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Sulla Cina cambiamo marcia

Ai primi di luglio l’Unione Europea deciderà a chi applicare i dazi in materia di automotive. Premesso che alzare muri è sempre controproducente soprattutto in campo economico e specialmente quando quello che viene considerato il “nemico” da cui difendersi è già in casa tua, dentro le tue aziende come azionista, sovente di maggioranza. Basta guardarsi intorno come la Cina e i cinesi siano silenziosamente ma alacremente inseriti nella nostra società. La politica non si è accorta di come hanno conquistato spazi nel commercio minuto e di catene di negozi, nelle imprese, nelle nostre infrastrutture. 

Perché inserire dazi è uno splendido autogol, Niccolai sta diventando di moda nella politica europea e nostrana. Nel 2022 la Cina ha investito 7,9 miliardi di euro in Europa tra acquisizione di partecipazioni di controllo, paritarie o minoritarie in un’impresa estera e costituzione di una filiale all’estero. Di questi investimenti oltre il 50% è nell’automotive e il 10% in infrastrutture. Questo dato è tendenzialmente basso e riconducibile ai dati sino al 2013. Poi dal 2014 al 2019 ci fu il boom di investimenti sino a arrivare quasi ai 50 miliardi e sino al 2017 il rapporto era rovesciato. Questo significa che la Cina si considera consolidata nel campo infrastrutturale e ora agisce negli investimenti in settori specifici. Insomma ha già in mano i luoghi per fare viaggiare e arrivare le merci. Sono infatti riconducibili a quegli anni gli acquisti, da parte della azienda statale cinese Cosco, di una partecipazione del 35% nel porto di Rotterdam, del 40% nel porto di Vado Ligure e del 51% (diventata poi del 67%) in quello greco del Pireo che è ora il quinto in Europa per movimentazione merci, dall’ottavo posto che ricopriva pre-proprietà cinese. Quindi la Cina è già in Europa, inserire dazi a fronte di un calo di investimenti, sebbene concentrati sull’automotive non ha senso quando bisognerebbe agire con operazioni governative di gestione e controllo degli investimenti. Perché se la Leapmotor è controllata da Stellantis non credo sia saggio sanzionarla. Altro discorso se Stellantis realizza la fabbrica in Polonia anziché a Mirafiori. Ma il tema dei costi di produzione tra diversi Paesi è un tema che stentiamo a voler affrontare. 

Ricordo anche la dipendenza europea dalla Cina su alcuni beni critici come le terre rare pesanti è al 100%, magnesio al 97%, terre rare leggere all’85% e poi abbiamo una 

bilancia, sbilanciata, commerciale europea di scambi con la Cina per cui esportiamo per 230 miliardi e importiamo per 627 miliardi di euro per un totale di 857 miliardi di scambi ben sbilanciati a favore della Cina. 

In campo automotive si rischia di danneggiare i maggiori marchi europei che producono in Cina da BMW, la Mini è costruita in Cina a Dacia a Citroen, il famoso marchio Mg è diventato cinese e sono prodotte in Cina, oltre alle Smart e al marchio Cupra di Seat di proprietà VW. Mentre non mi pare di vedere l’invasione di marchi e modelli di case costruttrici cinesi nei concessionari europei. Altro discorso e questo andrebbe promosso e non sanzionato sono le joint venture di produttori europei che incentivano la creazione di stabilimenti in Europa. Ma anche qui nella furia della transizione all’elettrico non riusciamo ancora a sviluppare il processo produttivo, in Europa, delle batterie, basti ricordare la sospensione dello stabilimento Stellantis in Italia e la nostra dipendenza dalla Cina nel campo. 

La ricerca spasmodica di un altro produttore per arrivare al milione di auto da produrre in Italia, aggiungo senza trucchi quindi escludendo i veicoli commerciali, porta in questi giorni Chery in “giro” per l’Italia, che tra l’altro è fornitore principale dello stabilimento molisano della DR, quindi già con un piede in Italia e l’altro posizionato in Spagna. 

Abbiamo bisogno di alleanze, di aziende che sappiano internazionalizzarsi, di imprenditori che investano e di una oculata politica nazionale e europea che gestisca questa fase delicata di transizione ecologica in una situazione politica europea che si è ingarbugliata, specialmente in Francia e Germania, dopo le elezioni europee. Non servono slogan, ideologie, muri. 

Bisogna uscire dal nostro provincialismo ora sovraccaricato anche di autarchia, uscire dal pensiero diffuso di una Stellantis non più italiana, non più Torino centrica (oggi sarebbe chiusa!). Non è tramontata l’idea di Marchionne di un mondo diviso in cinque spicchi come un’arancia, cioè cinque mercati mondiali su cui agire e dove la Cina non è solo un Paese che esporta e ne ha certo una gran necessità per la sua economia, ma è un Paese che possiamo conquistare. 

Ecco cosa dice il ceo di Mercedes in occasione di un’intervista al Financial Times: «Non bisogna aumentare le tariffe. Io sono contrario ai dazi e penso che si debba fare l’opposto, ovvero ridurli. Le aziende cinesi che desiderano esportare in Europa rappresentano uno sviluppo naturale della concorrenza e devono essere affrontate con prodotti e tecnologie migliori e maggiore agilità. Questa è l’economia di mercato. Lasciamo che la concorrenza si esprima». 

I tedeschi che per primi sono andati a investire in Cina hanno una posizione di apertura verso i mercati e i Paesi in cui sono stati capaci di esportare tecnologia e conoscenza mentre l’Italietta che se la prende con Fiat (ancora!) venduta ai francesi invoca l’intervento dello Stato. A quanti piaceva una possibile nazionalizzazione! 

Siamo ancora in tempo a cambiare direzione di marcia e pensare che se da un lato serve produrre di più in Italia occorre affrontare il nodo irrisolto dei costi e dall’altra che le nostre capacità, professionalità, tecnologie e una forza lavoro capace, sono risorse per trasformare un problema in opportunità. 

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