Ad aprile del 2013, fu emanata la Raccomandazione del Consiglio per invitare gli Stati membri ad adottare una strategia per arginare la disoccupazione giovanile e fu varata la Youth Garantee. I soliti scettici sottolinearono che, a fronte della gravità del fenomeno a livello europeo, la scelta di delegare ad ogni singolo Stato la soluzione al problema, forse, non era un’idea così lungimirante.
Ogni Stato membro avrebbe dovuto scegliere la migliore strategia per garantire ai giovani NEET una occasione di ri-attivazione e ri-motivazione alla ricerca di un lavoro o di un percorso di studio per il lavoro.
Il Governo Letta, con il Ministro Giovannini, definì il “Piano italiano di attuazione della Garanzia per i Giovani” attraverso una Struttura di Missione, istituita presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, composta dai rappresentanti del Ministero e delle sue agenzie tecniche – ISFOL e Italia Lavoro – del MIUR, MISE, MEF, del Dipartimento della Gioventù, dell’INPS, delle Regioni e Province Autonome, delle Province e Unioncamere.
Ossia, il Governo decise che fossero le Pubbliche amministrazioni a dovere trovare la mediazione migliore per istruire le procedure di spesa dei 1,5 miliardi della YG italiana.
Soltanto partendo da questo è possibile capire l’impostazione, lo svolgimento e l’attuazione della Garanzia Giovani in Italia e anche comprenderne la sua “lenta” attuazione.
Fare il tagliando alla G.G., infatti, ci porta a riflettere sul più generale approccio che nel nostro Paese viene attivato ogni qualvolta si affronta il tema dell’impiego di risorse pubbliche per lo sviluppo delle politiche attive.
Come noto, la questione nasce da lontano. Nasce dall’annoso dibattito sulla “sussidiarietà” tra politiche regionali e politiche nazionali e sulla difficile composizione dei ruoli e delle attività di coordinamento che ogni governo di qualsiasi colore ha tentato di assumere in tema di politiche attive.
Se è vero, infatti, che il nostro territorio non somiglia assolutamente a Svezia o Danimarca (geograficamente e demograficamente) è pur vero che in molti anni di attuazione del Titolo V i risultati generali dell’impiego delle risorse per le politiche attive non sembrano esaltanti.
Anche per Garanzia Giovani si è dovuto fare i conti con le numerose e complesse amministrazioni pubbliche e, soprattutto con le logiche di mediazione tra i ruoli politico-amministrativi in cui è articolato il belpaese.
Ad oggi Garanzia Giovani è sotto i riflettori di tutti – anche per le non poche risorse impiegate per il monitoraggio – e suscita svariate perplessità per la lentezza dei dispositivi regionali messi a bando, per le difficoltà di raccogliere le adesioni dei giovani destinatari, per la necessità di sensibilizzare il sistema delle imprese che non sembrano trovare semplice l’accesso ai portali di Garanzia Giovani e, al tempo stesso, non hanno avuto fin da subito chiarezza sotto quale regime di aiuti ricadessero gli incentivi all’assunzione, problema non di poco conto in un momento di profonda crisi economica.
Con questa premessa è allora facile comprendere perché, nonostante siano stati fatti svariati progetti di riforma, tornano in campo i Servizi Pubblici per l’Impiego che in Italia non riescono ad intermediare oltre il 3% della domanda di lavoro e perché, anche questa volta come nel 2002 , si immagina che il mercato del lavoro possa essere regolato da un grande data base informativo ( vi ricordate il SIL ? mai decollato), dove la rilevanza delle informazioni statistiche prevale sulla realistica necessità di far conoscere ai giovani le imprese e viceversa.
Non si vuole negare la rilevanza che assumono le informazioni per le scelte connesse alla politiche attive sul mercato del lavoro. Tuttavia, il pensiero sistemico che accompagna tale orientamento andrebbe accompagnato dalla altrettanto rilevante necessità di intervenire sugli approcci culturali dei giovani e delle loro famiglie nei confronti del lavoro.
Orientare al lavoro significa sempre di più rendere conoscibili e manifeste le opportunità di impiego dei nuovi lavori e dei nuovi luoghi di lavoro, delle competenze attese, delle capacità richieste e degli atteggiamenti che i giovani, dal canto loro, dovrebbero attivare per avvicinarsi al lavoro.
D’altro canto, l’investimento negli SPI andrebbe calibrato migliorando non soltanto la loro capacità di accoglienza, interpretazione e profilazione dell’utenza che offre lavoro, ma anche la loro capacità di essere “un riferimento certo” del territorio per le imprese che domandano lavoro.
Un servizio di intermediazione a tutto campo (in alcuni territori si sono individuati esempi virtuosi) dove gli operatori non restano confinati nelle mura degli uffici, ma diventano agenti proattivi dello scambio di informazioni utili a favorire l’incontro tra chi chiede e chi offre lavoro. In questo quadro, Garanzia Giovani potrebbe rappresentare un investimento importante per “far cambiare pelle” agli SPI.
Da ricordare poi che intermediare i NEET rappresenta una sfida importante perché significa trovare e interessare coloro che si sono già estraniati dal circuito formale di ricerca del lavoro. L’approccio generale di coinvolgere, attraverso intese e protocolli, i diversi sistemi della rappresentanza giovanile dal un lato e d’impresa, dall’altro, necessita di tempi e di azioni articolate e complesse che certamente hanno bisogno di un respiro più ampio del tempo (due anni) del Pon YEI.
Alle soglie della nuova programmazione dei Fondi strutturali e, quindi anche del FSE, infatti, l’impianto di governance del PON Garanzia Giovani ed anche la sua realizzazione per il 2016 vedranno nuovi finanziamenti e coperture.
A questo punto, appare auspicabile che il circuito a regime funzioni e che le risorse pubbliche spese per migliorare i Servizi per l’impiego servano finalmente a consolidare un vero servizio sul territorio che, insieme ai servizi privati, costituisca un riferimento certo per coloro cercano e domandano lavoro. Anche in Italia.
(*) Direttore Lavoro e Welfare Confindustria