Pubblichiamo, per gentile concessione, questa bella intervista a Bruno Manghi a cura di Gianni Saporetti direttore della rivista “Una città” (http://www.unacitta.it/it/home/).
Durante la grande industrializzazione, negli anni Sessanta, quando si forma una generazione di giovani e combattivi sindacalisti, che pensano che il sindacato debba stare in fabbrica, che la contrattazione aziendale sia decisiva, che i sindacalisti non debbano fare i deputati, che l’unità sindacale sia necessaria, Pierre Carniti è uno dei loro leader; quello spirito missionario che si accompagnava al rispetto del sapere e della sua autonomia.
Vorremmo parlare con te di Pierre Carniti, di cui sei stato amico fraterno…
Parlare di Pierre per me è una cosa molto personale, perché, insomma, io sono uno dei tanti a cui lui ha cambiato la vita. Io ero all’università, facevo l’assistente, stavo per fare la libera docenza, collaboravo già con il sindacato, la Fim di Milano, ma poi il fascino dell’epoca e quello di Pierre, a un certo punto mi hanno fatto lasciare baracca e burattini e iniziare un’altra vita col sindacato. Pierre era giovane, un combattente, una persona affascinante. Veniva dalla provincia di Cremona, aveva fatto il tipografo e da ragazzo, con un gruppo di amici della zona, tra cui Alquati, si occupava già della condizione contadina. Fin da giovane, lui in particolare in quel gruppo, era animato da una grande passione sociale. Il loro capostipite, che poi morì suicida, era stato Danilo Montaldi. Quel mondo padano era molto vivo. Poi le esperienze più originali sono sempre quelle giovanili.
Quindi Pierre si fece notare e un onorevole che era stato anche sottosegretario, una figura del mondo contadino bianco, Amos Zanibelli, autore della legge per le case popolari ai contadini, lo segnalò all’organizzazione. Così lui con altri venne selezionato per fare il famoso “corso lungo” del Centro studi di Firenze, un corso di studi molto severo e attento anche alla scrittura e alla cultura generale. Il grande capo era il professore Mario Romani. Con Pierre c’erano Marini e Mario Colombo, tra i tanti bravissimi che si formarono a Firenze.
La formazione era importante nella Cisl?
Sì, era obbligatoria. Nella Cisl e nella Fim le si destinava sempre una quota di tempo. Quindi grandi sentimenti e molto approfondimento, molto studio. Mi viene in mente il libro che Pierre mi aveva prestato quando ci siamo conosciuti, e non mi ha mai regalato, di Rinaldo Rigola, il fondatore della Cgil, un operaio cieco per infortunio sul lavoro e immigrato.
Terminato il corso, poi ognuno veniva mandato in un posto d’Italia a fare qualcosa; non era previsto che uno tornasse da dove era venuto. Così lui venne mandato a Legnano dove cominciò la sua esperienza metalmeccanica.
Come avveniva l’incontro con gli operai?
Allora non c’erano permessi sindacali, l’unica cosa che si poteva fare era aspettare i lavoratori a fine turno per parlargli. Solo nelle aziende medio-grandi, dove c’era il commissario interno, avevi la possibilità di entrare. Il commissario interno era quello che sapeva tutto della fabbrica.
Questi sono i primordi. Pierre partecipò alla stagione dei primi conflitti per i contratti, che cominciarono alla fine degli anni Cinquanta. Ma tutti gli anni Sessanta furono grandi anni di preparazione, senza i quali il ’68 e il ’69 non sarebbero esistiti. Il sindacato si faceva strada tra mille difficoltà e Pierre, di quegli anni fu un protagonista, ovviamente con delle tesi. La Fim in particolare sosteneva la tesi del salario legato alla produttività e l’idea di un sindacato che si fa prima di tutto in fabbrica. Quello è il punto di partenza che segna la differenza tra il sindacalismo industriale, praticato ovviamente anche dalla Fiom e dalla Uilm e il sindacalismo agrario che era il suo fratello maggiore e che era un sindacalismo delle piazze, non dei campi. D’altra parte eravamo nel pieno della grande industrializzazione.
