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Un compito da far tremare i polsi

Nelle ultime settimane si sono tenute due conferenze molto attese: il G20 a Roma, in cui le questioni climatiche sono state tra i temi più dibattuti, e il meeting CoP26 (Conference of the Parties), il ventiseiesimo annuale della “UN Climate Change Conference” che si chiuderà il 12 novembre e al quale partecipano circa 120 leader mondiali nel tentativo di dare una risposta congiunta al problema del cambiamento climatico.

Alcuni punti fermi vanno ribaditi per poter poi valutare i risultati di questi incontri:

  1. Il ruolo fondamentale dell’impatto antropogenico sul clima è stato confermato dagli studi dell’IPPC (Intergovernmental Panel on Climate Change), un organismo dell’ONU che riunisce esperti in tutte le materie rilevanti per lo studio del cambiamento climatico, dalla geologia allo studio dell’atmosfera e degli oceani, dallo studio delle fonti energetiche alle tecnologie presenti e future, dalla geofisica alle problematiche agricole, ecc. Nonostante il documento recentemente firmato da 500 ricercatori in tutto il mondo (tra cui 145 italiani), le voci di scienziati che dissentano dai risultati dell’IPCC sono decisamente una minoranza.
  2. Nel 2018 l’IPCC ha fornito scenari dell’impatto sulle varie parti del pianeta (differenti latitudini, oceani, biodiversità, ecc.) dell’aumento di 1,5°C o 2°C di temperatura. Il dibattito COP26 si concentra sulla necessità di contenere l’aumento medio della temperatura del pianeta al 2100 entro 1,5°C rispetto a quella della temperatura media del pianeta stimata all’inizio della rivoluzione industriale. Per ottenere questo risultato la road map definita negli Accordi di Parigi del 2015 (anche sulla scorta dei risultati dell’IPCC) prevede un obiettivo di zero emissioni nette di CO2 al 2050, con una tappa intermedia al 2030 di dimezzamento delle emissioni.
  3. La dissoluzione della CO2 e degli altri gas serra avviene su tempi lunghissimi (molti decenni o secoli) e quindi il livello di gas serra presente ad oggi nell’atmosfera non si ridurrà entro il 2100 per il tramite della riduzione delle emissioni. L’obiettivo “net zero emissions” è quindi di evitare un ulteriore accumulo di gas serra che nel tempo comporterebbe ulteriori aumenti di temperatura. Il problema è chiaramente globale, il movimento dei gas serra non conosce frontiere.
  4. Per il raggiungimento dell’obiettivo, si considerano due possibilità (o una combinazione delle due): mitigazione e adattamento. La prima si riferisce a tutte le azioni che possono comportare una riduzione delle emissioni nette, la seconda agli interventi di minimizzazione dell’impatto dei “sintomi” del cambiamento climatico (ad esempio, le paratie lungo le coste, la cattura di CO2 in atmosfera, ecc.).
  5. Non esiste soluzione univoca, ossia il traguardo del contenimento della temperatura può essere ottenuto secondo tempistiche e modi molto diversi tra loro, con un forte livello di interdipendenza tra le leve che potranno essere utilizzate, siano esse tecnologiche, di policy, di cambiamento delle abitudini o altro. In altri termini, si tratta di un problema di tipo “complesso” ossia con interazioni non semplificabili e potenzialmente aleatorie (nel senso che la loro controllabilità ex-ante è incerta se non impossibile).
  6. L’abbattimento delle emissioni comporta una ristrutturazione radicale dei sistemi di produzione e di consumo attualmente prevalenti, sia nei paesi avanzati che in quelli emergenti o in via di sviluppo. Tale ristrutturazione comporta a sua volta un periodo di transizione durante il quale l’attività economica e i redditi di famiglie e imprese ne risentiranno negativamente, almeno fino a quando i costi dell’adozione delle esistenti e/o nuove tecnologie e delle esistenti e/o nuove fonti energetiche rimarranno più elevati di quelli su cui basa l’attuale sistema produttivo e nonostante l’impatto economico positivo che avranno gli investimenti programmati per la lotta al cambiamento climatico. 

 

Date queste premesse è evidente che il compito davanti a policy makers, investitori finanziari e consumatori è di quelli da far tremare i polsi. Non basta infatti decidere di abbandonare il carbone e il gas oppure ritornare nella direzione del nucleare oppure ancora finanziare l’acquisto di veicoli elettrici o puntare sull’idrogeno… ognuna di queste scelte sarebbe “solamente” complicata ma non risolverebbe la complessità del problema. E soprattutto non la risolverebbe durante il periodo di transizione che è proprio quello in cui occorre definire le scelte per i prossimi decenni. 

