L’ultimo accordo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, con tutto il carico di simbolismi che ancora riesce a trascinarsi dietro; poi l’intesa, dopo sette anni, per i contratti pubblici nonostante il rischio di una strumentalizzazione elettorale; la riforma, infine, del modello di negoziazione nei settori dell’artigianato e del commercio sembrano segnare un nuovo inizio per le relazioni industriali e definire il profilo del sindacato nella stagione della disintermediazione politica. Un sindacato che fa il suo mestiere: gli accordi. Con soluzioni innovative, pragmatiche, a-ideologiche. Un terreno antico che appare moderno dopo l’abbuffata di politica che ha riempito il tavolo sindacale negli ultimi decenni.
Quasi vent’anni fa Sergio Cofferati, allora leader della Cgil, intitolò il suo libro “A ciascuno il suo mestiere”. Legittimava, nonostante quel titolo, il ruolo politico del sindacato, la sua azione di rappresentanza parallela a quella sempre più incerta dei partiti nel passaggio tra la prima e la seconda Repubblica. Raccontava – non senza qualche presa di distanza – l’epopea del sindacato della concertazione, quello che scriveva le leggi, metteva i veti, riempiva le piazze. Un po’ di lotta, un po’ di governo. Un sindacato ircocervo. Da tempo quella stagione non torna e quel sindacato non c’è più.
La politica fa sempre meno parte della forza sindacale. L’affermarsi del tripolarismo ha contribuito a smontare la potenziale sponda sindacale per ciascuno degli schieramenti politici. Il modello del Labour party o dei socialdemocratici tedeschi che non è riuscito ad attecchire nella fase del nostro bipolarismo ora non ha alcuna chance di trovare una versione italiana. Gli orientamenti del gruppo dirigente della Cgil, della Cisl e della Uil come quelli di Confindustria non influenzano minimamente le scelte dei propri iscritti e in fondo nemmeno quelle dei partiti. Sarà così anche per il referendum di domenica, a dispetto dell’impegno che tutti (più o meno pubblicamente) hanno messo nella campagna elettorale. La scarsa capacità attrattiva dei sindacati sul terreno politico la si è vista alla prova l’ultima volta con il fallimento (anche un po’ annunciato, per la verità) della Coalizione sociale promossa dalla Fiom di Maurizio Landini. Il quale ha capito che era meglio fare il proprio mestiere (tanto più se ancora coltiva l’ambizione di lanciare prima o poi un’Opa sulla segreteria generale della Cgil) e firmare il nuovo contratto dei metalmeccanici, unitario dopo ben due separati. Ma c’è di più il quel contratto: c’è la fine della rincorsa all’inflazione, il rafforzamento (finalmente) degli accordi aziendali per distribuire gli incrementi retribuitivi e soprattutto l’avvio di un nuovo modello di welfare. La scarsità delle risorse, l’invecchiamento progressivo e costante della popolazione, l’emergere di nuovi bisogni e delle nuove diseguaglianze stanno mettendo a dura prova la sostenibilità complessiva dei sistemi sociali pubblici. Aver scelto di finanziarne una parte (integrativa) attraverso gli “aumenti” contrattuali è stata una mossa lungimirante a cui il sindacato iperpoliticizzato non ci aveva più abituati. E il fatto che a questo modello, il quale implicitamente ammette le défaillance sempre più estese del nostro welfare state, abbiano aderito anche i duri della Fiom è un cambio di rotta sindacale e culturale. Non a caso la stessa strada è stata imboccata (si vedranno poi le soluzioni tecniche) anche nell’intesa quadro per il pubblico impiego.
Un’occasione per uscire dal grigiore progettuale in cui è calata è offerta ora anche alla Confindustria. Per la prossima settimana il presidente Vincenzo Boccia ha convocato i sindacati. Punta a un “patto per l’industria”, riscrivendo non solo le regole della contrattazione. Perché è troppo poco pensare che il mestiere dell’imprenditore possa limitarsi al gioco della negoziazione sindacale. Dopo lo sciopero degli investimenti (- 30% negli anni della crisi), il fragile capitalismo italiano ha bisogno di rigenerarsi, superando i tanti dualismi che l’attraversano: aziende grandi contro aziende piccole, Nord contro Sud, esportatrici contro quelle domestiche; e dandosi una nuova identità in grado di affrontare la globalizzazione. Un patto non scritto sulla sabbia ma con impegni e vincoli. Un patto tra soggetti sociali, senza più ambizioni politiche. Facendo ciascuno il proprio mestiere. Un “patto tra produttori”, come si diceva nel secolo scorso.
Così nella stagione che celebra la disintermediazione politica con le sue propaggini sociali (dalla share economy alla gig economy) le vecchie lobby novecentesche, date sempre per morte, sembrano trovare una via per la loro rivalsa. Paradossi.
(*) Pubblicato su La Repubblica il 2/12/2016