Poi Pierre venne a Milano, cominciavano le lotte interne e lui molto presto si convinse della necessità dell’unità d’azione e trovò anche degli interlocutori. Nei primi anni Sessanta due vertenze importantissime scossero Milano, quella degli elettromeccanici e quella dei premi di produzione. Lì si fece il primo comizio unitario che, però, per sfuggire alla condanna delle confederazioni che non vedevano di buon occhio questo eccesso di unità, si svolse al Vigorelli. Il tutto fu orchestrato da Carniti e dall’allora segretario socialista della Camera del lavoro di Milano, Di Pol, che poi morì in un incidente stradale. I due cortei arrivarono al Vigorelli contemporaneamente e lì si fecero i comizi. Quella data divenne famosissima. Ma erano giovani i sindacalisti, erano giovani i lavoratori. Con in più questi commissari interni che erano più anziani e che, però, sapevano tutto. Senza di loro quel lungo periodo di vigilia non ci sarebbe stato. Quando si faceva il direttivo del sindacato con Carniti c’erano tutti questi giovani operatori, i combattenti, e poi queste persone, dai quaranta ai cinquant’anni, che per noi erano anziani e venivano a volte con il grembiule di lavoro, perché la riunione si teneva a fine turno, e che parlavano poco ma parlavano giusto.
Ma nelle confederazioni come veniva preso tutto questo?
Beh, nella Cisl si aprì uno scontro, in primo luogo, sull’incompatibilità fra lavoro sindacale e cariche politiche. Questo in nome dell’autonomia del sindacato. Intendiamoci, già con Pastore la Cisl, i dirigenti, se li faceva da sola, non li prendeva dai partiti o altro. Però, poi, aveva cinquantasei deputati e senatori. La Cgil ne aveva una settantina nei primi anni Sessanta. Normalmente un segretario della camera del lavoro, dell’Unione sindacale diventava deputato o senatore. Così si erano formate queste grandi pattuglie di onorevoli sindacalisti. Altrimenti una figura come Donat Cattin sarebbe stata impensabile.
Quindi c’è questa prima lotta per l’incompatibilità tra le cariche. La seconda riguarda il primato, pur tenendo fermo il contratto nazionale, della contrattazione aziendale, e il rapporto tra salario e produttività. Grandi temi che scuotono la Cisl. A un certo punto i giovinastri di cui io ero seguace tentarono l’assalto alla gestione di Storti, che, però, era un grande, che per vent’anni fu segretario.
Ecco, Storti a quel congresso si batté con noi, agitando un tema eversivo del 68, “potere contro potere”, aggirando in qualche misura a sinistra i giovinastri, ma di fatto aprendo una fase in cui accettava molte delle nostre tesi. E fu lungimirante, perché avrebbe anche potuto schiacciarci, ma non lo fece.
Fra gli anziani, poi, il nostro riferimento era Macario, che fu segretario generale della Fim e maestro di Carniti (e fu importante anche per me, perché fu lui a chiedermi di andare al sud, in Calabria. “Per abituarti”, disse). Macario aveva fatto la guerra. Perché lo dico? Perché leggendo le storie dei sindacalisti, che ormai si scrivono a bizzeffe, e sono molto interessanti, la grande differenza che si rivela è tra chi aveva fatto la guerra, la resistenza, era stato in un campo di prigionia o comunque aveva vissuto sotto i bombardamenti e chi, invece, era venuto dopo. Pierre in questo fu bravo, perché riuscì a tenere insieme le due storie. D’altra parte veniva da una famiglia antifascista, il papà gli aveva voluto dare un nome straniero apposta.
Tutto il resto fa parte ormai della storia: soffia il vento del nord, Carniti si afferma con il consenso di Storti, si va alle lotte, Noi galleggiammo bene, ma non è che inventammo, c’era un movimento che era impressionante. Poi c’erano gli studenti, anche se Carniti è sempre stato un difensore della primazia dei lavoratori. Lo infastidiva la superbia di questi giovani che pensavano di insegnare ai lavoratori, questo eccesso di protagonismo: uniti sì, ma prima gli operai, questa era la sua tesi. Ciò non toglie che un incontro, breve casomai (io ho scritto anche un piccolo testo su “Vita e pensiero”, su questo, “Il breve incontro”) fra operai e studenti nel ’69 ci fu. E va detto che ebbe una risultanza importante nelle fabbriche perché molti di questi giovani diventarono impiegati e tecnici e soprattuto al nord ci fu un grande movimento di operai e tecnici insieme nel sindacato. La figura dell’impiegato era fondamentale per il sindacato perché portava il sapere che gli mancava.
