Ci sono documenti, elaborazioni e proposte che, nel bene o nel male, vengono presi a riferimento dai posteri per meglio descrivere una stagione economica, politica e – nel senso letterale del termine – storica.
Fu così, per esempio, per il Libro Bianco di Delors agli inizi degli anni 90. Esso fu riferimento (in parte lo è ancora) per misurare quanto realizzato (la carta sociale di Nizza, gli accordi di Lisbona) e quante occasioni, lì indicate, sono state perse (la conoscenza e la crescita professionale permanente, diritto universale per tutti i cittadini europei, come anticamera allo sviluppo e diffusione delle nuove tecnologie, via alternativa alla delocalizzazione e alla riduzione dei salari).
Sarà così, credo, anche per il Rapporto Draghi, ancor più che per quello Letta.
Per le analisi che fa del contesto e delle dinamiche geopolitiche e industriali nel mondo, per il ruolo (e le debolezze) oggi dell’Unione Europea, per le proposte in termini di maggiore coesione (e capacità di coordinamento e direzione) delle istituzioni europee, di finanza pubblica (su scala continentale), di driver di investimento su cui scommettere.
Partendo da un punto di fondo assolutamente condivisibile (e inedito rispetto alla stagione della nascita della Ue e dell’Euro, quando in tanti erano convinti delle magnifiche e progressive sorti dell’umanità, con la globalizzazione in piena espansione e la fine del c.d. “impero del male”): se è vero che l’Europa è stata (ed in parte rimane, anche se sempre più “scricchiolante”), soprattutto l’Europa dei paesi fondatori l’Unione, il continente dove meglio si è raggiunto un equilibrio tra crescita, democrazia (formale e sostanziale), minori disuguaglianze sociali, patria al contempo del welfare (o se vogliamo del compromesso storico tra capitale e lavoro) e di pace… tutto questo per quanto sarà ancora possibile?
Cioè di fronte al mondo sempre più multipolare e instabile, al ricatto energetico di parti importanti dei paesi emergenti, all’esplosione dell’intelligenza artificiale e al cambiamento climatico – in presenza di Paesi e sistemi che hanno scelto di scommettere su una competizione senza democrazia e con minore uguaglianza sociale – come può l’Europa rimanere al contempo motore di sviluppo (termine oramai – è anche questo è un cambiamento vero rispetto alla linearità dei principali pensieri economici – che va coniugato come ci insegna il pensiero ecologico, più in modo qualitativo che non solo quantitativo), senza rinunciare né alla democrazia né alla giustizia sociale?
Qui il rapporto Draghi centra il punto “storico” della fase.
Di fronte alla Cina che da inseguitrice si è trasformata in lepre (in termini militari, ma anche di accesso alle risorse minerarie strategiche, a significative riserve alimentari, in Asia e Africa, e soprattutto in termini tecnologici), passando da paese che “copiava” a paese che ora viene copiato, coniugando prodotti e servizi ad alto valore aggiunto e tecnologico con economie di scala tali da “tenere bassi i prezzi finali” …
Di fronte agli Stati Uniti che in un mix di protezionismo e di investimenti keynesiani si pongono in aperta competizione con la Cina per non perdere la corsa al futuro, sfruttando i vantaggi accumulati nella fase d’oro della Silicon Valley …
Di fronte ad economie, comunque importanti che stanno di fatto scegliendo per quale dei due campi diventare “paesi fornitori o terzo contisti” …
Di fronte a tutto questo l’Europa come può “rimanere agganciata” al treno della nuova crescita, trasformando la sua attuale debolezza (essere sostanzialmente un continente basato sulla manifattura di trasformazione, con risorse naturali proporzionalmente più scarse, dentro un calo demografico significativo) in una forza espansiva?
Il rapporto Draghi indica delle possibili soluzioni e dei possibili campi di intervento.
Lo fa partendo da tre assi di sviluppo: l’autonomia energetica e la sostenibilità ambientale (e le tecnologie relative a partire da quelle del riuso – economia circolare – e della produzione di energie green, su cui siamo ancora un’eccellenza); la profilazione e customizzazione dell’intelligenza artificiale in termini di integrazione verticale intorno alle principali filiere industriali (da declinarsi per “filiere forti”, dalla farmaceutica alla meccanica di precisione, ecc.) e qui il tema della formazione dei lavoratori e della crescita dei sistemi scolastici e universitari è presentata come funzionale a tale obiettivo; le politiche comuni di difesa intese anche e soprattutto come politiche industriali altamente innovative, avendo sempre – purtroppo – lo sviluppo militare condizionato la ricerca applicata (pensiamo alla stessa internet, figli di quell’Arpanet nata dall’esercito Usa).
