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Un movimentismo che non convince

Landini fa indubbiamente discutere. Forse fin troppo. E intanto lui mobilita su parole d’ordine che passano in seconda fila rispetto a ciò che fa intendere ma che non conferma. A parte le invettive nei confronti di Renzi e la lunga lista dei mali del Paese, che proponga un nuovo Statuto dei lavori, il rilancio della riduzione dell’orario di lavoro, la ricomposizione del mondo del lavoro, una diversa democrazia nel sindacato, all’opinione pubblica interessa poco. Interessa di più sapere se quella ”coalizione sociale” c’è e se si vuole trasformare in partito. A Landini questo interesse deviante non piace, lo grida ai quattro venti e non c’è motivo per dubitare della sua sincerità. E’ e vuole rimanere sindacalista.

Ma sono in tanti a non credergli. E la responsabilità non è di questi tanti, fra i quali ci sono anche molti lavoratori, ma sua. E’ lui che deve chiarire con dei fatti qual è la strategia che vuole portare avanti. Se no rischia di ingarbugliarsi. Certo, rivendica la “politicità” del fare sindacato. Non è tematica nuova; però deve fare i conti con le mutate condizioni del Paese e del lavoro. La massima politicità dell’azione sindacale moderna fu espressa tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 90. Tra la lunga cavalcata del sindacalismo rivendicativo e il suo approdo alla concertazione. Avvenne perché il sindacalismo confederale – liberatosi dalla logica della guerra fredda e della cinghia di trasmissione tra partito e sindacato – fece del contrattualismo (e non della legge) la sua bandiera, dell’autonomia la sua identità e dell’unità la sua forza.

In una situazione in cui il contrattualismo langue, l’autonomia ripiega nel corporativismo e l’unità è un ricordo del passato, la “politicità” del sindacato o è pura velleità o è preludio alla sua trasformazione partitica. D’altronde, le parole d’ordine che resero autorevole e di massa il sindacato dei Lama,  Benvenuto e Carniti  avevano un carisma in sé, frutto di una paziente e ricercata cucitura di culture diverse che si rispettavano tra loro e diventavano il valore aggiunto della tenuta unitaria dei lavoratori. I leaders servono a questo, a proporre quel passo in avanti che trascina l’insieme dei loro rappresentati. E nessuno può sostenere che i gruppi dirigenti della Cisl, della Cgil e della Uil di quegli anni avessero perso la loro identità originaria. 

Eppure, Landini nel finale del suo discorso a Piazza del Popolo, ha detto di ispirarsi a Trentin. Questo ha irritato molto Marcelle Padovani, intellettuale e giornalista raffinata e moglie di Bruno (vedere Corriere della sera del 29 marzo 2015). E non le si può dare torto. Uno dei libri può meditati di Trentin aveva un titolo emblematico: Da sfruttati a produttori. La sua visione dell’evoluzione del peso e del ruolo dei lavoratori italiani non portava alla cogestione, ma alla partecipazione sì. Alla partecipazione consapevole, responsabile, schietta che era anche uno dei cavalli di battaglia della Cisl di Carniti, benché anche lui avesse alle spalle una stagione di dura radicalità. Landini, invece, sembra privilegiare un antagonismo conflittuale, un primato del movimentismo che non si rifà al pensiero di Trentin ma che non trova riscontro nella gran parte delle realtà del lavoro e negli accordi aziendali che firmano anche i delegati della Fiom. Né l’antagonismo conflittuale, ammesso che abbia una sua forza d’affermazione, può diventare l’asse portante di una “coalizione sociale” che pretenda di diventare egemonica nel Paese. Soltanto il sospetto che non riesca a creare le minime condizioni per coagulare il mondo del lavoro, fa perdere di efficacia all’obiettivo di mettere insieme i tanti mondi che vogliono più giustizia sociale e maggiore democrazia.

Infatti, in ogni campo della vita pubblica e associativa, la dialettica tra il “meglio”  e il “possibile” non si risolve con una divisione dei ruoli. C’è chi tiene alto il vessillo dell’intransigenza e chi sventola la bandiera della mediazione. E’ un taylorismo della ragione che porta soltanto all’indebolimento della capacità persuasiva del sindacato e della sua improduttività negoziale. Finanche il giovane Presidente del Consiglio greco, che ha vinto le elezioni puntando al “meglio”, oggi sta spiegando ai suoi concittadini – che non vogliono abbandonare l’euro – che si può fare soltanto il “possibile”. Vale anche per il sindacalismo italiano che ha l’opportunità dell’inizio dell’uscita dalla crisi per ridisegnare la propria strategia rivendicativa e la propria area di rappresentanza.

Le due cose vanno insieme sia perché c’è bisogno di redistribuire ricchezza e occupazione pigiando sul pedale della fiscalità piuttosto che su quello dei salari, azionando meno la leva legislativa e di più quella contrattuale per dare lavoro, sia perché occorre allargare l’area dell’ascolto e della rappresentanza a quei settori del lavoro finora a basso tasso di visibilità, innovando le modalità di formazione dei gruppi dirigenti sindacali nei luoghi di lavoro. Fare emergere obiettivi condivisi e possibilmente unitari, in questi territori propri dell’azione del sindacato, potrà essere più efficace che continuare a procedere in ordine sparso. Vale anche per i sindacalisti, l’affermazione di un grande atleta come Pietro Mennea: “per raggiungere grandi sogni, bisogna fare grande fatica”.

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