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Spendiamo miliardi senza sapere che effetti hanno (*)

Ogni anno l’Italia spende miliardi in progetti finanziati dai fondi strutturali europei, eppure non abbiamo la minima idea dei loro effetti. Inevitabilmente, questa spesa è sfuggita di mano, come dimostra il caso italiano. 

 

I FONDI STRUTTURALI: UN FIUME DI DENARO IN PIENA

Nel 2012, l’Italia ha versato all’Unione Europea 16 miliardi di euro, e ne ha ricevuti 11 miliardi. Di questi, 3 miliardi riguardano i fondi strutturali che I’UE distribuisce alle regioni meno sviluppate.  I fondi strutturali destinati all’Italia consistono essenzialmente in due veicoli: il Fondo Sociale Europeo (FSE), che si occupa prevalentemente di formazione, sussidi al lavoro, inclusione sociale, e il Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale (FESR), che si occupa prevalentemente di sussidi alle imprese e infrastrutture. La Tabella 1 riassume queste cifre.

Tabella 1. Flussi finanziari fra l’Italia e l’Unione Europea


Fonte: European Commission: Financial Programming and Budget. Dati in miliardi di Euro

Il nuovo ciclo di programmazione europeo per il settennato 2014-20 prevede un’allocazione di fondi strutturali all’Italia di 41 miliardi, di cui oltre 24 solo alle regioni del Mezzogiorno (si veda la Tabella 2) . Questa cifra va raddoppiata con la quota di co-finanziamento italiano. Si tratta quindi di un fiume di denaro.

Tabella 2. La nuova programmazione europea, 2014-20


Fonte: Accordo di Partenariato, pp. 235-8. Dati in miliardi di Euro.

Ogni euro di fondi strutturali che riceviamo ci viene dunque a costare due euro: un euro che dobbiamo versare all’Unione Europea, e un euro che dobbiamo mettere come cofinanziamento. Quindi, contrariamente a quanta si crede, i fondi strutturali sono tutti pagati, e due volte,  dal contribuente italiano.

L’ATTUAZIONE DISASTROSA DEL CO-FINANZIAMENTO

In linea di principio, il co-finanziamento è un’ottima idea. Esso è un modo per coinvolgere il beneficiario, per assicurarsi che abbia un interesse nel progetto e abbia quindi gli incentivi giusti a portarlo avanti nel modo più efficace possibile. Il problema è che I’applicazione pratica del cofinanziamento è stata tale da negare questo principio.

La Tabella 3 mostra che nel periodo 2007-2012, un totale di quasi 700.000 progetti sono stati finanziati in Italia con il FSE, per una spesa complessiva di 13,5 miliardi. La gran parte di questi fondi sono stati usati per finanziare circa 500.000 progetti di formazione di vario tipo, per una spesa totale di 7,4 miliardi.

Tabella 3. progetti di formazione co-finanziati dal FSE nelle regioni italiane


Fonte: nostra elaborazione su dati OpenCoesione

Tuttavia, mentre praticamente tutti i progetti di formazione sono attuati da regioni o province, solo il 4 percento del finanziamento totale proviene dalle regioni (quasi niente dalle province);  il resto è finanziato  in parti uguali da stato italiano e UE. Lo scopo del cofinanziamento europeo è dunque completamente negato: chi cofinanzia le iniziative è lo stato centrale italiano, ma chi le attua sono  le  regioni. Esse hanno dunque pochissimi incentivi ad assicurarsi che questi progetti funzionino effettivamente.

UN SOTTOBOSCO NEL SOTTOBOSCO: LE VALUTAZIONI

Ma come facciamo a sapere se i benefici di questi progetti superano i costi per la collettività?  I costi per la collettività hanno due componenti: primo, i benefici che si sarebbero potuti ottenere se i soldi destinati a finanziare questi progetti fossero stati utilizzati in altro modo, per esempio lasciandoli nelle tasche dei cittadini; secondo, i costi diretti delle distorsioni causate dalla tassazione in questione.

Ovviamente, come in tutte le questioni di economia non esiste e non esisterà mai una risposta certa  alla domanda di partenza. Ci sono però modi più o meno sofisticati e più o meno condivisi nella best practice internazionale per cercare di avvicinarsi ad una risposta ragionevole.

Per fare questo, idealmente si vorrebbe condurre il seguente esperimento: prendiamo due gruppi casuali di 1000 persone disoccupate; al primo gruppo mettiamo a disposizione un corso di formazione, al secondo no. Dopo 12 e 24 mesi, vediamo quante persone nel primo gruppo sono occupate e quante lo sono nel secondo gruppo. Se non vi è alcuna differenza, è molto difficile argomentare che il corso di formazione vale i soldi che costa. Ma anche se la differenza fosse significativa, bisogna prendere in considerazione due altri fattori prima di  trarre qualsiasi conclusione: quanto guadagna chi è occupato dopo aver seguito il corso di formazione? E quanto è costato il corso di formazione stesso?

