La disoccupazione crescente, l’allargarsi del disagio sociale, l’ampliamento dell’area delle famiglie in condizioni di difficoltà, che nel nostro Paese si caratterizza per alcune peculiarità, una fra tutte l’accentuata povertà nelle coorti di età estreme ,anziani e minori[1], hanno portato l’attenzione su misure di carattere assistenziale di contrasto alla povertà.
Sotto la dicitura di “reddito minimo” si possono infatti celare impostazioni anche molto diverse, come è reso evidente da una rapida descrizione delle due proposte di legge presentate nella presente legislatura, una di iniziativa popolare ed una del PD, mentre il Movimento Cinque Stelle non ha ancora formalizzato le proposte presentate in campagna elettorale.
La prima proposta di legge di iniziativa popolare (con oltre 50.000 firme raccolte da circa 170 associazioni) punta ad istituire un reddito minimo di cittadinanza di 600 euro mensili. Il finanziamento viene posto a carico della fiscalità generale, senza una stima dei costi.
La seconda iniziativa, di alcuni deputati Pd, fa riferimento ancora ad un reddito di cittadinanza (500 euro mensili) ma con requisiti più stretti ed è presentata in forma di sperimentazione delimitata sia temporalmente, con una durata di due anni e mezzo, dal 2013 al 2015, sia territorialmente, con priorità alle regioni con più alti tassi di disoccupazione e di povertà assoluta. In entrambi i progetti di legge il reddito minimo spetterebbe ad individui dai 18 anni fino all’età pensionabile, disoccupati o anche con occupazione precaria, purchè con reddito personale imponibile non superiore ad 8 mila euro nel primo caso ed Isee non superiore a 6.880 euro, nel secondo. La sperimentalità, nonchè la previsione di un importo del sussidio inferiore e di una individuazione della soglia commisurata alla condizione economica familiare, individuata tramite Isee, rispetto alla proposta di iniziativa popolare consentono alla proposta Pd di “contenere” la spesa annua a 2 miliardi di euro, mentre per l’altra proposta, come già detto, non vengono quantificati i costi.
La seconda proposta si differenzia dalla prima anche perché il reddito minimo viene condizionato all’accettazione di un percorso di inserimento lavorativo o di un lavoro, anche a termine, mentre nella proposta di iniziativa popolare vi è una stringente condizione di congruità, vale a dire che anche in quel caso si perde il diritto al reddito minimo se non si accetta un’offerta di lavoro, ma solo se tale offerta è “congrua” rispetto al precedente lavoro e rispetto alle competenze, anche informali, possedute.
Quest’ultima proposta è del tutto inopportuna nella situazione italiana, laddove si consideri l’amplissima copertura della contrattazione collettiva, il cui ruolo insostituibile sarebbe indebolito. Per quanto riguarda il riordino degli ammortizzatori sociali, si tratta di una proposta quanto meno intempestiva. La tematica è stata infatti positivamente affrontata meno di un anno fa dalla riforma Fornero, la quale unifica le precedenti indennità di disoccupazione nella nuova Aspi, che copre anche le tipologie flessibili ed i lavori brevi e stagionali, ed affida a Fondi bilaterali di solidarietà, creati sulla base di accordi di settore, il compito di estendere la cassa integrazione ai settori che oggi ne sono privi. La riforma non va modificata, va semmai attuata, senza voler negare le difficoltà di creare i previsti fondi contrattuali, ma senza con questo rinunciare a coglierne le grandi opportunità. E’ appena il caso di sottolineare che gli ammortizzatori sociali, per la loro stessa funzione, in tutti i sistemi sono necessariamente condizionati alla disponibilità a lavorare.
Ma certamente in forme di reddito minimo come quelle descritte deve essere un collegamento piuttosto stretto.