 

Un esempio è quello della elettrificazione del sistema economico/produttivo, scelta che appare inevitabile. Per ottenere un abbattimento delle emissioni, andrebbe rivisto radicalmente il mix delle fonti energetiche per la generazione elettrica in favore delle ancora costose fonti rinnovabili, scelta che realisticamente richiederebbe (a livello globale) qualche decennio, a meno di accettare una significativa riduzione dell’attività economica, soprattutto nei paesi che oggi utilizzano prevalentemente fonti fossili per la generazione dell’elettricità (il collasso economico dovuto alla pandemia ha ridotto le emissioni di CO2 nel 2020 di solo il 7-8%).

 Ma anche ammesso (e non concesso) che si riuscisse a spostare rapidamente la produzione di energia elettrica da fonti fossili a rinnovabili, un progetto di elettrificazione dell’intero sistema economico e quindi anche dei consumi, necessiterebbe di un radicale rafforzamento del sistema di trasporto e distribuzione dell’elettricità, oggi tarato su necessità di gran lunga inferiori. Basti pensare all’aumento del consumo di elettricità dovuto per esempio al riscaldamento casalingo (oggi tipicamente a gas). E allo stesso tempo i veicoli elettrici (varie decine di milioni solo in Italia e circa 1,4 miliardi globalmente) necessiterebbero di ricarica frequente, la maggior parte in zone urbane dove andrebbero installate un numero sufficiente di colonnine di ricarica (peraltro ancora molto lenta…). 

A fronte di tali cambiamenti nell’utilizzo dell’elettricità occorrerà tenere presente i feedback negativi: lavori per la costruzione e installazione delle colonnine di ricarica (smantellando e ricostruendo praticamente tutte le strade urbane, riconvertendo tutte le stazioni di servizio, urbane e non), adeguamento per il passaggio a riscaldamento elettrico, e per tutti i consumi da “elettrificare”, con il risultato di emettere un quantitativo enorme di CO2 nel periodo di transizione. 

 

Ci sono poi altri aspetti della “complessità”: 

a) l’eventuale scelta dell’idrogeno come vettore per l’utilizzo di energia in varie applicazioni sia di consumo che industriali. La produzione di idrogeno allo stato attuale e prevedibile della tecnologia richiede grossi quantitativi di energia elettrica (almeno per produrre idrogeno “verde”) e richiederebbe strutture di distribuzione per poterlo utilizzare che sarebbero totalmente diverse da quelle di un sistema elettrico – e dunque scegliere di elettrificare oppure di usare l’idrogeno nei consumi finali (per esempio nei veicoli). E’ una scelta che dovrebbe tener presente la necessità di costruire due sistemi di distribuzione diversi e entrambi ad investimento costoso; 

b) una grossa parte della componentistica degli strumenti elettrici richiede minerali (molti dei quali definiti non a caso “Terre rare”) la cui estrazione comporta forti emissioni di CO2 ed è concentrata in pochi paesi (tra cui il principale è la Cina). Questo dato minerebbe il criterio di sicurezza dell’approvvigionamento energetico dei grandi paesi sprovvisti di tali risorse, tra cui UE27, USA, Giappone e vari paesi altri paesi avanzati; 

c) in un mondo elettrificato, resta poi aperto il problema del riciclo e smaltimento sia dei pannelli fotovoltaici che delle batterie e delle loro componenti che delle scorie nucleari.

 

La lista delle problematiche da risolvere a seconda delle scelte di policy e/o delle tecnologie da adottare non si esaurisce purtroppo in quelle elencate qui sopra,  che ne sono anzi solo un piccolo sottoinsieme. Di fatto ogni filiera produttiva dovrà effettuare scelte che avranno ripercussioni su altre filiere produttive o sui prodotti destinati al consumo finale, ripercussioni il cui impatto complessivo sulle emissioni (footprint) sarà non necessariamente quello desiderato e il cui costo in termini sociali, di occupazione, reddito e crescita economica sarà da valutare caso per caso.

 

Quanto descritto sopra non implica la impossibilità di effettuare una riconversione del sistema produttivo e dei consumi ma diviene essenziale una attenta valutazione degli obiettivi e delle tempistiche – prevedibilmente molto più lunghe di quanto si consideri oggi, anche nell’incontro Cop26 – con una successiva accurata gestione del passaggio al nuovo sistema. Per esempio un passaggio troppo veloce a un sistema di consumi “molto elettrificato” ma non accompagnato da un passaggio altrettanto rapido dell’utilizzo di rinnovabili per la produzione di elettricità finirebbe per rendere inevitabile l’uso del carbone e/o altre fonti fossili. 