Poi arrivarono queste straordinarie conquiste, il ’73, con il contratto della parità normativa operai e impiegati. Nelle fabbriche c’era una mensa separata per gli impiegati, e tante altre differenze, la liquidazione e via discorrendo. Parità normativa che poi diventa inquadramento unico.
Poi arrivarono i discorsi sulla salute e il rapporto con le cliniche e i medici del lavoro, senza i quali noi di ergonomia non avremmo saputo niente. Nacque la medicina del lavoro, i corsi sulla salute, i fattori di rischio, si fecero passi in avanti decisivi. Fortunatamente il sindacalismo italiano non è stato solo un sindacalismo salariale. Poi l’organizzazione del lavoro, la lotta contro la ripetitività, la revisione dei cottimi, tutte robette molto importanti. Insomma, ci fu un tentativo, a volte riuscito e a volte no, di umanizzazione del lavoro. A un certo punto, però, quando questa spinta delle fabbriche cominciò a esaurirsi (anche se la sinistreria unita non volle accorgersene) il sindacato trasferì il suo potere, che era diventato ingentissimo, sul terreno sociale, quindi le pensioni, la riforma sanitaria, la cassa integrazione. Anche queste grandi conquiste sociali, generali, e però lì, intorno al ’78, ci rendemmo conto che una stagione era finita.
Tu hai scritto un libro che ammetteva, con grande anticipo, la fine di un ciclo…
Sì, ha avuto successo soprattutto per il titolo, “Declinare crescendo”, che scritto lì, nella seconda metà degli anni Settanta, quando eravamo sull’Everest come accreditamento, potere, popolarità, fu pure un po’ azzardato. E però c’era qualcosa, si capiva che sarebbe finita.
Ma anche altrove i cicli erano durati dieci, quindici anni, non di più. Questo Pierre lo capì e lì cominciò, negli anni Ottanta, quell’ultima battaglia, per combattere l’inflazione, che terminerà nei primi anni Novanta con la rottura dell’unità sindacale sulla scala mobile. Poi quella sua ricerca, che durerà fino alla morte, sull’orario di lavoro per aiutare l’occupazione.
Quindi sulla scala mobile fu lui a rompere, ma sull’unità facciamo un passo indietro. Carniti ci aveva provato ed erano stati i comunisti a…
Sì, allora l’unità sindacale non l’avevano voluta i comunisti. Quello fu un momento fondamentale. L’unità sindacale era voluta dall’ala più militante della Cisl e della Uil, sicuramente, dalle categorie dell’industria che addirittura arrivarono all’auto scioglimento. Era osteggiata dalla parte più conservatrice della Cisl che temeva un inquinamento della sua originalità ma soprattutto, per rilevanza, dai comunisti prevalenti nella Cgil. I socialisti della Cgil, e lo Psiup, era tutti favorevolissimi, da Tonino Lettieri a Giuliano Cazzola, che era un fanatico dell’unità sindacale. I comunisti proprio non ce la fecero. A un certo punto, come ho detto, si tentò di procedere verso l’unità organica a pezzi, cominciando prima dai metalmeccanici, dai chimici, per poi arrivare all’unità di tutti. Ma un’unità vera, organica, tanto è vero che sia la Fim che la Uilm fecero il congresso di autoscioglimento. Ricordo sempre la frase di Trentin: “Se volete vengo, ma vengo da solo”. Era per dirci che non ce l’aveva fatta, che i comunisti non la volevano. E quindi si fece l’Flm, un modo nobilissimo per non fare l’unità sindacale. Era una federazione, con gli iscritti in comune però con ognuno che restava nel suo. Anche se molto avanzata, non era l’unità. E si fece anche la federazione Cgil, Cisl e Uil, che ebbe una funzione, ricordo l’anno del terremoto al sud, e però restava una federazione (che sarebbe utilissima oggi, dico io, meglio di niente). Però l’unità non si fece, malgrado quelli fossero anni di grandi conquiste, anni tutti proiettati in avanti.