Soprattutto indica nella capacità espansiva della spesa pubblica, direttamente e anche come volano/garanzia degli investimenti privati (compresi quelli dei fondi previdenziali) la linea di marcia finanziaria per sostenere un piano ambizioso, quantificato in un 5% del PIL europeo l’anno per il prossimo decennio (tre volte il Piano Marshall), aprendo anche a forme di debito comunitario (anche se in una contraddizione evidente con la proposta di “spiazzamento” rispetto ai debiti nazionali) e soprattutto indicando nell’austerità e in una politica di estremo rigore (insieme alle tentazioni nazionalistiche di chi si crede ancora di poter competere come sistema nazionale, pensiamo alla Germania) gli errori da non commettere.
Insomma più Europa, in grado di decidere e programmare su scala continentale, con più politiche espansive e più intervento pubblico: un messaggio fortissimo, soprattutto se a lanciarlo è una figura come Draghi, con la sua storia, formazione, incarichi ricoperti.
Non a caso i liberisti, gli economisti neo classici, i conservatori europei hanno sparato ad alzo zero sul rapporto Draghi e la stessa nuova Commissione Von der Leyen dovrà capire come tenere insieme il New green deal, l’esecuzione degli ultimi anni dei PNRR nazionali, il nuovo ciclo dei fondi strutturali (che sono elementi esplicitamente richiamati da Draghi dentro la sua visione “espansiva” dell’intervento pubblico) con una “maggioranza” politica (non tanto e solo nel Parlamento Europeo, ma nelle conferenze Governative) che va sempre di più identificandosi con il rispetto rigido dei patti di stabilità, per quanto allentati nei tempi, ma non nella sostanza.
Proprio per queste ragioni, di merito, di proposta e di momento storico, anche alla luce di chi sono gli oppositori più feroci al Piano Draghi, e pur ritenendo alcune proposte di merito migliorabili e soprattutto il Piano mancante di un punto strategico fondamentale, esso va sostanzialmente sostenuto, implementato, dandogli un’anima sociale ben più radicata e strutturale.
E questo è compito non solo delle forze politiche ma anche di quelle produttive e sociali, a partire da quelle del mondo del lavoro e del sindacato.
In una coerenza, penso alle recenti e importanti iniziative della Ces (Confederazione Europea dei Sindacati) contro il ritorno alle politiche di austerità, che vede più legittimato il sindacato di tanti altri soggetti (comprese le associazioni datoriali, sempre più nazionalistiche nei propri ragionamenti a breve).
Un sindacato, certo ancora con limiti e ritardi, ma che da tempo – penso in particolare al sindacalismo italiano che conosco di più e alla Cgil che su questo sta investendo da qualche anno – punta a farsi protagonista di una grande vertenza per politiche industriali continentali (e politiche sociali di accompagnamento ad esse, leggi dopo) che – aggiungo io – sappia correggere (in alcune parti, pensiamo al delicato ragionamento sulla “forza propulsiva” dell’industria militare che, temo sotto intenda anche possibili scenari da “economia di guerra”) e migliorare (in altre) il Piano Draghi, ma sostanzialmente riconoscendone la visione “pubblica e programmatoria”.
Perché un punto fondamentale non può essere messo in discussione: solo seguendo più o meno le indicazioni di Draghi, l’Europa (e in essa i paesi con una struttura economica più fortemente vocata al manifatturiero come l’Italia, per di più con la specificità di un sistema di imprese con una dimensione media più bassa rispetto a Francia, Germania e Spagna) potrà rimanere nella parte alta della nuova divisione internazionale del lavoro.
Potrà cioè garantire una crescita della produttiviità di sistema (quindi di capitale tecnologico e di attrattività dei sistemi, infrastrutturali, bancari, amministrativi, ecc.) in alternativa allo sfruttamento delle persone, e generare ricchezza da redistribuire (in forma diretta, più occupazione e più salario, e in forma indiretta, base imponibile – altra vicenda è se il sistema nazionale è giusto, progressivo, combatte veramente l’evasione, ecc.).
Non so se vi sono le condizioni, poste anche recentemente da diversi osservatori ed opinionisti, per quell’idea certo forte e suggestiva di un “patto tra produttori” su scala continentale, ma sicuramente il tema di come sostenere le ragioni di fondo di molte delle proposte del Piano Draghi è il tema all’ordine del giorno (o che dovrebbe essere all’ordine del giorno).
Anche per riportare la discussione politica italiana, provinciale, faziosa e tutta spostata a rinviare di fatto le scelte (pensiamo alla sciagurata proposta del Governo Meloni, sostenuta da una parte delle imprese italiane, di contrattare tempi più lunghi su molti obiettivi ambientali che sono anche obiettivi industriali, tecnologiche e di conoscenze…) sul merito di cosa fare in concreto per il futuro del Paese, dei suoi lavoratori, delle sue imprese e dei giovani.
Ecco perché allora occorre prima di tutto porre un tema con forza, anche per poter meglio sostenere una visione di politiche economiche coerenti con gli obiettivi indicati da Draghi e, nelle forme che potranno maturare, sostenerlo.