In sintesi, la domanda da porsi è se gli obiettivi fissati dagli accordi di Parigi siano tecnicamente raggiungibili e soprattutto compatibili con un percorso economicamente e socialmente sostenibile, in particolare per i paesi emergenti ma anche per quelli avanzati.

 

L’impatto della ristrutturazione di cui al punto 6) sulla società e sulla vita di ognuno sono tipicamente trascurate nel dibattito politico e dai media; di conseguenza è pressochè ignorato nella percezione popolare, con un feedback malsano sul dibattito politico. Il seguito ottenuto da Greta Thunberg è un sintomo e allo stesso tempo una causa della superficialità con cui vengono comunicate le problematiche relative alla oggettivamente “complessa” definizione e gestione delle soluzioni.

Gli incontri a Roma e a Glasgow hanno riportato alcuni importanti successi, tra cui: fine della deforestazione dal 2030 (accordo firmato da quasi cento paesi, incluso il Brasile); l’India ha fissato un obiettivo di emissioni nette zero per il 2070, insieme all’impegno di aumentare le fonti di energia rinnovabile nel mix energetico del paese del 50% entro il 2030; circa 40 nazioni hanno preso l’impegno (“Glasgow Breakthroughs” ) di dare ai paesi in via di sviluppo l’accesso all’innovazione e agli strumenti necessari per fare il passaggio a zero emissioni di carbonio; il Sudafrica riceverà circa 8,5 miliardi di dollari dagli Stati Uniti e dai paesi europei per aiutarlo ad abbandonare il carbone, la sua principale fonte di energia (il primo accordo di questo tipo); quasi 100 paesi hanno concordato di ridurre del 30 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020 le emissioni di metano, ritenuto responsabile di circa un terzo degli aumenti della temperatura media globale dalla rivoluzione industriale. 

Tuttavia, è lecito anche domandarsi: concretamente, data la complessità delle questioni si sta facendo abbastanza per raggiungere gli obiettivi e la road-map indicati da IPCC e Accordi di Parigi? Per rispondere a questa domanda, occorre prima di tutto identificare quali siano i paesi maggiori responsabili delle emissioni. Questa valutazione è solo apparentemente semplice e dipende dal parametro che si vuole usare: livello totale delle emissioni, emissioni pro-capite, emissioni rispetto al reddito, trend storico o valori attuali.

 

E’ su questo punto che i grandi paesi (USA, UE; Cina, India, Brasile, Russia) discutono ormai da molti anni e il tema è diventato più strettamente politico. Semplificando: hanno ragione i paesi a basso reddito nel sostenere che non è corretto chiedere a paesi a basso reddito di frenare la loro crescita economica?  Se alle (legittime) resistenze sino-indiane e anche russe si aggiunge lo scetticismo sul cambiamento climatico del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, si potrebbe delineare un fronte di Paesi emergenti che frena le richieste stringenti di quelli sviluppati: un’eventualità che potrebbe prefigurare la lotta al riscaldamento globale come una guerra tra l’”ecologismo dei ricchi” contro le necessità quotidiane dei poveri.

 

Come scrive Roberto Menotti su Aspenia: “Dalle maggiori economie dovranno comunque provenire le risorse finanziarie per compensare in certa misura quelle meno avanzate a cui si chiede di abbandonare rapidamente le pratiche più inquinanti. E il nodo centrale di questo processo è proprio la tempistica: fissare scadenze che, dal punto di vista della transizione industriale, sono ravvicinatissime come quella del 2030, rischia di erodere il consenso presso componenti significative dell’opinione pubblica”.

 

Su questo fronte pochi progressi sembrano essere venuti fuori dai due incontri clou dell’autunno 2021, il G20 di Roma e il Cop26 di Glasgow. A una settimana dalla chiusura del Cop26 l’accordo rimane lontano: per esempio, Cina, USA e Australia non hanno ancora firmato l’impegno a eliminare progressivamente la produzione di carbone, uno degli obiettivi principali indicati dal Regno Unito per il CoP26. Il Presidente cinese Xi non si è presentato né a Roma né a Glasgow, quello indiano Modi era presente solo a Roma dove non ha presentato alcuna proposta sul clima, Putin si è collegato con il G20 in videoconferenza ma ha disertato Glasgow, Bolsonaro non sembra essere pronto a concessioni significative.

 

In sintesi… c’è ancora molto da lavorare e miglioramenti significativi non potranno essere ottenuti in tempi brevi.

 

* Senior Advisor Oxford Economics

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