Nessun esperimento di questo genere è mai stato condotto in Italia. Vi sono ostacoli di ogni tipo, a  partire da quelli di natura legale. Ciò nonostante, la valutazione dei progetti di formazione è un’industria che non conosce crisi. Solo nel periodo 2007-2011 sono stati prodotti 280 documenti di valutazione del FSE (vd. Tabella 4). Ma questa è certamente una sottostima, anche perché ogni regione sarebbe obbligata a produrre valutazioni e molte regioni producono più di una valutazione, anche se non tutte vengono rese pubbliche.

Tabella 4. Le valutazioni del FSE


Fonte: Le valutazione del FSE 2007-2013, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e ISFOL, p. 21

Tuttavia, la stragrande maggioranza di queste valutazioni sono e servono solo a mantenere un sottobosco nel sottobosco, quello dei centri studi.

Tipicamente, vengono considerati sviluppi positivi un alto numero di progetti iniziati o completati, una percentuale elevata di utilizzo della risorse disponibili, e un buon andamento degli indicatori di risultato prescelti, come per esempio il tasso di disoccupazione femminile.

EPPURE NON SAPPIAMO ANCORA NIENTE

Nessuno di questi criteri consiste però in una “valutazione” dei fondi strutturali. Finanziare molti progetti FSE, o utilizzare una percentuale elevata della dotazione FSE, possono essere segnali “cattivi” se i soldi vengono utilizzati per progetti inutili o dannosi. E se il tasso di occupazione  femminile sale, ciò non significa che i fondi strutturali siano stati utili: potrebbe essere dovuto alla congiuntura nazionale o regionale.

Alcune valutazioni cercano di andare oltre questi dati inutili. La valutazione del FSE del Lazio è una di queste. Essa presenta i risultati di un’indagine sugli esiti occupazionali 6 e 12 mesi dopo il completamento di un corso di formazione. La Tabella 5 mostra i risultati.

Tabella 5. Esiti occupazionali dei corsi di formazione, regione Lazio


Fonti: vd. ebook

Dalla colonna (1), il 9,1 e il 3,9 percento dei frequentatori dei corsi di formazione erano occupati sei e dodici mesi dopo la fine dei corsi, rispettivamente È tanto o poco? Molto difficile dirlo. Una simile indagine fatta per il precedente settennato  del FSE, nel 2006, mostrava dei numeri molto più alti (colonna 3): 54,2 e 34,7 percento, rispettivamente. Ma i due numeri non sono confrontabili, perché la prima indagine è fatta sulla base delle comunicazioni obbligatorie registrate dagli archivi dei centri per l’impiego, la seconda sulla base di interviste.

In ogni caso, bisognerebbe sapere quanto sono costati i corsi a cui si riferiscono questi dati e ancora meglio quanto guadagnano gli occupati. Poi bisognerebbe sapere se questi posti di lavoro sono effettivamente “addizionali”, cioè se le imprese avrebbero assunto ugualmente le persone che appaiono in tabella anche se non fossero stati condotti i corsi di formazione. E se sono “addizionali”, per assumere queste persone siamo sicuri che I’azienda non abbia licenziato un numero equivalente di lavoratori già impiegati?

L’Unione Europea incarica un network di esperti di collezionare tutti i rapporti di valutazione di tutti i paesi UE, così come le valutazioni  di singoli programmi. Nessuna delle valutazioni  prese in esame per I’Italia è del tipo analisi costi benefici, cioè nessuna tenta di valutare i costi e i benefici per la collettività secondo la metodologia illustrata sopra. Ma è facile mostrare come in realtà non abbiamo la benché minima idea né dei costi né  degli effetti di questi progetti.

Prendiamo il rapporto del network di esperti sulla spesa del FSE per l’Inclusione Sociale (Tabella 6). In Italia la percentuale che ha trovato un impiego in Italia sembra essere molto più bassa che in Francia e in Germania: solo l’1 percento dei partecipanti, e il 14 percento di coloro che hanno completato l’attività, contro il 19 e l’85 percento per la Francia. Ma in realtà non sappiamo assolutamente se i partecipanti hanno ricevuto servizi diversi: per esempio è possibile che i partecipanti italiani abbiano ricevuto servizi non finalizzati a trovare un posto di lavoro. Oppure il tipo di partecipanti in Italia potrebbe essere stato molto diverso (per esempio, migranti appena arrivati in Italia); oppure ancora effettivamente i servizi offerti in Italia sono stati meno efficaci. Non lo sapremo mai.

Tabella 6. Spesa per inclusione sociale del FSE, partecipanti e occupati


Fonte: ESF Expert Evaluation Network:  Final  synthesis report on Social Inclusion, p. 46

I casi sono due. O i dati della Tabella 6 dicono qualcosa sugli effetti causali dei corsi di formazione, e in questo caso avrebbero dovuto indurre qualsiasi policymaker  italiano sensato a ridurre la spesa per corsi di formazione. Oppure questi dati, per le ragioni discusse sopra, non dicono niente, e allora dobbiamo accettare la conclusione che stiamo spendendo miliardi senza sapere che effetti hanno.

 

(*) Articolo apparso su “www.lavoce.info” del 4.7.2014

(**)  Professore ordinario all’Università Bocconi

(***)  Research assistant a lavoce.info 

 

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