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Un passo in avanti non esaustivo

Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Legge 81/2017, detta anche Jobs Act del Lavoro Autonomo, si conclude una fase importante nella modernizzazione della struttura strategica del nostro mercato del lavoro. Viene finalmente riconosciuto il duplice ruolo del professionista: da un lato attore economico che investe e crea ricchezza, economica e culturale, dall’altro lavoratore autonomo che, in quanto lavoratore, necessita di diritti e tutele a prescindere dalla forma organizzativa con cui decida di lavorare.

 

Molte sono le novità. Particolarmente significativa è quella con cui viene finalmente superato il limite posto alla deducibilità delle spese di formazione professionale, in particolare per i professionisti non ordinistici. In tema di welfare, inoltre, va sottolineato come le modifiche introdotte nella gestione separata INPS in tema di accesso all’indennità di maternità, la possibilità per le lavoratrici autonome di continuare ad intrattenere rapporti professionali con i clienti durante il periodo di assenza dal lavoro e, soprattutto, le tutele in caso di malattia grave consentiranno di migliorare le condizioni di vita di migliaia di professionisti e, soprattutto, di professioniste.

 

La legge 81/2017 rappresenta, dunque, una reazione importante e significativa alle profonde trasformazioni economiche e del mercato del lavoro degli ultimi anni. Tutte luci allora? Molte luci, certo, ma anche qualche ombra. E’ per questo che, pur non volendo mettere “benaltristicamente” in dubbio i meriti della riforma, vale la pena di fare una riflessione strategica sul futuro di quello che possiamo definire il Lavoro 4.0.

 

Che le produzioni di massa, quelle a maggior densità di lavoro dipendente a bassa qualificazione, vadano via via spostandosi dove il costo della manodopera è più conveniente è un dato di fatto contro il quale si può fare poco. E’ per questo che è inutile cercare di essere competitivi sui lavori meno professionalizzati. Quello su cui si deve puntare sono i servizi ad alto valore aggiunto, la progettazione, l’innovazione, le produzioni di eccellenza, ma anche la logistica, la cultura, il turismo. Il tutto in un sistema di rete in termini di piattaforme collaborative di condivisione che metta in contatto i diversi attori del sistema economico, permettendo a ciascuno di rafforzarsi nello scambio di idee e di competenze.

 

Una sola conseguenza: nell’era del capitalismo intellettuale, il lavoro che innova diventa più importante del lavoro che replica ed esegue. Oltretutto, se tutto diventa più rapido, anche il tempo di vita di una competenza o di un prodotto non si misura più in anni ma, addirittura, in mesi. Le stesse imprese nascono e muoiono con un ritmo incomparabilmente più rapido rispetto a prima. Ergo: la nostra sicurezza economica/professionale non può più essere affidata al modello del posto fisso. Il vero obiettivo da raggiungere è quello della “continuità professionale”: attrezzarsi per cambiare spesso posto di lavoro potendo contare, durante le pause, su processi formativi ed incrementi di know-how che consentano una ricollocazione più facile.

 

Il che significa che si afferma una concezione di lavoro in cui la componente organizzativa diventa una sorta di compromesso tra la libera scelta o la “necessità necessitata” del lavoratore. E la struttura giuridica, di welfare e di supporto al mercato del lavoro dovrà seguire le logiche di tale trasformazione. Si dovrà cambiare spesso posto di lavoro (dipendente, autonomo, libero professionale, cooperativo e, perché no, imprenditoriale) ma “auspicabilmente” senza interruzioni o soluzioni di continuità.

 

La soluzione strategica del regolatore si dovrebbe quindi fondare su un sistema capace di garantire il continuo aggiornamento e il rinnovo delle competenze promuovendo capacità individuali che mettano in grado non solo di cambiare lavoro quando diventi necessario oppure se ne presenti l’occasione, ma anche di cercare attivamente nuovi posti di lavoro legati alle competenze valide possedute. In sostanza, il lavoratore, imprenditore o professionista ha bisogno di imparare a condurre una cruda analisi di realtà sulla propria qualificazione per potersi orientare correttamente verso nuovi ruoli e attività in cui si possano applicare le competenze possedute.

