L’enciclica di Papa Francesco Laudato si’ è destinata a lasciare un profondo segno nella nostra epoca, così come fece l’enciclica di Papa Giovanni Pacem in Terris.
L’ambiente viene visto in una prospettiva francescana come la “nostra casa” che dobbiamo “curare”, alla stessa stregua dei “poveri più abbandonati e maltrattati”. Papa Francesco, come Papa Giovanni, si rivolge non solo ai cattolici, ma a “tutti gli uomini di buona volontà” chiamati a trovare insieme soluzioni non solo tecniche, ma fondate su un’ecologia (o uno sullo sviluppo sostenibile) integrale all’attuale crisi ambientale e sociale.
Con il termine di ecologia integrale, che ricorre molte volte nell’enciclica e dà il titolo al quarto capitolo, Papa Francesco intende caratterizzare la “grandezza, l’urgenza e la bellezza della sfida che ci si presenta”, ma anche la sua pervasività. Una sfida, i cui diversi elementi (ambientali, economici e sociali) sono strettamente interconnessi e in cui occorre prendere “dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare” in un quadro di azione di sistema.
Un primo elemento di consapevolezza riguarda il superamento della “fiducia irrazionale nel progresso e nelle capacità umane”, a favore di un cambiamento che sappia mantenere i ritmi della natura propri della dinamica dei sistemi complessi. “Il cambiamento è auspicabile, ma non deve comportare un deterioramento del mondo e della qualità della vita di gran parte dell’umanità”. Ciò riporta direttamente ad un’altra consapevolezza, quella connessa all’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, dove ad un consumo eccessivo di risorse da parte del mondo occidentale si accompagna una crescente disuguaglianza nella qualità della vita e nell’accesso ai servizi essenziali, soprattutto da parte dei paesi in via di sviluppo e delle fasce marginali della popolazione.
Le modalità per affrontare queste dicotomie sociali ed ambientali passano attraverso il superamento della “cultura dello scarto” e il riconoscimento dell’esemplarità di funzionamento degli ecosistemi naturali, capaci di riutilizzare i rifiuti e le scorie che diventano risorse in un modello circolare. I progressi nella direzione dell’economia circolare sono ancora molto scarsi e qui il messaggio del Papa sembra orientarsi direttamente verso i policy makers della Commissione Europea chiamati in questo periodo a dare consistenza alla strategia verso la circular economy.
Ma lo stimolo diretto ad agire prioritariamente e rapidamente non poteva non riguardare il clima (anche in questo caso con un importante evento quale la COP di Parigi che si terrà entro la fine dell’anno), definito come bene comune che l’uomo ha profondamente deteriorato. Servono quindi politiche che riducano drasticamente l’emissione di anidride carbonica e degli altri gas inquinanti, sviluppando fonti di energia rinnovabile e modificando radicalmente i modelli di produzione e consumo. Ciò anche perché non vi è solo un problema di equità intergenerazionale, ma anche di impatto particolarmente rilevante per i paesi in via di sviluppo e per i poveri i cui “mezzi di sostentamento dipendono fortemente dalle riserve naturali e dai servizi dell’ecosistema, come l’agricoltura, la pesca e le risorse forestali”.
Con il riferimento organico ai servizi ecosistemici Papa Francesco rivela pienamente il suo orientamento ecologista, in cui uomo e natura sono messi sullo stesso piano, in una prospettiva in cui l’una condiziona la sopravvivenza dell’altro che proprio per questo deve prendersene cura: nella prospettiva francescana viene di fatto superata la visione antropocentrica del rapporto con l’ambiente a favore di un equilibrio basato sulla reciprocità.
La natura non è una “mera cornice della nostra vita”, noi siamo “inclusi in essa” e ne siamo “compenetrati”.
In questa prospettiva, tra l’altro, il Pontefice esprime un esplicito riconoscimento al mondo associativo che si occupa del bene comune, difendendo l’ambiente naturale e urbano, recuperando così legami, generando un tessuto sociale locale, coltivando un’identità comune.
La critica sviluppata nell’ultima parte dell’enciclica, anche ad alcuni filoni di pensiero cattolico, è esplicita: “nella modernità si è verificato un notevole eccesso antropocentrico che oggi continua a minare ogni riferimento ad una dimensione comunitaria e a ogni tentativo di rafforzare i legami sociali”. E ancora: “l’interpretazione corretta del concetto dell’essere umano come signore dell’universo è quella di intenderlo come amministratore responsabile”.
Anche quando nell’enciclica si tratta delle risorse esauribili, a partire dall’acqua, l’attenzione è al recupero di una attenzione più sistematica a ciò che facciamo e a come lo facciamo.
