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Il processo rallenta per mancanza di materie prime, ma non si arresterà

Le grandi case produttrici lavorano già per la mobilità del futuro. Il Covid, la guerra in Ucraina e i rapporti tra Europa e Cina hanno provocato una inevitabile battuta di arresto.

L’intervista a Giuseppe Sabella

Nei giorni scorsi era previsto il voto degli ambasciatori europei, in sede Coreper, sullo stop ai motori diesel e benzina dal 2035. La procedura è stata rinviata a data da destinarsi. La notizia si è diffusa ed è stata ripresa da tutti i media dopo che il portavoce della Presidenza svedese del Consiglio Ue, Daniel Holmberg, ha dichiarato che “il Coreper tornerà sulla questione a tempo debito”. Nel frattempo, il punto è stato tolto anche dall’agenda del Consiglio europeo (del 7 marzo) che doveva dare l’approvazione finale sulla trasformazione della mobilità e che verrà rimandato a una successiva sessione del Consiglio. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova, che sul tema della Transizione energetica ha pubblicato diversi studi.

Sabella, cosa sta succedendo in Europa? Si torna indietro rispetto alle misure del pacchetto “Fit for 55” che prevedono lo stop del motore endotermico dal 2035?

Non credo che esista realmente la possibilità di mettere in discussione il futuro elettrico della mobilità sebbene vi siano delle criticità nei provvedimenti peraltro già votati dal Parlamento europeo. E che, questo non è da escludere, potrebbero essere rivisti in alcuni aspetti. Dobbiamo però partire dal presupposto che Oliver Blume (ad Volkswagen) e Carlos Tavares (ad Stellantis) dicono che arriveranno prima del 2035 a produrre solo auto elettriche. Stellantis, d’altra parte, nasce dalla fusione di PSA e FCA – voluta fortemente dal Lingotto – per colmare il suo deficit sulla tecnologia dell’elettrico, limite della gestione Marchionne. Mi pare quindi impensabile un cambio di marcia. Sono proprio i grandi costruttori a spingere per questi provvedimenti, temendo che le loro filiere non restino al passo. In sintesi, sono preoccupati di ritrovarsi in corso d’opera senza la componentistica adeguata.

Tra i contestatori del “full electric” vi sono i due più importanti Paesi manifatturieri d’Europa, Germania e Italia, oltre che Polonia e Bulgaria. Come si spiegano queste posizioni?

La mia sensazione è che la Germania stia un po’ bluffando: Volkswagen, Daimler e BMW – come del resto anche Stellantis, Renault, Ford, Honda – hanno molto investito nell’elettrico, non possono permettersi di tornare indietro. Piuttosto, la Germania aveva chiesto un’apertura da parte dell’Europa su idrogeno, eFuels e biocarburanti. Evidentemente non ha ancora ricevuto risposte e, quindi, fa ostruzione. Anche la posizione dell’Italia non credo sia finalizzata a far saltare tutto, non ce lo possiamo permettere: buona parte della nostra industria è allineata alle nuove tecnologie. Inoltre, rischiamo un contraccolpo politico e non credo sia interesse dell’Italia portare avanti uno scontro su un punto programmatico di tale importanza. Chiaro che, in futuro, le misure così previste potrebbero essere emendate e riviste. E il governo italiano potrà dire che è merito suo, come del resto ha fatto in questa fase.

Cosa ha portato a questi ripensamenti in sede europea?

Non credo si tratti di ripensamenti semmai di qualche timore circa gli approvvigionamenti energetici – di cui abbiamo molto sofferto negli ultimi 18 mesi – e di materie prime, Terre Rare e litio in particolare. Per quanto riguarda le Terre Rare, è vero che circa due mesi fa, in Svezia, è stato scoperto uno dei più grandi giacimenti al mondo. Ma il loro processo di estrazione è molto complesso ed è ciò che le rende “rare”. A oggi, il 98% delle Terre Rare utilizzate dall’Unione Europea viene importato dalla Cina, che vale il 60% dell’estrazione e il 90% dei processi di trattamento, purificazione e raffinazione. Venendo al litio e alle batterie, è vero che non sono da sottovalutare le ricerche e gli investimenti europei, così come le recenti scoperte in Ucraina e le stime del CNR circa i giacimenti italiani. Ma, a oggi, la Cina produce tre quarti delle batterie prodotte nel mondo: degli oltre 130 siti produttivi per le batterie al litio attualmente sparsi in tutto il globo, 100 si trovano in Cina. Ciò premesso, credo che lo scenario tra 3/4 anni sarà diverso, l’Europa non sarà più così dipendente. Resta il fatto che nessuno si aspettava di vedere, nel giro di 2 anni, una pandemia e una guerra ai confini europei che, accelerando i processi di accorciamento delle filiere produttive, hanno fatto esplodere il problema della dipendenza industriale ed energetica dell’Europa. Così, io credo, si spiega la cautela sulla Transizione alla mobilità elettrica.