Poi, alla fine degli anni Settanta, si capisce che questa roba è finita, cominciano le tensioni su questi temi, tensioni sempre moderate, perché allora molti dei sindacalisti che pure si scontravano anche duramente, avevano fortissimo il senso di un comune mestiere. Il rapporto tra Carniti e Lama fu umanamente molto importante, Benvenuto fu un vero amico, Trentin un uomo più difficile, ma c’era un grande rispetto. Però Lama, che era un grande leader popolare di suo, come lo era stato Di Vittorio, fu travolto, lui voleva fare l’accordo sulla contingenza ma la corrente comunista della Cgil, riunita per conto suo, disse di no a maggioranza. E lo stesso Berlinguer anni dopo disse a Pierre, incontrato attraverso Tatò: “Avete sbagliato perché l’accordo dovevate farlo con noi, cioè con il Pci”, perché si riteneva il partito dei lavoratori, quello che, alla fine dei conti, doveva avere l’ultima parola.
Poi Carniti viene messo alle strette dalla salute molto fragile, ha un infarto grave e lascia il sindacato e non poteva che lasciarlo a Marini. Anche se più moderato, si conoscevano fin da ragazzi e poi Marini era rappresentativo, era quello che poteva tenere insieme la baracca.
Cosa ha fatto grande quella stagione?
Io penso che sia una cosa che facevano tutti i sindacalisti, quella di andare a cercare i giovani, “coloro che…”. Ti racconto due piccoli episodi. In una fabbrica di Milano della elettromeccanica pesante, la Tbv, nell’intervallo si parla coi lavoratori e c’era una questione tra operai e impiegati molto complessa e un giovanissimo osa parlare, alza la mano e dà ragione a Pierre, e alla sera a fine turno si trova davanti Pierre: “Chi sei, cosa fai…”, e lo convince a fare il sindacalista.
Oppure il caso di Moretti, ferroviere, ingegnere, comunista, che ha raccontato come Lama, a Bologna, lo volle vedere, lui e la moglie, e stettero ore insieme perché Lama lo voleva convincere a fare il sindacato e lo convinse. Ecco, questo senso missionario della ricerca, che tutti loro avevano già sperimentato, perché tutti loro erano stati scelti a loro volta, questa è una cosa bellissima che allora, a prescindere se fossero comunisti, socialisti, cattolici, era molto presente e che oggi non è che sia scomparsa, ma non è più all’ordine del giorno.
Sapevano che quelle risorse umane erano decisive per riuscire, perché se tu trovavi uno trovavi tutti, ma se non trovavi quell’uno non trovavi nessuno. Il sindacato non è che parte con un’assemblea in cui tutti ti votano a favore; dentro quell’assemblea devi avere due o tre di cui ti fidi e che ti raccontano cosa è quel posto e che sono stimati dagli altri, con un altro principio decisivo dell’epoca, ma che, secondo me, vale anche oggi, che dovevano essere innanzitutto bravi lavoratori, non scansafatiche che fanno il sindacato per evitare il lavoro. Ma già il commissario interno era un bravo lavoratore, stimato nel suo reparto, nel suo ufficio. Questo binomio era poi molto americano, perché per queste persone il mito americano è stato fortissimo. Erano stati tutti negli Usa dal sindacato americano. Quando Carniti conobbe Walter Reuther, dell’Automobile workers diventò matto! Anche perché Gino Giugni, giovane docente alla scuola di Firenze della Cisl, aveva fatto leggere a tutti il libro di Pearlman sul sindacalismo. Ma veniva anche dai vecchi, da Pastore, l’idea che da una parte c’è la missione, l’idea, il messaggio, dall’altra c’è il sapere che è il sapere. Ai corsi si poteva chiamare un conservatore, un innovatore, un socialista, l’importante era che sapesse le cose e te le spiegasse. C’è un’autonomia del sapere, rispetto al messaggio, che va rispettata. Quando io ho bisogno di capire il cottimo chiamo un ingegnere dell’azienda e me lo faccio spiegare, non è che io so ideologicamente cos’è, che il cottimo è sfruttamento eccetera eccetera, no no. Questo è sempre stato un elemento molto forte nel sindacato, nella Cisl in particolare: il sapere non è dedotto da una certezza teologica. Anche se questa c’è. Ma la strada dell’emancipazione è una strada di autoformazione.
E dopo? Com’è stata la vita di Carniti?
