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Soltanto una spinta dal basso ci dara’ una nuova Europa

Quale Europa avremo nei prossimi anni? Mentre crescono i partiti sovranisti in tutti i paesi europei, con le loro pretese di riportare in campo nazionale molte delle politiche di stampo europeo, due rapporti richiesti dalla passata Commissione europea puntano invece a una maggiore integrazione nel Vecchio Continente: si tratta del rapporto di Enrico Letta sul mercato interno e quello di Mario Draghi sulla competitività dell’Europa. 

Entrambi indicano una perdita di slancio a causa della frammentazione ancora forte dell’Europa, dove le logiche nazionali prevalgono su quelle europee. In queste condizioni, l’Europa cresce poco, le sue imprese sono piccole, il risparmio europeo (abbondante) si dirige sul mercato americano, l’innovazione stenta a diffondersi e non si creano nuove imprese innovative.

La diagnosi è chiara, come è evidente la ricetta: occorre abbattere le barriere interne, favorire la nascita di campioni europei, mettere assieme università e istituti di ricerca per fare massa e consentire la costruzione di un vero mercato interno integrato, oggi ostacolato da una congerie di normative nazionali e regionali. 

Ne potrebbero nascere imprese di dimensioni mondiali, l’innovazione sarebbe favorita dall’esistenza di un mercato di dimensioni tali da consentire sperimentazioni e uso di una cospicua mole di informazioni (quasi 500 milioni di cittadini) oggi necessarie per implementare nuovi progetti digitali, la dimensione del mercato porterebbe ad economie di scala tali da favorire una maggiore competitività alle imprese europee. 

A sua volta, un mercato di grande dimensione potrebbe generare una domanda interna che farebbe da vero traino alla crescita dell’economia non più necessariamente dipendente dalla domanda estera, come avviene oggi per i singoli paesi, ossessionati dalla necessità di esportare per poter crescere.

La Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha sostenuto che questi rapporti saranno alla base del lavoro della prossima Commissione, sicché dovremmo attenderci una forte spinta verso una maggiore integrazione tra i paesi europei, così come recita il trattato fondante dell’Unione Europea. 

Ma c’è da dubitarne, visto l’atteggiamento di alcuni paesi dove i partiti sovranisti di destra sono al governo e che rifiutano esplicitamente i processi di integrazione, preferendo un’Europa delle nazioni, ossia un processo intergovernativo che riduca gli spazi della Commissione a favore degli accordi tra i paesi attraverso i propri governi. E c’è da dire che anche i paesi dove non sono al potere partiti sovranisti, c’è un chiaro processo di arretramento verso un recupero di sovranità nazionale, sotto la pressione di eventi contingenti che influenzano negativamente gran parte dell’opinione pubblica. 

I timori di un eccesso di immigrazione, la paura di atti di terrorismo, le tensioni delle guerre in aree non troppo distanti dall’Europa, i rischi di nuove pandemie, contribuiscono a formare un desiderio di protezione e di chiusura che riportano nelle mani dei governi nazionali molte delle decisioni che si dovrebbero demandare all’Europa. È così che si è tornati a forme di controllo alle frontiere interne all’Europa con la pretesa di assicurare una maggiore sicurezza alle proprie popolazioni.

Se la politica non appare molto propensa a favorire nuovi processi di integrazione europea, occorre anche riconoscere che la costruzione di un vero mercato interno, che porti alla costituzione di imprese veri campioni internazionali, rappresenta una prospettiva che può generare molte tensioni, non solo per sentimenti nazionalistici, ma anche per reali problemi di assetto sociale ed economico. 

Abbiamo visto come la sola idea che una banca italiana, Unicredit, possa aspirare ad acquistare una banca tedesca, Commerzbank, malgrado abbia già una presenza forte in Germania e Austria, abbia ricevuto un’ondata di opposizione a partire dal Cancelliere federale della Germania Olaf Scholz, fino al sindacato dei lavoratori di banca che teme per l’occupazione che potrebbe essere tagliata nel caso di una fusione. Né questo è un caso isolato, visto ad esempio come la fusione tra Fiat Chrysler e Peugeot ha lasciato molti strascichi e insoddisfazioni per la perdita di occupati in Italia e per le scelte sui marchi. E questi sono solo due esempi.

Bisogna tenere ben presente che la costituzione di un mercato unico con l’apertura completa di diversi mercati comporta necessariamente una riallocazione delle attività produttive, attraverso processi di fusione e di concentrazione che non possono che determinare spostamenti di interessi, perdite e guadagni di posizioni lavorative, riallocazioni di capacità direttive che impattano fortemente sui territori.  

Bisogna domandarsi se siamo pronti ad affrontare in tempi brevi una simile riallocazione con il rischio di vedere alcune zone nel nostro o di altro paese desertificarsi, perdere lavoratori e abitanti, cedere ad altre zone di altro paese centri direzionali e capacità di ricerca ed innovazione. 