Vanno infatti tenute presenti le possibili conseguenze di forme troppo “larghe”, quali quelle assimilabili al reddito di cittadinanza, che divaricano la dimensione economica del trasferimento da quella lavorativa: il rischio di favorire forme di elusione e di lavoro irregolare, il rischio di scoraggiare il lavoro part-time e il lavoro occasionale, il rischio di abbandono del mercato da parte del lavoro femminile, il rischio di rinuncia al lavoro da parte dei soggetti svantaggiati e più in generale di scoraggiamento nella ricerca di occupazione, nonchè l’elevata disomogeneità dei mercati del lavoro e dei tassi di occupazione presenti nelle diverse regioni italiane.
Versioni molto spinte come quelle che vanno verso il reddito di cittadinanza e che non prevedono, di fatto, forme di workfare, quelle tradizionalmente sostenute da movimenti di sinistra, rischiano di saldarsi con correnti di pensiero esattamente opposte che, privilegiando una forma di sostegno basata sulla mera erogazione monetaria, rinunciano al pieno inserimento sociale di alcuni soggetti deboli o comunque accettano minori garanzie retributiveola fuoriuscita dal mondo del lavoro.
Semmai in Italia la questione è che le forme di condizionamento all’accettazione di un lavoro non sono accompagnate dalla capacità del sistema dei servizi per l’impiego, al di là dell’attuale lunga fase di recessione, di proporre percorsi di inserimento/reinserimento lavorativo.
Questo è stato evidenziato dai maldestri tentativi degli ultimi anni, dettati anche dalle raccomandazioni dell’UE sulla flexsecurity, di inserire i percettori di ammortizzatori sociali in percorsi di politiche attive, che, quando sono stati realizzati, si sono spesso dimostrati poco mirati sia rispetto ai fabbisogni professionali del mercato che rispetto alle esigenze di occupabilità degli individui.
Parlare di misure di contrasto alla povertà è cosa diversa dal riferirsi alle misure di reddito minimo appena viste e, dati i notevoli problemi di sostenibilità finanziaria, è indispensabile riferirsi a misure molto selettive che affrontino la multidimensionalità dell’esclusione sociale.
In tal caso, ci si deve porre in un’ottica di personalizzazione degli interventi che associ misure di integrazione sia sociale che lavorativa. L’approccio da preferire è quello dell’“integrazione attiva”, tenendo insieme tre elementi: un’assistenza al reddito, un collegamento con il mercato del lavoro, un percorso di inserimento anche sociale, compreso l’accesso ad una serie di servizi.
Questo significa collocare gli strumenti di lotta alla povertà all’interno di un progettazione calibrata sulla situazione socio-economico-familiare della persona, governata da una regia pubblica, ma molto orientata a valorizzare il tessuto organizzato della società ed in cui l’accesso al lavoro va messo in relazione con gli altri elementi del contesto, integrando i diversi network di protezione sociale, per far fronte alle forme di svantaggio multiplo e complesso sempre più presenti nelle nostre realtà.
Le misure di integrazione del reddito assorbono buona parte della spesa socio-assistenziale, ma queste sono dirette nella grandissima parte a specifiche categorie di soggetti e solo in misura molto ridotta raggiungono le famiglie in condizioni economiche più svantaggiate. Ai tre decili di famiglie più povere va poco più del 50% del complesso delle erogazioni monetarie, mentre il resto si distribuisce fra le famiglie a reddito medio o alto.
Nella classificazione europea la voce del nostro bilancio relativa all’esclusione sociale pesa per appena lo 0,1% del Pil contro lo 0,3% della media europea ed anche per la voce famiglia e minori la nostra spesa è circa la metà (1,2%) rispetto a quella europea.
Ma vi è un altro elemento da tenere presente ovvero l’inefficacia dei nostri trasferimenti; infatti, se il rischio povertà in Italia è abbattuto di 4 punti dopo la loro erogazione, questo valore in Europa corrisponde a 8 punti e per i minori addirittura si va da 7 dell’Italia ai 13 dell’Europa.
Non mancano, certamente le misure economico-assistenziali, ma siamo carenti (in questo senso con noi la Grecia e l’Ungheria) di una misura universale ed adeguata di contrasto alla povertà.