L’acqua potabile e pulita è una risorsa chiave sia per la vita umana, sia per gli ecosistemi, la cui domanda sta crescendo più della disponibilità, generando grandi conseguenze legate al ridotto o al mancato accesso soprattutto da parte dei più poveri. Non dobbiamo sprecarla, né inquinarla ulteriormente, né privatizzarla, in quanto rappresenta un bene comune essenziale, fondamentale e universale.
Ma lo stesso vale per la biodiversità, con “la perdita di specie che potrebbero costituire risorse estremamente importanti” per l’alimentazione, per la cura delle malattie e per molteplici servizi. L’attività umana è infatti divenuta onnipresente e genera circoli viziosi, a cui l’essere umano non è più in grado di rimediare. Così l’artificiale creato dall’umanità fa sì che la terra in cui viviamo divenga “meno ricca e bella”. Il Papa dice esplicitamente al proposito che “sembra che ci illudiamo di poter sostituire una bellezza irripetibile e non recuperabile con un’altra creata da noi”.
In questo ambito è necessario investire molto di più nella ricerca, per comprendere a fondo il comportamento degli ecosistemi e regolare adeguatamente gli impatti dell’attività antropica sull’ambiente. Ogni territorio è chiamato a questo impegno di conservazione dinamica, prestando particolare attenzione alle specie più fragili.
Anche in questo caso il collegamento con la qualità della vita e con la degradazione sociale è immediato, soprattutto quando si fa riferimento all’evoluzione della vita urbana. “La crescita degli ultimi due secoli non ha significato con tutti i suoi aspetti un vero progresso integrale e un miglioramento della qualità della vita”.
L’ambiente umano e l’ambiente naturale di fatto “si degradano insieme” e “colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta”. Qui il Papa si sofferma sugli aspetti su cui da sempre concentra la sua attenzione, per affermare che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente”.
In questi ragionamenti c’è moltissimo della sensibilità di un religioso sudamericano, che ha imparato a conoscere in profondità le esigenze di equità dell’altra parte del mondo. In tutto il percorso che ha portato alla Conferenza di Rio +20 e nelle dinamiche internazionali successive i Paesi Occidentali hanno fatto fatica a rendere pienamente credibile il loro impegno nei confronti di uno sviluppo più sostenibile, proprio perché non capaci di prendersi pino carico della domanda di equità emergente dai Paesi in via di sviluppo.
Il Papa in modo apparentemente semplice ci fornisce la ricetta. “L’inequità non colpisce solo gli individui, ma Paesi interi” e ha generato un vero e proprio “debito ecologico” a cui bisogna dare rimedio. I Paesi sviluppati devono limitare in modo importante il consumo delle risorse, sostenendo le politiche e i programmi di sviluppo sostenibile dei Paesi più bisognosi. Bisogna al proposito essere pienamente consapevoli che esistono “responsabilità diversificate” all’interno della grande famiglia umana, in cui non devono esistere barriere politiche e sociali che ci isolino o che lascino spazio alla “globalizzazione dell’indifferenza”.
A questo punto del ragionamento l’enciclica entra nel merito della debolezza delle risposte sinora messe in campo e richiama la necessità di “costruire leadership “ e definire regole che sappiano tracciare strade inclusive a tutela delle generazioni future. La situazione attuale è ancora lontana da questo percorso, pervasa da interessi peculiari, da una prevalenza delle logiche di mercato su quelle della solidarietà, da un’ecologia superficiale che salvaguarda gli attuali stili di vita, di produzione, di consumo.
E indubitabilmente il Papa ha dato a tutte le persone di buona volontà la sua scossa, che nella parte finale dell’enciclica, dopo che nel secondo capitolo vengono introdotte le argomentazione di natura religiosa, diventa molto profonda.
Qui viene richiamato anche il tema della necessità di difendere il lavoro. Il richiamo primigenio è alla Genesi in cui l’uomo viene collocato nel giardino dell’Eden non solo per prendersi cura dell’esistente (custodire), ma per lavorarvi affinché produca frutti (coltivare). Il lavoro è in senso più ampio da intendere come l’ambito dello sviluppo personale dove entrano in gioco “le diverse dimensioni della vita: la creatività, la proiezione del futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, …”. Come si può osservare sono dimensioni in cui possono essere agevolmente declinati tutti gli aspetti sociali e ambientali inerenti la sostenibilità al livello della persona e delle organizzazioni.
Vi è poi la riflessione che Papa Francesco porta al livello di sistema. Il modello di sviluppo deve essere fondato su un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e imprenditoriale (come quella di sistemi agricoli e alimentari locali basati sulla varietà), con un forte radicamento territoriale. Così la creazione di posti di lavoro diventa per l’imprenditore parte imprescindibile del suo servizio al bene comune.
(*) Scuola Superiore Sant’Anna