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Spartiacque tra visioni diverse della funzione del fisco

E’ ormai dottrina comune che il fossato fra ricchi e poveri sia aumentato all’interno dei paesi industrializzati e si legge in tutte le indagini empiriche che le operazione di riequilibrio sono quasi impossibili se non sono accompagnate dalla crescita economica. La lunga austerità non ha quindi giovato né all’aumento dell’occupazione, né al bilancio dello Stato né alla giustizia sociale.

Il problema si complica ulteriormente quando leggiamo gli ultimi studi dell’OCSE, dai quali risulta che nemmeno la ripresa economica avvenuta prima negli Stati Uniti e poi in alcuni paesi europei sia in grado di fermare la corsa verso una maggiore disparità. L’attuale evoluzione della tecnologia sta infatti eliminando milioni di professioni di medio livello e ne produce meno di un decimo di livello più elevato, mentre la crescente mobilità del capitale rispetto al lavoro fa si che, contrariamente a quanto si riteneva in passato, il mercato da solo non riesce a riequilibrare ma tende anzi a favorire l’aumento delle disparità. Il congelamento dei salari e l’aumento della disoccupazione provocano infatti una sostanziale diminuzione dei consumi e, di conseguenza, un freno alla crescita.

Se si vuole camminare verso una maggiore equità occorrono cioè politiche attive, dedicate a invertire la tendenza in corso.

Mi limito soltanto ad elencare le politiche che hanno maggiore effetto nel lungo periodo per parlare poi di alcune proposte ora in discussione in Italia. Lo strumento che più contribuisce ad una maggiore uguaglianza è certamente la scuola. Subito dopo vengono  la salute, la casa e la politica salariale. Solo la scuola promuove e moltiplica le risorse umane e solo un buon sistema sanitario e una sufficiente offerta di edilizia sociale possono fornire un efficace paracadute alle famiglie in caso di emergenze.

A questo si aggiunge ovviamente la fornitura di un reddito minimo garantito, di cui tuttavia si parla troppo di frequente senza tenere conto della necessità di riservarlo a coloro che ne hanno veramente bisogno e dell’altrettanto difficile sostenibilità da parte dello Stato.

In quest’occasione voglio tuttavia limitarmi a riflettere sugli  effetti nei confronti  disuguaglianza da parte di una misura fiscale recentemente portata avanti con molto vigore in Italia.

Prima di parlare di quest’argomento, giusto per salvarmi la coscienza, sottolineo ancora  una volta che, se l’evasione fiscale fosse portata al livello della media degli altri paesi europei, non saremmo alla ricerca di rimedi quasi miracolistici per rendere meno ingiusto Il nostro paese, per mettere in ordine i nostri conti e per mitigare l’eccessivo peso del nostro fisco.

Forse proprio perché gli apparati fiscali non funzionano a dovere si è aperta negli ultimi tempi una corsa verso strumenti nuovi, tra i quali primeggia la proposta di un’aliquota fiscale unica per tutti i livelli e le classi di reddito. Come tutte le proposte miracolose essa viene presentata con un termine inglese: nel caso in questione si chiama “flat tax”.

Ormai si è aperta una vera e propria gara fra chi riesce a formulare questa proposta nel modo più accettabile.

L’essenza è molto semplice: invece delle imposte progressive oggi in vigore si dovrebbe applicare una tariffa unica del 25%, valida tanto per le persone fisiche (IRPEF) quanto, almeno per alcuni, anche per l’IVA, per l’Ires e così via.

Una proposta che ha certamente il fascino della semplicità ma che va incontro ad alcune obiezioni non superabili. La prima è che verrebbero a mancare allo Stato decine di miliardi di introiti delle imposte personali, che dovrebbero o venire compensate da un poderoso aumento della stessa tariffa unica o del peso dell’Iva. Il che colpirebbe in modo fatale consumatori e imprese. La seconda obiezione è che essa non è applicata in nessun paese europeo, anche se è stata a lungo dibattuta in numerosi e raffinati ambienti accademici.

L’idea dell’aliquota unica incorre inoltre in una terza fatale obiezione: essa costituirebbe un ulteriore pesante trasferimento di risorse verso le classi più agiate. Per alleviare questa nefasta conseguenza alcune proposte aggiungono la possibilità di escludere da questa regola le classi più povere. Anche venendo in soccorso ai più poveri dei poveri resta in ogni caso inevitabile il trasferimento di risorse dal ceto medio alle classi di reddito più elevato.

Mettiamola come vogliamo, cerchiamo di trovare le giustificazioni intellettuali più raffinate e di pensare anche ai correttivi per i casi estremi ma il fatto che la stessa aliquota venga applicata a chi guadagna ventimila euro e a chi ne guadagna due milioni è, a mio parere, moralmente ed economicamente inaccettabile, anche senza scomodare la nostra Costituzione.

Se, comunque, la prossima campagna elettorale dovesse vedere l’aliquota unica come uno dei punti di differenza programmatica fra i diversi partiti, questo non sarebbe certo un male perché offrirebbe l’occasione per confrontarsi in modo concreto su crescita e giustizia sociale. Ci si renderebbe infatti conto che, anche se non vogliamo più parlare di destra e di sinistra, esistono sostanziali diversità nell’idea stessa che ognuno di noi ha della società in cui viviamo.

Nella vita democratica esistono infatti dei temi riguardo ai quali non solo è lecito ma è doveroso dividersi.

 

*Il Messaggero del 9 luglio 2017

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