L’impegno, quindi, che l’Italia ha assunto con i Piani nazionali di Riforma 2011 e 2012 di contribuire all’obiettivo europeo della riduzione delle persone in condizioni di povertà ed esclusione entro il 2020 con 2 milioni e 200 mila persone, sui 20 milioni previsti a livello di Unione, impone di identificare puntualmente una strategia per il futuro, anche utilizzando al meglio le risorse dei fondi comunitari 2014/2020, ed in particolare del Fondo sociale europeo, che la Commissione europea ha proposto sia dedicato per almeno il 20% in ogni Stato all’obiettivo tematico “promuovere l’inclusione sociale e combattere la povertà”.
Visti i vincoli dati dalla finanza pubblica, il Governo si è impegnato a sperimentare una misura di contrasto alla povertà assoluta, selettiva e condizionata alla partecipazione a percorsi di ricerca attiva di lavoro (cosiddetta nuova social card), con la quale si intende anche tradurre quanto “raccomandato” dall’Unione Europea di operare su tre pilastri: supporto al reddito adeguato; mercati del lavoro inclusivi; accesso a servizi di qualità.
Quanto indicato dai “10 saggi” del gruppo di lavoro socio economico nominati dal Presidente Napolitano nell’”Agenda possibile” e poi le dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio Letta sembrano collocare puntualmente dentro il quadro degli interventi di politica sociale le scelte sul reddito minimo, rivolte soprattutto alle famiglie bisognose con figli.
Rispetto alla social card in vigore dal 2008 ne eredita il nome, condivide il Fondo da cui attinge i (ridotti) finanziamenti e l’infrastruttura, ma nei contenuti appare molto diversa dalla precedente: il target delle famiglie in condizioni di estremo disagio, ampliato anche a nuclei il cui richiedente non è cittadino italiano, valutato sulla base di precisi requisiti economici, familiari e lavorativi; gli importi economici differenziati; la presa in carico e la predisposizione di percorsi di reinserimento sociale e lavorativo; la titolarità dei comuni sia nel processo di selezione dei beneficiari che nelle scelte gestionali ed il necessario raccordo con le altre istituzioni locali; l’attivazione di precisi processi di verifica e valutazione degli esiti. Tutti elementi che intendono superare i limiti evidenti di efficacia della precedente esperienza evidenziati anche dalla stessa Commissione di indagine sull’Esclusione sociale. [4]
La sperimentazione della nuova carta mira a definire una politica di contrasto alla povertà basata invece su una azione di promozione umana, sociale e lavorativa di famiglie che vivono una situazione di esclusione. Si tratta di un passaggio non agevole culturalmente, ma anche impegnativo da un punto di vista amministrativo ed organizzativo, soprattutto in questa fase di contrazione di risorse a disposizione dei bilanci dei Comuni.
E’ evidente che l’entità delle risorse appostate (50 milioni di euro), la platea limitata e la durata annuale sono vincoli molto stringenti, che non inficiano però l’obiettivo di avere indicazioni utili sull’efficacia dello strumento da affinare, generalizzare ed eventualmente rendere strutturale. Anzi debbono indurre gli attori in campo, siano essi istituzionali che sociali – anche se il ruolo di questi ultimi non è abbastanza evidenziato nel decreto istitutivo – a rafforzarne il carattere di innovatività e sperimentalità delle azioni integrate e quindi le prassi di cooperazione, a stabilizzare i flussi informativi e la conseguente puntuale valutazione.[5] Lo stesso articolo 9 del Decreto anticipa che la sperimentazione è oggetto di valutazione “al fine di fornire elementi per la successiva proroga del programma Carta Acquisti per la possibile generalizzazione della misura, compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica, come strumento di contrasto alla povertà assoluta”.
E’ bene ricordare che la sperimentazione del RMI (reddito minimo di inserimento) e le poche esperienze regionali avviate e concluse negli ultimi anni hanno evidenziato i punti più alti di criticità proprio nella selezione puntuale dei beneficiari e nella predisposizione e attuazione di percorsi personalizzati di reinserimento sociale e lavorativo.