 

E, invece, a partire dal Jobs Act del 2015, ma anche in questo recentissimo Jobs Act del Lavoro Autonomo, affiora (verrebbe da dire: ancora una volta) la voglia di polarizzare il mercato del lavoro verso due sole categorie del lavoro: subordinato e autonomo. Trascurandone molte altre, ad iniziare da quello imprenditoriale che la 81/2017 si affretta subito ad escludere dal novero del suo impatto. Una miopia importante per una legge che contiene anche contenuti (trascuratissimi dai media) su un altro importante tassello del mercato del lavoro del futuro: lo smart working, definito nella legge “lavoro agile”.

 

Anche la disciplina dello smart working contenuta nel Capo II della 81/2017, risente di questa impostazione bipolare. Nel tentativo di restare quanto più possibile vicina al lavoro subordinato, la nuova normativa toglie respiro allo sviluppo di questa nuova forma di lavoro che sta modificando il sistema gerarchico-collaborativo delle organizzazioni fordiste del XX secolo.

 

Lo smart working, infatti, è il nuovo mattoncino elementare del capitalismo 4.0. Non è la stessa cosa lavorare in una fabbrica, in un centro di ricerca universitario, o a casa propria davanti a un laptop o un iPad. Non è un problema di forma, è il risultato ad essere diverso. Nello smart working, l’orizzonte è quello delle produzione di saperi, dell’innovazione permanente della valorizzazione dei processi tecnologici, anche dei più semplici. E non quello della permanenza nel luogo di lavoro, dell’orario standardizzato e del salario collegato. L’ufficio è dove siamo noi. Anzi, l’ufficio siamo noi.

 

In questo la legge 81/2017 fa sicuramente un passo in avanti: lo smart worker non deve essere penalizzato in alcun modo, e deve godere di tutti i diritti fiscali, contributivi ed economici di chi esegue la stessa mansione in ufficio. Dunque, non più posto di lavoro fisso ma maggiore coinvolgimento e responsabilizzazione e, soprattutto, maggiore flessibilità di orario trai impegni di lavoro e vita privata. Tutte risorse di tempo, umane e finanziarie che le imprese possono mettere a disposizione di altri asset strategici di crescita e sviluppo.

 

E’ per questo che, quando analizziamo l’orizzonte complessivo del Jobs Act sul Lavoro Autonomo, non possiamo fare a meno di essere soddisfatti ma con moderazione. Certamente l’approccio è positivo quando si concretizza l’esigenza di protezioni sociali più ampie e di garanzie rispetto a contraenti economicamente più forti per tutti i lavoratori, a prescindere dal carattere subordinato del rapporto di lavoro.

 

Un passo in avanti certo ma che dimentica, anche nella parte sul lavoro agile, la velocità con la quale sta avvenendo l’innovazione del Lavoro 4.0. Una grande innovazione perché le vecchie rivoluzioni erano lente, si sviluppavano in un arco temporale al di fuori della normale aspettativa di vita delle persone. Il Lavoro 4.0, invece, non solo è già iniziato ma si gioca in un tempo molto più breve della nostra vita professionale media. Una sola conseguenza: il rischio di diventare rapidamente obsoleti è altissimo. Come ci dice l’Istat, ci sono quasi 9 milioni di posti di lavoro a rischio di sostituzione da parte dell’automazione nel nostro Paese nei prossimi 5-7 anni.

 

Ecco perché questo provvedimento molto atteso raggiunge molti obiettivi tattici importantissimi (dotare il mondo del lavoro autonomo di molti dei presidi e delle tutele dei lavoratori dipendenti) ma manca (bisognerebbe capire perché) l’obiettivo strategico di dare il nostro Paese di una normativa adeguata ad affrontare il cambiamento radicale che dovremo tutti affrontare nel prossimo futuro. Anche nel mercato del lavoro.

 

 

 (*) Presidente di CONFASSOCIAZIONI

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