Ma, sempre combattendo con questa salute molto precaria, è stato per un breve periodo al Senato, col Psi, per sostituire non ricordo chi, e poi è stato eletto alle elezioni europee. E questo per lui è stato un periodo appassionantissimo. Ha imparato molto, ha usato i legami sindacali per rivedere i vecchi amici. L’incontro con Delors è stato molto importante per Pierre, così come ritrovarsi con Felipe Gonzales che aveva fatto il corso al centro di studi di Firenze, che era un posto anche molto internazionale. Quindi l’Europa è stata vissuta con entusiasmo, con passione da Pierre. Poi cercò di essere protagonista in politica, nel senso che creò, d’accordo forse anche con Benvenuto, un circolo e una rivistina che si chiamava “Il bianco e il rosso” e aveva chiamato a dirigerla un filosofo nostro amico che aveva lavorato molto per la Cisl, Gigi Ruggiu (uno studioso di Aristotele! per dire come eravamo fatti) che aveva già diretto per un periodo la rivista “Progetto” della Cisl.
Ci furono tante riviste…
Ah, la mania dell’editoria è stata sempre forte. Al centro della storia di Carniti a Milano c’è “Dibattito sindacale”, su cui poi scrivevamo tutti. Quando poi era andato in confederazione aveva fatto “Progetto”, e quindi, come dicevo, “il Bianco e il Rosso”. Ma dopo un po’, anche per la sua amicizia e stima straordinaria per Gorrieri, pensò ai cristiano sociali. Senza però voler essere lui in prima linea. E lì però successe che i cristiano sociali nacquero quando il Partito popolare era già agli ultimi atti. Sì, c’erano ancora persone degnissime come Giovanni Bianchi e Martinazzoli ma di là il berlusconismo stava avanzando. A Carniti glielo disse Prodi di fronte a me: con l’arrivo dell’Ulivo non era più il momento di fare queste cose qui. Ecco, lì c’è uno sgretolamento, una parte dei cristiano sociali per ragioni non sempre nobilissime si inserisce nei Ds, Carniti sta alla finestra, non è contrario, però, insomma non è un’operazione che gli è riuscita.
D’altra parte io penso che questa sia una cosa ricorrente: nella storia del movimento sindacale è rarissimo che un grande protagonista abbia un analogo successo in politica. Il caso più clamoroso è Lama, che aveva in mano il paese e nel partito non ce l’ha fatta. Io credo che il motivo sia perché sono mestieri diversi. Probabilmente succede anche in altri ambiti. Nell’industria, per esempio non mi sembra che dei grandi tecnici siano mai diventati grandi manager. Non so, è una cosa che andrebbe studiata. Forse nel momento in cui il sindacato si autonomizza, che è un fenomeno storico molto lungo, riesce anche a produrre politica, come nel caso del laburismo inglese, ma comunque Attlee non era un sindacalista, Gordon Brown e Blair neanche. In Francia Mitterrand assolutamente non c’entrava niente col sindacato; in Germania no, Koch in Olanda sì, alcuni casi ci sono, ma in genere non succede. Ma lo stesso credo valga anche per la cooperazione. Uno dei più grandi movimenti cooperativi del mondo, che è il nostro, non mi sembra che abbia prodotto delle leadership politiche. Forse questo è il prezzo del pluralismo funzionale. Mestieri diversi. Beh, da noi ci hanno provato i magistrati e forse è meglio che non ci riprovino…
Nell’ultimo periodo della sua vita Carniti si è occupato molto della riduzione dell’orario di lavoro…
Lui era un uomo di convinzioni granitiche. Questa cosa dell’orario di lavoro, della sua riduzione, in cui io lo seguii per un breve periodo, il nesso insomma fra occupazione e orario per lui era diventato fondamentale e questa convinzione lo accompagnò fino alla fine anche se con qualche correzione. L’idea della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro per dare lavoro ha due limiti fondamentali. Uno, che è difficile farla senza ridurre anche il salario, o comunque le aspettative salariali, e quindi i lavoratori non ne sono entusiasti e, in secondo luogo, perché la riduzione d’orario pensata con Gorz alla francese, come se ci fosse un grande demiurgo che distribuisce il lavoro nella società, uno Stato che mette ordine distribuendo il lavoro, non funziona. Infatti la caricatura di questo sono le 35 ore in Francia. Carniti lo capì e corresse l’impostazione: si può ridurre l’orario di lavoro diversamente, coi contratti di solidarietà, studiando i casi tedeschi, il caso olandese che è molto interessante. Quindi bisogna lavorare sull’orario di lavoro però non pensando che ci sia un accordo generale per cui si lavora soltanto 30 ore, che tecnicamente è possibile, ma bisogna volerlo! E chi è che comincia?