Si rivolge a famiglie in condizioni economiche e lavorative di estremo disagio, in cui siano presenti dei minori, con un trasferimento economico differenziato a seconda della composizione del nucleo, che va da un minimo di 231 euro per due membri fino a 404 mensili per nuclei di cinque e più persone. Su questo punto sono state sollevate osservazioni critiche rispetto al fatto che l’entità del beneficio non è graduato in ragione dell’entità della condizione economica (sia pure modesta della famiglia).
Vediamo più nel dettaglio i requisiti richiesti alle famiglie che debbono avere tra i componenti un minore d’età :
– ISEE non superiore a 3.000 euro;
– valore ai fini ICI della abitazione di proprietà inferiore a euro 30.000;
– patrimonio mobiliare e valore dell’indicatore della situazione patrimoniale, ai fini Isee, inferiore a 8.000 euro;
– limiti sul possesso di auto e motocicli (assenza di autoveicoli immatricolati nei 12 mesi antecedenti la richiesta o immatricolati nei tre anni precedenti ma di ridotta cilindrata).
Lavorative:
– Assenza di lavoro per tutti gli adulti e almeno un componente disoccupato da almeno 36 mesi oppure stato di disoccupazione/inoccupazione per tutti gli adulti ed un componente occupato con lavoro flessibile e con redditi da lavoro complessivamente inferiori a euro 4.000, nei sei mesi precedenti.
Condizioni di precedenza per l’accesso a parità di condizioni:
– disagio abitativo;– nucleo costituito esclusivamente da genitore solo e figli minorenni;
– nucleo con tre o più figli minorenni, ovvero con due figli e in attesa del terzo figlio;
– nucleo familiare con uno o più figli minorenni con disabilità;
– ulteriori criteri sono la numerosità dei figli e l’età del figlio più piccolo.
– i Comuni possono prevedere altri criteri concordandoli con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali
La sperimentazione del Reddito minimo di inserimento ha incontrato proprio su questo versante le maggiori difficoltà: pochi i programmi di inclusione attivati rispetto alla platea dei beneficiari, come anche carente è risultato il sistema di accompagnamento e controllo. Evidenziando che per garantire le funzioni e le responsabilità ad esso affidate, il sistema dei servizi territoriali necessita di integrazione, qualificazione, sul piano organizzativo e professionale e di gestione ad un livello adeguato. E quindi più di ambito territoriale piuttosto che di singolo Comune, soprattutto per quelli di piccole dimensione. Tra le carenze che maggiormente potrebbero minare un efficace funzionamento della misura vanno ricordate quelle, già citate, relative ai servizi per l’impiego.
I comuni destinatari quindi dovranno, presumibilmente nel mese di giugno, rendere pubblici i bandi ed entro metà settembre predisporre la graduatoria dei nuclei familiari richiedenti, dalla quale verranno eliminati i richiedenti che non rispondono ai requisiti sulla base dei controlli incrociati con le altre Amministrazioni centrali.
Vista la rilevanza e la delicatezza che assume questa sperimentazione, Cgil Cisl e Uil[6], hanno avviato un confronto con il Ministero sia in sede politica che tecnica perché, in una corretta logica sussidiaria le parti sociali e le organizzazioni di terzo settore e del volontariato, siano coinvolte, da subito, nei territori non solo nella gestione degli interventi, ma nella stessa progettazione, con la costituzione di specifiche cabine di regia.
Il coinvolgimento attivo del partenariato sociale e una stabile interlocuzione con il sindacato e le altre organizzazioni sociali, che accompagni l’attuazione del programma, può certamente ampliare le potenzialità informative (che debbono andare oltre gli sportelli informativi istituzionali) in modo da raggiungere i nuclei familiari in condizioni di maggior disagio, permettere una selezione più efficace dei beneficiari rispetto alle specificità territoriali (ad esempio rispetto ai criteri preferenziali ed alla loro ponderazione), favorire e sostenere la collaborazione interistituzionale, partecipare alla valutazione qualitativa e stabilizzare le buone pratiche avviate. Ma soprattutto costituire quel tessuto favorevole alla predisposizione di opportunità concrete di inserimento socio-lavorativo.