Il servizio socio sanitario veneto sta vivendo, a seguito della pandemia, una crisi di trasformazione.
Cambiano in maniera rilevante i bisogni di salute nel territorio, se è vero, come documenta la Regione Veneto, che la domanda di esami diagnostici e visite specialistiche è aumentata stabilmente in questi due anni del 13% rispetto al periodo pre-pandemia (addirittura di circa il 30% per quanto riguarda la diagnostica pesante – RMN e TAC) determinando un collo di bottiglia nell’erogazione delle prestazioni che allunga in maniera rilevante le liste d’attesa. I cambiamenti sociali in corso mettono al centro dell’attenzione anche alcuni ambiti finora sottovalutati: la salute mentale (soprattutto minorile), la sanità carceraria e la medicina scolastica ad esempio.
Cambia in maniera strutturale la situazione occupazionale, con una fuga dalla sanità pubblica di molti professionisti, un calo strutturale delle iscrizioni ai corsi di formazione per operatori socio sanitari e ai corsi universitari per infermieri, che fanno presagire una carenza cronica futura di personale; allo stesso tempo molti concorsi di assunzione non trovano candidati e l’età media in molti settori e reparti rende evidente un prossimo problema di avvicendamento generazionale che rischia di non trovare adeguate risposte.
E, infine, cambia il contesto economico finanziario, dopo oltre un decennio di definanziamento del servizio sanitario nazionale, in una fase di grande necessità di investimenti (pensiamo ad esempio alle nuove frontiere tecnologiche della salute, che rischiano di essere appannaggio delle grandi società private dell’IT), e di progressiva avanzata del privato nella gestione e nel finanziamento dei servizi sanitari.
Queste trasformazioni stanno impattando in maniera consistente nella erogazione dei servizi sanitari e nella percezione di qualità da parte delle cittadine e dei cittadini, anche nelle aree del Paese, come il Veneto, dove lo standard dei servizi è sempre stato riconosciuto ed apprezzato.
Una recente ricerca di Fondazione Corazzin per Cisl Veneto evidenzia che vi è una diffusa sensazione di peggioramento del servizio sociosanitario a valle della pandemia da Covid19, e che, se la qualità dei servizi viene in molti casi ritenuta di eccellenza, sono invece l’accesso e la presa in carico da parte del sistema sanitario i punti deboli attuali: tempi lunghi di attesa, carenza nei presidi territoriali soprattutto nelle fasi post-ricovero, poco ascolto ai bisogni delle persone, personale insufficiente. In un territorio come il Veneto, queste problematiche incrinano seriamente la fiducia delle persone nei confronti del servizio sociosanitario. E, come sappiamo, un sistema sanitario non è solamente un insieme di tecniche, strumenti e procedure, ma è un’infrastruttura sociale che funziona se la comunità territoriale la legittima e la sostiene.
Di fronte a sfide evolutive così rilevanti e urgenti, serve davvero elaborare una visione strategica del servizio sanitario, rafforzando l’integrazione con gli interventi sociali (una delle originali intuizioni della Regione Veneto), e realizzare un piano di medio termine per portare a termine la sua trasformazione.
Serve garantire risorse adeguate al sistema, a partire dal finanziamento del Fondo Sanitario Nazionale, agendo però anche su un migliore utilizzo delle risorse. La Cisl stima che il costo della “medicina difensiva”, cioè di azioni superflue ma che servono a tutelare i professionisti dal rischio di richieste di risarcimento danni, ammonti a 15 miliardi di euro all’anno. Risorse sottratte alla valorizzazione del personale e agli investimenti in servizi, che potrebbero essere sensibilmente ridotte depenalizzando l’atto medico. Anche le risorse contrattuali dei fondi sanitari integrativi possono essere destinati a sostenere la sanità pubblica, anziché incentivare solamente quella privata. E’ quello che si sta provando a fare con Sani In Veneto, il fondo di assistenza sanitaria dei lavoratori artigiani del Veneto, che ha stipulato nell’ultimo anno due convenzioni con strutture sanitarie pubbliche in Veneto; un esempio che, se fosse emulato dai fondi sanitari nazionali, potrebbe contribuire non poco a rafforzare la sanità pubblica.
Serve una politica del personale che, partendo dalla sostituzione del numero chiuso con il numero programmato nelle Università, riesca a rendere attrattive le professioni sanitarie per i giovani, a valorizzare e motivare i professionisti già presente, e a programmare un’intelligente campagna di immigrazione mirata per il comparto sociale e sanitario, che altrimenti rischia di essere sguarnito di professionalità di ogni livello.
E’ necessario anche realizzare spazi di confronto e concertazione a livello regionale, non solo per permettere alle rappresentanze sociali e sindacali di portare al decisore pubblico rivendicazioni e proposte, ma soprattutto per condividere programmi di miglioramento, di riorganizzazione e di implementazione di servizi. Questo è l’obiettivo del tavolo permanente istituito quest’anno dalla Regione Veneto su richiesta di Cgil Cisl Uil, che in questi mesi è servito per un approfondimento e uno scambio di informazioni e proposte sui temi più urgenti e rilevanti del territorio, come le liste d’attesa, la carenza e l’organizzazione dei medici di medicina generale, le dimissioni protette e la presa in carico territoriale.
Infine, è importante pensare di realizzare delle adeguate campagne di educazione sanitaria della popolazione, per tutte le fasce d’età, a partire dalla scuola. La salute delle persone è garantita da un servizio sanitario che funziona, ma soprattutto da comportamenti consapevoli e adeguati delle persone, e da una coesione sociale che limiti il rischio della solitudine e sostenga i più fragili. Su questa dimensione educativa e pedagogica di cittadine e cittadini il ruolo del sindacato è di enorme importanza, sia per stimolare l’azione delle pubbliche amministrazioni, come pure nell’azione quotidiana di rappresentanza di lavoratori e pensionati.
*Segretario Generale CISL Veneto