Già l’Italia soffre di un dualismo marcato fra Nord e Sud che qualcuno ancora attribuisce ad un affrettato processo di unificazione nazionale. Ma tutti i paesi europei hanno problemi di dualismo, mentre sta crescendo ovunque una sorta di contrapposizione tra realtà metropolitane, favorite dalle nuove tecnologie che attraggono lavoratori e ricercatori, e realtà rurali, dove domina l’abbandono, la deindustrializzazione, la carenza di opportunità di lavoro e di vita, con la conseguenza di generare aree di vera miseria.

 Un processo rapido di concentrazione produttiva in Europa finirebbe per accentuare questi dualismi e per provocare tensioni tali che potrebbero mettere in dubbio la capacità di realizzazione del processo di integrazione dei mercati per l’opposizione violenta di parte delle nostre popolazioni. E già abbiamo assistito a violente manifestazioni contro le politiche europee relative alla transizione energetica che generavano discriminazioni forti tra abitanti delle città metropolitane, che stanno riducendo l’uso dell’auto privata, e abitanti delle aree rurali, per i quali invece l’uso dell’auto personale rappresenta una necessità inevitabile.

Per ridurre questi rischi, sarebbe necessario che il processo di integrazione avvenga in tempi lunghi, capaci di far assorbire le tensioni che inevitabilmente rischiano di presentarsi. Ma non abbiamo la possibilità di aspettare tempi lunghi, visto che le altre aree mondiali, Cina e USA, stanno procedendo di gran passo. Si tratta allora di mettere in campo tutte le risorse e le modalità per favorire un processo d’integrazione che sia non distruttivo e che riduca al minimo le tensioni possibili.

Gli strumenti per ovviare ai danni derivanti per alcuni territori dal processo d’integrazione sono le politiche di coesione che favoriscano processi di sostituzione, i sostegni ai redditi delle famiglie, la formazione ai nuovi lavori e gli investimenti infrastrutturali che generino nuovi insediamenti produttivi. Tutti questi strumenti sono necessari ma non sufficienti per realizzare un processo di integrazione non distruttivo. È necessario anche che ci sia una forte coesione sociale e un’accettazione che può passare solo dalla mobilitazione della società, coinvolgendo tutti nell’obiettivo di realizzare un’economia più competitiva che non lasci indietro nessuno.

Ecco allora che si apre uno spazio rilevante per le parti sociali che sono interessate ad evitare processi di emarginazione territoriale e che possono accompagnare le fasi d’integrazione proponendo soluzioni che riducano le tensioni e generino nuove soluzioni. 

Qualcosa di analogo avvenne in Italia negli anni ’90, quando si era alla vigilia dell’introduzione dell’euro e il paese doveva avviare una disinflazione rapida per poter far parte dell’unione monetaria. Si trattava di rivedere il sistema di contrattazione salariale, caratterizzato dal funzionamento d’indicizzazione che favoriva un circuito inflazionistico. 

Le parti sociali si accordarono per una sostanziale modifica del sistema contrattuale, accettarono impegni importanti come l’introduzione di una patrimoniale sulle imprese e il blocco della contrattazione e gettarono le basi, con il governo di allora (Carlo Azelio Ciampi Presidente del Consiglio), per una riforma del mercato del lavoro e degli interventi sociali capaci di attenuare i riflessi della disinflazione sui redditi dei lavoratori. La manovra ebbe successo e l’Italia poté partecipare alla creazione dell’euro sin dal suo inizio, grazie al rientro dell’inflazione entro livelli europei. 

Anche oggi sarebbe necessario far ricorso, su base europea, alla capacità delle parti sociali e di tutti gli attori intermedi per favorire un processo ordinato di integrazione del sistema produttivo europeo. Si formerebbe così una spinta dal basso a favore dell’Europa capace di contrastare le pulsioni nazionalistiche che altrimenti finirebbero per prevalere a fronte delle difficoltà che emergeranno quando si andasse a costituire imprese integrate in diversi settori, dalla difesa alle telecomunicazioni, ai servizi finanziari, ai trasporti ed altro.

Un’Europa integrata e competitiva necessita non solo di politiche che abbattano le mille frontiere interne, come richiedono i rapporti Letta e Draghi, ma anche di processi di coesione e di coinvolgimento dei cittadini senza il cui apporto e consenso è impossibile far nascere una nuova nazione continentale.

Poiché è difficile che, nelle attuali condizioni, sia la politica a sollecitare le parti sociali a farsi carico di un tale processo, appare necessario che siano le parti sociali a farsi promotrici, utilizzando gli strumenti e le istituzioni europee costruite proprio per dare una voce agli attori sociali. Sarebbe utile che una grande manifestazione europea possa avviare un processo di mobilizzazione volto a coinvolgere i cittadini e renderli consapevoli dei rischi che correremo se affronteremo solo su base nazionale le sfide di un futuro che è veramente prossimo, più di quanto si creda.

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