A fine novembre 2017 il Governo ha sottoscritto con le organizzazioni sindacali un’intesa finalizzata all’istituzione di una commissione di studio proposta ad elaborare un confronto internazionale su i costi dell’assistenza e della previdenza. In molti si sono cimentati a mostrare che la spesa previdenziale vera e propria sarebbe molto inferiore a quella indicata nelle cifre ufficiali.
Con questo si è cercato, specie nel passato, di ridurre la gravità del problema della sostenibilità del sistema previdenziale affermando che la spesa per le pensioni ammonta all’11 per cento del Pil anziché al 16 per cento scorporando i costi dell’assistenza da quelli della previdenza. Ma molte voci indicate come assistenza sono invece forme di assicurazione contro i rischi di una carriera saltuaria come le pensioni minime o di invalidità.
Sembra quindi opportuno meglio definire “previdenza” un trattamento pensionistico determinato in base ai contributi versati durante una precedente attività di lavoro e “assistenza” un trattamento, o un’integrazione, ispirati allo scopo di tutelare una situazione di bisogno. Sembra del pari ragionevole desumerne la conseguenza che il primo debba essere pagato attraverso i contributi previdenziali versati dagli attivi e il secondo attraverso il gettito tributario generale.
Sin dal 1989, il legislatore si è proposto di separare l’assistenza dalla previdenza, istituendo presso l’Inps una speciale Gestione degli interventi assistenziali (Gias) da finanziarsi a carico, appunto, dell’erario. L’elenco delle voci addossate alla Gias è assai composito e variegato. Vi si incontra, per esempio, un rilevante importo destinato alle pensioni dei coltivatori diretti, la cui gestione è ovviamente deficitaria per la drastica riduzione del numero degli attivi. La causa del disavanzo è dunque riconducibile alla separazione contabile tra i coltivatori diretti e le altre categorie di lavoratori, non già al fatto che i coltivatori diretti siano, come categoria, meritevoli di assistenza pubblica.
Altro motivo è rappresentato dal fatto che molte delle spese classificate come “assistenza” sono in realtà delle spese incomprimibili che riguardano direttamente le pensioni. Un esempio è dato dalle integrazioni al minimo o dall’Ape sociale classificate come assistenza, ma di fatto spese relative alle pensioni.
Sono, quindi, altre le condizioni, e non solo la possibile distinzione fra previdenza ed assistenza, per le quali il nostro Paese non si può permettere di aumentare indiscriminatamente le spese per le misure previdenziali.
Prima di tutto la questione demografica. Le previsioni mostrano, infatti, che il nostro andamento demografico combinato con la scarsa crescita del Pil, avrà effetti negativi sulla sostenibilità della spesa previdenziale. Se fino ad oggi si prevedeva una spesa previdenziale con un incidenza massima del 16% del Pil nel 2030, con le nuove previsioni si arriva fino al 18% nel 2040. Anche considerando i soli dati demografici è possibile osservare come il numero di pensioni in rapporto al numero di occupati è destinato a peggiorare. Infatti il numero di pensioni per occupato aumenterà dall’attuale 80 % al 100 % nel 2045.
Appare, quindi, importante ribadire che la logica di un sistema a ripartizione si fonda sull’aggregazione, non sulla separazione, delle categorie. L’artificio della separazione non traghetta le somme erogate dalla categoria della previdenza a quella dell’assistenza, ma introduce soltanto discrezionalità politica al disegno previdenziale.
Si può quindi a buon diritto sostenere la natura assicurativa di un “contratto sociale” in base al quale, sin dall’inizio dell’attività, tutti i lavoratori pagano un contributo, con l’intesa che coloro i quali avranno avuto una carriera troppo saltuaria e/o mal rimunerata otterranno una maggiorazione rispetto all’equivalente attuariale dei contributi.
Ben vengano, quindi, i lavori di elaborazione della prevista Commissione di studio che si spera possa approfondire e meglio definire questo importante problema.
(*) in 24Ore, Sanità n.14, 26/03/2018