la nostra posizione ai tanti che hanno già aderito, ma anche a coloro – pochi, ma preziosi per allargare il dibattito – che non l’hanno condivisa, e soprattutto di entrare nel merito del ragionamento.
La premessa è condivisibile. Sappiamo bene cosa significa scioperare, ma troviamo discutibili le conclusioni: continuiamo a lavorare perché in questo momento riteniamo più importante mostrare concretamente cosa significa fare ricerca nella quotidianità. Ci sembra più opportuno e urgente rispondere alle affermazioni del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali facendo riferimento all’articolo 4 della Costituzione (che sancisce il diritto al lavoro), prima che all’articolo 40 (che sancisce il diritto allo sciopero) e ribadire che la ricerca è lavoro.
Chi ha visto la bacheca della pagina Facebook del Coordinamento in questi giorni avrà certamente notato le diverse foto pubblicate da colleghe e colleghi impegnati nelle loro attività di ricerca in Italia e all’estero. Avrà certamente visto i laboratori, le aule, gli archivi, le biblioteche, gli studi dove ogni giorno facciamo esperimenti, progettiamo percorsi formativi, teniamo seminari e lezioni, analizziamo dati, scriviamo articoli e progetti, organizziamo congressi. Avrà visto i tavoli, le sedie, i microscopi, gli strumenti, le slide, i libri, i portatili, i badge dei convegni, i camici, i fogli di calcolo, le provette, le penne, i guanti, le tesi, i compiti.
Avrà visto insomma il lavoro della ricerca, e per poterlo mostrare in tutta la sua materialità e concretezza non possiamo fermarci. Sappiamo bene che questo è solo il primo passo, e ci impegniamo affinché il nostro percorso si inserisca in un più ampio confronto che speriamo possa portarci presto a uno sciopero, uno sciopero sociale, questa volta al dritto, costruito e condiviso con altre componenti precarie (e non) della nostra società. Ma adesso sarebbe stato prematuro e ne è perfettamente consapevole chi, come noi, si spende per organizzare incontri, assemblee, dibattiti e scioperi.
Se c’è una cosa che il sistema attuale dell’Università è riuscito a fare, è aver frammentato così tanto il mondo accademico che le parti che lo compongono non riescono più a collaborare. Settori disciplinari che si contendono le poche risorse, che strepitano per ottenere più spazio in un corso di laurea o in una commissione. Quando si è fortunati si riesce a interagire all’interno dello stesso gruppo di ricerca, ma il modello competitivo mutuato dai mercati e applicato alle conoscenze, che oggi sembra essere l’unico possibile, non produce qualità né nella ricerca né nella didattica. Ovviamente ci sono eccezioni, ma non bastano. Riteniamo che debba essere virtuoso il sistema, soprattutto quando il sistema è pubblico.
In questa prospettiva la pratica dello sciopero alla rovescia non è soltanto un modo per rivendicare un diritto, come quello della Dis-Coll, ma un’opportunità per interrompere quel processo di identificazione con questa Università, che finisce per convincerci che non c’è spazio per il cambiamento e promuovere un percorso di soggettivazione in cui rendere visibile e dicibile la nostra condizione e trasformare il rumore delle nostre individualità in un discorso pubblico e collettivo.
Ecco perché a sessant’anni da quel 2 febbraio del 1956 abbiamo deciso di lanciare la nostra campagna: per mettere in luce le contraddizioni di un sistema che si appella a un aspetto giuridico per evitare di riconoscere i nostri diritti e il nostro lavoro. La sintesi di questo capovolgimento sta nelle parole di Calamandrei che difese Dolci:
«Al centro di questa vicenda giudiziaria c’è, come la scena madre di un dramma, un dialogo tra due personaggi, ognuno dei quali ha assunto senza accorgersene un valore simbolico.
È, tradotto in cruda prosa di cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire.
Nella traduzione di oggi, Danilo dice: “per noi la vera legge è la Costituzione democratica”. Il commissario Di Giorgi risponde: “per noi l’unica legge è il testo unico di pubblica sicurezza del tempo fascista”».
A differenza del Ministro Poletti e del Governo di cui fa parte, per noi, come per Dolci, la vera legge è la Costituzione.