Ecco, quello fu comunque un assillo per Pierre, che poi aveva un senso della dignità, della giustizia, tremendo. Nel senso che veniva ferito dalle cose che non andavano. Ma come altri, intendiamoci. Era una generazione fatta così, insomma, Bentivogli, ma, per carità, anche la Fiom. C’era Pizzinato, un grande amico, una figura splendida, erano tutte persone integerrime con questo forte afflato etico, era gente che si sentiva offesa dalla condizione umana…
Voi della Cisl giravate il mondo…
Sì, perché noi, a differenza della Fsm comunista, avevamo la fortuna di essere in una grande centrale sindacale libera. Quindi avevamo relazioni internazionali fortissime ed erano tantissime le missioni che si facevano. Dalla Spagna dell’ultimo franchismo per vedere chi poter aiutare di quel sindacalismo, al Brasile dove andò il mio amico Tridente che scoprì Lula, al Cile dove venni mandato e scelsi Bustos che poi, purtroppo, morì. La domanda era: cosa possiamo fare quando torna la democrazia perché ci sia un sindacato come vogliamo noi? Fu una grande avventura internazionale. Ma poi il Mozambico, la Polonia che fu l’ultima grandissima avventura, in quel caso unitaria ormai. Perché poi, a un certo punto, l’Fsm finalmente andò a quel paese, così capitò che Marini garantì perché Trentin potesse entrare nella Cisl internazionale! La costruzione del sindacato mondiale che c’è oggi, è stata fatta da Emilio Gabaglio che Carniti, a suo tempo, aveva chiamato alla Fim e poi alla Cisl. Gabaglio fu il grande artefice di questa unificazione tra il sindacato libero, il sindacato cristiano, e tutti i residui Fsm, per cui oggi c’è un sindacato mondiale unico, che sarà debole, sarà quel che vuoi, ma che è come avere una piccola Onu.
Questo è un di più sicuramente rispetto alla Cgil.
Eh sì. Chi tentò dopo di rimettere in carreggiata l’azione internazionale della Cgil fu Claudio Sabatini, che, infatti, incontrai in Cile. Una persona intelligentissima, anche se difficile, che aveva capito l’importanza della dimensione internazionale. Anche per la contrattazione, attenzione. Noi dovevamo capire cosa facevano alla Volvo per cambiare il modo di fare l’automobile. Non è che impariamo tutto da soli. Ma poi per l’aspetto contrattuale e per quello delle libertà, perché il sindacato può fare bene o male, ma intanto deve avere la possibilità di esistere.
Carniti può essere considerato un grande non solo del sindacalismo?
Beh, ha avuto la grande soddisfazione di essere amato e rispettato. Da tutti. Anche se non era un tipo facile, perché era uno che aveva mandato a quel paese tanta gente. Ma anche solo per il suo coraggio, era rispettato da tutti. Il coraggio, prima, di fare l’unità sindacale e poi, al tempo dello scontro sulla scala mobile, a cui seguì il referendum, anche di chiuderla. Nessuno ha fatto una cosa così! Ha continuato a riflettere sul sindacato, sulla società e sulla giustizia fino all’ultimo, fino agli ultimi suoi scritti. Nella sua ultima lettera pubblica riprende il tema dell’unità. Non ha mai smesso di studiare. E questa passione l’ha sostenuto. Prima che lui morisse la famiglia aveva deciso di lasciare un piccolo lascito per istituire un premio, che noi avevamo chiamato Astrolabio (adesso è il premio Pierre Carniti) per degli scritti di giovani laureati. Io sono uno dei lettori che deve valutarli. L’ultima volta che l’ho sentito, poco prima della fine, è stato per dirgli che era stata molto bella la premiazione di due di questi giovani, a Firenze. Lui, alla fine della telefonata, mi disse: “Bruno, è un commiato”.
*Bruno Manghi, sociologo, già sindacalista Cisl, ha pubblicato tra l’altro Far del bene. Il piacere del dono e la generosità organizzata, Marsilio 2007.