Cosa realisticamente potrebbe essere rivisto delle misure già approvate?

Penso le scadenze. Ho la sensazione che il 2035 non sia termine inderogabile. La Commissione, spinta dai costruttori come dicevo, ha voluto dare un segnale forte al sistema dell’automotive. Inoltre, in percentuale da stabilire, probabilmente sarà stabilita la possibilità di produrre anche con tecnologie diverse: penso all’idrogeno, al diesel di nuova generazione e ai biocarburanti. Vedremo se la Germania realmente vorrà queste alternative, per l’Italia – più orientata ai componenti rispetto all’auto in sé – il discorso è diverso: potrebbero rendere più graduale la Transizione. Resta il fatto che, essendoci sullo sfondo una guerra tecnologica tra le grandi potenze del mondo, sono esclusi colpi di scena e cambi di rotta.

La guerra tecnologica la vediamo da qualche anno anche sul terreno dell’energia e degli approvvigionamenti di chip e semiconduttori. Ma cosa c’entra con l’auto? Ci spieghi meglio…

Già nel secolo scorso, l’automobile è stata il simbolo del lavoro e dell’industria tutta. Ho la sensazione che, da questo punto di vista, la storia si ripeterà. L’auto è un prodotto così complesso che, anche in questo caso, trainerà il nuovo ciclo economico. Ma è, per le stesse ragioni, al centro della rivoluzione industriale dei nostri giorni – quella che fino a qualche anno fa chiamavamo industria4.0 – e, di conseguenza, della fisiologica competizione tra le case costruttrici e le grandi potenze economiche, in una fase protezionistica della storia. Questo credo sia il punto dirimente. Capire questo significa comprendere il “mondo post-globale” – come lo chiama Mario Deaglio – e le varie guerre, tecnologiche e non solo.

Più nel dettaglio, cosa c’entra l’auto elettrica con la riconfigurazione della globalizzazione ovvero con il cosiddetto mondo post-globale?

Dal 2012, con l’inizio del processo di back reshoring delle produzioni avviato da Obama, la globalizzazione ha cambiato verso. In primis perché, dopo la grande crisi del 2008, la crisi sociale negli USA ha avuto bisogno di investimenti per il lavoro. E una di queste soluzioni è stata quella di riportare a casa le attività produttive precedentemente delocalizzate. In secondo luogo, nessuno si aspettava che la Cina diventasse una grande potenza tecnologica e industriale in così poco tempo. Per queste ragioni, la spinta dell’off shoring – ovvero delle delocalizzazioni – si è esaurita. E con questa ha iniziato ad affievolirsi il commercio mondiale, tanto che dal 2016 abbiamo evidenze di un forte rallentamento che precede il crollo del 2020, con la pandemia e i lockdown. È questa riconfigurazione dei grandi mercati che pone fine all’interdipendenza – termine con cui l’Ocse definisce la globalizzazione – e al multilateralismo, aprendo di fatto le porte al cosiddetto decoupling, lo sdoppiamento della globalizzazione: quella occidentale e quella asiatica.

Da questo punto di vista, cosa hanno comportato guerra e pandemia?

Il covid e la guerra in Ucraina sono due potenti acceleratori di questo processo che vede il nuovo scenario mondiale e i mercati riorganizzarsi secondo macroregioni che – in modo anche un po’ preoccupante – non sono altro che i “blocchi” del mondo nuovo. Questi blocchi oggi vedono nella domanda interna, nel proprio mercato, la possibilità di far ripartire le economie dopo anni di crescita debole, in particolare in Europa. I primi ad avere dato risposte politiche in questo senso sono stati gli USA con i dazi (Trump), rallentando peraltro una costante della loro storia che li ha resi egemoni nel mondo: l’import. La Cina, da quando ha avviato il suo processo di industrializzazione, è sempre stata il Paese più autonomo.

Gli USA hanno fatto i dazi e adesso l’Inflaction Reduction Act. E l’Europa cosa ha fatto e cosa sta facendo ora?