Nel Piano Draghi il tema della protezione sociale (premessa per ridurre le disuguaglianze e quindi rispettare tutte le “condizioni” della specificità europea, senza sacrificarne nessuna) è solamente abbozzato. Ridotto, in una visione “funzionalistica”, a più formazione permanente (per ridurre l’obsolescenza cognitiva e adattarsi ai veloci cambiamenti tecnologici) e ad un sistema scolastico, universitario e professionale più aperto, quantitativamente più inclusivo e con poli di eccellenza da diffondere come “punti di una rete europea”.
Certo questioni importanti, ma non sufficienti.
E del resto se lo sforzo finanziario richiesto è sforzo di risorse pubbliche (e quindi di tutti) e di risorse private diffuse (risparmio privato ma anche, ripeto, l’importante risparmio dedicato ai sistemi di previdenza complementare) e questo sforzo non può ridursi ad accompagnare in alto solo i possibili vincitori della sfida tecnologica.
Voglio essere più esplicito: nel piano Draghi mancano fondamentalmente due “priorità” in grado di dare sostanza e consenso popolare alle sue proposte, anche per ridurre quel “mare di paure” in cui navigano milioni di lavoratori dei settori a meno contenuto tecnologico o “dark” (cioè più inquinanti), oggi più diffidenti verso le trasformazioni (e politicamente più propensi all’astensione o al voto a partiti estremisti nazionalisti, anti migranti, protezionisti, anti Ue, ecc.).
La prima priorità che manca è quella di destinare una parte non minoritaria delle risorse pubbliche e private, in chiave continentale, ad una sorta di programma “Super Sure”, ovvero sia di accompagnamento di reddito e di servizi in particolare per quelle generazioni (diciamo 50-60 anni) che per quanto oggetto di investimento professionale e formativo non saranno tutte in grado di essere ricollocate nei nuovi sistemi produttivi più avanzati. Un sistema di ammortizzatori sociali e di “lavori sociali” che partendo dai bisogni del territorio (bisogni sociali, ma anche di protezione ambientale, di rigenerazione e cura delle aree urbane e degli edifici pubblici, di cura delle persone anziane, ecc.), non metta nessuno nelle condizioni di associare le trasformazioni necessarie dei nostri sistemi a forme di nuova povertà, esclusione, emarginazione.
La seconda priorità è quella che potremmo chiamare della “distribuzione più giusta ed uguale del lavoro che sarà”: una serie di interventi di struttura che metta le tecnologie al servizio delle persone, del cambiamento demografico e culturale (pensiamo alla necessità di avere sempre più migranti nelle nostre fabbriche, uffici, amministrazioni pubbliche, ecc.).
E’ il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario (come le 8 ore di lavoro al giorno furono battaglia internazionale ed europea in particolare, oggi è il tempo delle 6 ore) a fronte di aumenti significativi di produttività. E’ il tema della creazione di occupazione in settori dove la domanda deve fare l’offerta (tornano alla mente le idee di Ernesto Rossi sul “Lavoro di cittadinanza”), con più consumi collettivi e sociali e meno consumi individuali, partendo proprio dalla ri ambientalizzazione delle nostre città, dei nostri siti produttivi, ecc.
Temi che qui accenno solo ma che potrebbero essere anche i terreni di una partecipazione attiva dei lavoratori, delle loro organizzazioni e dei loro stessi risparmi e contributi al Piano Draghi
Dare una anima sociale piena al Piano Draghi, inserire per ogni proposta di intervento verticale sui settori degli specifici masterplan non solo formativi, ma anche organizzativi (riduzione di orario, flessibilità positive), occupazionali e con reti di tutele (anche di reddito e servizi) nei periodi di transizione lavorativa.
Una rete vera, pro attiva, per tutti quei lavoratori dei settori maturi o dei settori “dark” verso nuove modalità produttive o addirittura nuove attività “green”.
Declinare meglio la creazione di nuova occupazione sui consumi sociali, sulle tutele, su tutti quei lavori e processi in grado di creare “eco sistemi” non è tema diverso da come incoraggiare lo sviluppo, l’attrattività, la qualità della vita (che diviene elemento fondamentale per competere sempre di più e “importare” competenze, offrendo una qualità complessiva, sociale, culturale, artistica, ecc. che in Europa certo non manca). Il tutto anche come momento/carriera di ingresso per tanti migranti non solo a bassa scolarizzazione, accompagnando così anche l’altra grande transizione, quella si tutta europea. La transizione demografica, per invecchiare tutte e tutti, ma invecchiare bene ed in modo attivo.
E su questo esercitare tutta la propria capacità di proposta e tutto il proprio senso di responsabilità, anche come lavoratori e sindacati. Perché il futuro non è solo di chi lo sa immaginare, ma anche e soprattutto di chi prova fino in fondo a realizzarlo.
*Dirigente CGIL, già Segretario Generale Fillea Cgil