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Amatrice, visione lunga, 150 ore.

Ad intervalli – per fortuna lunghi, ma non tanto da cancellare il ricordo dalla memoria – gli italiani si misurano con le tragedie prodotte dal loro rapporto non amicale con la natura. L’ha sintetizzato bene, recentemente, Aldo Schiavone: “un rapporto in cui stiamo esprimendo, insieme, un’inimmaginabile potenza e una drammatica fragilità” (Corriere della sera, 10/09/2016).

Il terremoto nel cratere di Amatrice ha addolorato il Paese, ha sollevato un crescendo di solidarietà quasi più intenso di quello espresso quando l’Aquila fu rasa al suolo. Forse perchè il senso di colpa collettivo è stato più acuto: possibile che la storia si ripeta? Che l’unico segno di novità sia stata l’efficienza e l’intensità dei soccorsi organizzati dalla Protezione civile?

E già, perché subito si è aperto il dibattito se la responsabilità è della natura o dell’uomo, se prevenire è possibile o ci tocca soltanto ridurre al minimo i danni che si producono ogni volta che la terra trema, le acque esondano, l’aria si trasforma in ciclone. Il bello è che la conclusione è quasi unanime: la natura può fare la faccia feroce, ma è sempre la sventatezza dell’uomo che le concede di strafare, di distruggere, di devastare, di seminare lutti.

Una sventatezza che ha reso finora brevi le fasi del “mea culpa”. Abituati come siamo ad affrontare le grandi questioni esistenziali con i pannicelli caldi dell’assistenzialismo – dalla disoccupazione alla povertà, dalla disuguaglianza sociale al pluralismo etnico – le coscienze si chetano quando si incomincia a parlare di “ricostruzione”. Così questa può prendere sia la strada virtuosa del Friuli, dell’Emilia o dell’Umbria, ma anche quella viziata da lungaggini e indecenze dell’Irpinia o dell’Aquila.

Forse questa volta, le coscienze non si acquatteranno. Pretenderanno di più, perché le capacità creative dell’uomo consentono di andare ben oltre il soccorso e la ricostruzione. Nel mondo, come ha ricordato Renzo (Piano) a Renzi (Matteo), ci sono idee progettuali, tecnologie, materiali e professionalità che consentono – con costi sopportabili, specie se si tiene conto dei costi del soccorso e della ricostruzione, oltre a quello disumano dei morti –  alle case di reggere il confronto con la natura se si scatena, di prevenire lo scatenamento, di dare fiducia alle persone.

Se, com’è stato promesso, Casa Italia da parola d’ordine emozionale diventerà programmazione poliennale di interventi ed investimenti intersettoriali per la tutela ambientale e la sicurezza degli immobili e delle infrastrutture esistenti e futuri, la prevenzione consentirà anche di ridimensionare le altre forme di intervento. La fragilità dell’esistente e la sua esposizione ai mutamenti della natura potrà essere compensata fino alla migliore tutela, dalla potenza della scienza e dell’impegno dell’uomo. Ce la possiamo fare se la visione del nostro futuro farà premio sulle convenienze del contingente, se soprattutto la politica guarderà lontano e non ai voti da prendere domani mattina, com’è successo finora.

Ma, soprattutto, ce la possiamo fare se ogni singolo cittadino diventasse consapevole di questa visione lunga. L’alfabetizzazione alla prevenzione, come reciproco rispetto tra l’uomo e la natura, non la si può lasciare al “fai da te”. Non succederebbe mai. Occorre una organizzazione di questa alfabetizzazione. 

Il precedente c’è. Mi riferisco alle “150 ore” che negli anni 70/80 del secolo scorso fecero ottenere a milioni di lavoratori, quasi analfabeti, la licenza media, con una mobilitazione di imprese, scuole, insegnanti, studenti, mass media di proporzioni inaudite. Facciamo le 150 ore della prevenzione nell’ambito del progetto Casa Italia, come percorso informativo/formativo incentivato con sgravi fiscali per chi dimostra di aver frequentato e acquisito un minimo di consapevolezza e con l’obbligo a pagare forti assicurazioni per chi non sceglie di utilizzare quel percorso.

Questo rappresenterebbe un vero salto di qualità verso una fiducia collettiva nel futuro. E i sopravvissuti di Amatrice e di tutti quei comuni e frazioni che dovranno essere ricostruiti per non rischiare più, si sentiranno ancora più circondati dalla solidarietà di un popolo che ha imparato la lezione della vera sopravvivenza.

   

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