L’Europa ha programmato la sua Grande Transizione – che altro non è che il programma Green Deal (2019) – per guadagnarsi la sua indipendenza industriale ed energetica: la crisi delle materie prime e l’inflazione altro non sono che l’indicatore della nostra dipendenza. In quest’ottica l’auto elettrica è il modo per ricostruire un ponte nuovo tra produzione e consumo, per fare in modo che la nostra domanda interna premi il prodotto locale. È chiaro che prima o poi l’Europa dirà, sotto forma di dazi (che ogni tanto Ursula von derLeyen chiama “dazi verdi”), che il nostro prodotto è buono e sostenibile per l’ambiente e quello degli altri no. Perché Toyota dice che l’elettrico è un bluff? Perché Toyota ha scommesso sul full hybrid ! Come si evince da questo esempio, ognuno spinge per la propria tecnologia e per il proprio prodotto. Noi, sul terreno dell’elettrico, dobbiamo essere competitivi con la Cina in particolare, che vi ha investito tantissimo. Ma se non iniziamo a ragionarne per economie di scala, andrà a finire che in Europa circoleranno veicoli elettrici prodotti in Cina. Se, invece, saremo capaci di compiere la Transizione, l’Europa renderà difficile la penetrazione nel mercato europeo delle auto cinesi. Per questo la Transizione è necessaria: il pericolo semmai è non farla. Come giustamente la sua domanda richiamava, gli USA hanno varato l’InflactionReduction Act: dobbiamo fare attenzione perché se la UE non risponde a questo provvedimento, qualche grande industria valuterà di delocalizzare negli USA, che sulle produzioni – e sull’energia rinnovabile – stanno investendo 400 miliardi di dollari.

I sindacati, più o meno un anno fa, hanno reso noto uno studio condotto insieme alle Parti datoriali di circa 70.000 posti di lavoro in pericolo per la Transizione dell’auto. Come si può evitare che questo grande processo di Trasformazione dell’industria si riveli un dramma sociale?

Questo è il punto vero della questione, è ciò di cui dovremmo seriamente parlare. Partendo dal presupposto che la Transizione è inevitabile, come la gestiamo? È importante anzitutto rendere il credito sempre più accessibile per le imprese, in particolare per quelle piccole. In secondo luogo, dobbiamo attivare al massimo la rete dei servizi per il lavoro, vi saranno importanti flussi occupazionali e nessuno deve essere lasciato solo. Consideriamo anche, però, che non c’è solo un mondo che finisce, quello dell’oil and gas; ce n’è anche uno che inizia, anzi che è già iniziato – e forse ce ne siamo accorti un po’ tardi in Italia – e che va potenziato e sviluppato: quello del software, dell’energia rinnovabile, dell’economia circolare, dell’auto elettrica, dei green jobs, etc. Per fare solo un esempio, chi si occuperà della modernizzazione delle infrastrutture? Io penso che saranno proprio questi 70.000 lavoratori in uscita dal settore dell’automotive. Del resto, in Europa si stima che il settore auto perderà 275.000 posti di lavoro. Consideriamo però che i nuovi lavori già hanno creato 250.000 nuovi posti di lavoro. Come si evince, non stiamo andando incontro alla catastrofe sociale.

Sul tema della Trasformazione dell’industria lei è autore di diverse pubblicazioni. Nell’ultima si sostiene che il successo della Transizione è la rivalutazione del potere d’acquisto e, più in generale, del lavoro. Ci spiega meglio?

Rivalutare il lavoro, in ultima istanza, significa mettere realmente le persone al centro della Transizione, così come indicato dai programmi di sviluppo sostenibile e, anche, dalla Just Transition europea. Nel mio ultimo lavoro, si sostiene che non c’è Transizione se non c’è sviluppo economico e sociale. Il potere d’acquisto non è lo sviluppo sociale tout court ma ne è un buon indicatore, in particolare dopo tanti anni di disgregazione dei ceti medi. Rivalutare il lavoro significa restituirgli quella centralità venuta meno dopo 30 anni di competizione dei “fattori produttivi” sul mercato globale: chiaro che tutto ciò, in realtà, ha concorso a trattare il lavoro e le persone come costi e non come risorse. Concretamente, gli aspetti delle competenze, della formazione, della scuola più in generale e delle politiche attive – in particolare della riqualificazione/ricollocazione – devono diventare priorità del sistema economico. Poi vi sono aspetti macroeconomici che non possono essere sottovalutati: la Transizione ecologica ed energetica non è “gratis”. Del resto, in quest’ottica, la Ue ha mobilitato oltre 1.000 miliardi per l’innovazione – che significa in particolare digitale ed energetica – delle sue filiere produttive: l’operazione ha un senso se, alla fine, il mercato premierà il prodotto locale. Ecco perché, più volte, Ursula von der Leyen ha parlato di dazi e perché il primo obiettivo del Green Deal è il consolidamento della domanda interna. Tuttavia, per fare tutto questo, è necessario fare leva sul potere d’acquisto, ricostruendo un legame tra lavoro e consumo: la trasformazione della mobilità è questa occasione.

Dal sito : www.rainews.it

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