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La disuguaglianza salariale nell’ Unione Europea*


La disuguaglianza continua ad essere al centro del dibattito scientifico e di policy. E ciò non sorprende. Una disuguaglianza troppo marcata può causare seri problemi economici e può contribuire al declino della coesione sociale e del benessere della società in generale. Il suo aumento si lega a grandi tendenze globali, come la globalizzazione degli scambi e della produzione, la digitalizzazione e la finanziarizzazione, che tendono a spostare l’equilibrio di potere tra lavoratori e datori di lavoro a favore di questi ultimi, con un conseguente inasprimento della polarizzazione nella distribuzione dei redditi ed un aumento dell’incertezza che grava sui lavoratori.

Tuttavia, se ci si concentra esclusivamente su tali ‘macrotendenze’ c’è il rischio di perdere di vista la complessità della disuguaglianza e il modo con cui quest’ultima può variare tra i Paesi e nel tempo. Ed è in ragione di tale eterogeneità che emerge l’importanza di istituzioni e fattori specifici, in grado di acuire/mitigare la disuguaglianza in ciascun Paese. 

In un recente report dello European Trade Union Institute (ETUI), abbiamo analizzato le disuguaglianze salariali in Europa, concentrandoci sulle eterogeneità istituzionali e sui regimi di domanda quali fattori in grado di sostenere il potere contrattuale dei lavoratori, incidere sulla distribuzione dei salari e contrastare così le macrotendenze che hanno minato la loro posizione nel recente passato. L’analisi è rilevante per almeno tre ragioni. In primo luogo, le diseguaglianze salariali rimangono al centro dell’azione di policy della Commissione, come testimonia la recente Direttiva sul salario minimo e le connesse indicazioni per il rafforzamento della contrattazione collettiva negli stati membri. In secondo luogo, gli stati membri si caratterizzano per una significativa eterogeneità, sia per quanto l’intensità delle diseguaglianze – si pensi, ad esempio, alla eterogenea distribuzione del fenomeno del ‘lavoro povero’ – sia rispetto alle caratteristiche istituzionali del mercato del lavoro – ad esempio, l’intensità delle tutele rispetto a rischi occupazionali, economici e sociali o, d’altra parte, il peso relativo del lavoro non standard. Terzo, le condizioni strutturali (ad esempio, il peso relativo dei settori ad alta intensità di investimenti in innovazione e formazione) e competitive degli stati membri sono anch’esse molto diversificate e ciò può, ovviamente, incidere sulla dinamica e la distribuzione delle diseguaglianze.   

Dati e metodologia. L’analisi si basa su dati provenienti dall’indagine Eurostat sul reddito e sulle condizioni di vita (EU-SILC) relativi a 25 stati membri della UE (sono esclusi Malta e Cipro) osservati nel periodo 2006-2021. Le informazioni riguardano il reddito da lavoro e il tempo trascorso al lavoro nel corso dell’anno per un campione rappresentativo di persone di età compresa tra i 18 e i64 anni. La disuguaglianza è misurata utilizzando la varianza del logaritmo del salario orario. L’analisi è ulteriormente arricchita tenendo conto di elementi strutturali di rilievo che possono incidere sulla dinamica e la distribuzione del salario: l’entità del salario minimo rispetto alla media (indice di Kaitz); la percentuale di lavoratori che: i) ha un contratto collettivo di lavoro, ii) ha accesso alla contrattazione salariale a livello aziendale; il tasso di sindacalizzazione; la quota di offerte di lavoro non soddisfatte nello specifico settore nonché il tasso di disoccupazione, distinguendo i lavoratori in base alle caratteristiche demografiche. 

La disuguaglianza salariale nell’UE. La prima evidenza riguarda la dinamica generale della disuguaglianza salariale nell’Unione Europea. Ad un primo sguardo, quest’ultima risulta essere complessivamente diminuita. Come si osserva nella Figura 1, la varianza dei salari si è ridotta di circa un quarto (28%) dal 2006 al 2021. La disuguaglianza media tra paesi si è ridotta di quasi due terzi (63%), e questa convergenza è, di per sé, una buona notizia. Il risultato è dovuto, prevalentemente, alla crescita dei salari nell’Europa centrale e al connesso declino della disuguaglianza all’interno degli stessi paesi. A ciò si contrappone, tuttavia, una crescita minore – e una tendenziale stagnazione – dei salari in alcuni stati membri meridionali. Malgrado la già menzionata convergenza, le differenze all’interno dell’Unione rimangono considerevoli se messe a confronto, per esempio, con quelle che sussistono tra i vari stati degli Stati Uniti.

Ovviamente, i salari sono solo uno degli elementi che influenzano la disuguaglianza . A pesare in modo decisivo è anche la crescente precarietà del lavoro, che comprende aspetti quali la qualità dei contratti e l’intensità oraria. Anche in questo ambito, vi è una forte eterogeneità tra stati membri. Per esempio, nel 2022 gli Stati meridionali presentano percentuali molto più elevate di lavoratori temporanei, part-time involontari e lavoratori autonomi, rispetto agli altri Paesi membri (si veda Benchmarking Working Europe 2024, capitolo 2).

Figura 1: la disuguaglianza salariale complessiva è in calo nell’UE

Nota: varianza del logaritmo del salario orario (ppp) in 25 Stati membri UE nel tempo, laddove la proporzione della varianza tra i Paesi è la varianza stimata (R al quadrato) da una regressione del logaritmo del salario con effetti fissi per i singoli Paesi.

Fonte: EU-SILC 2007-2022

Concentrando l’attenzione sulle evidenze contenute nel Rapporto, è importante sottolineare le ampie differenze tra i Paesi nei i livelli della disuguaglianza e nei relativi trend. La disuguaglianza salariale è leggermente diminuita tra i Paesi UE, dell’11% in media, ma è aumentata in sei dei 25 Stati membri. Tra questi, figurano l’Italia e la Spagna, dove la disuguaglianza è aumentata del 36% circa.

Nella spiegazione di tali eterogeneità un ruolo rilevante, tra le diverse variabili strutturali/istituzionali (v. Figura 2), lo svolge il ‘salario minimo legale’: dove quest’ultimo è previsto, la diseguaglianza salariale è più limitata. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che quella misura contribuisce ad elevare tutti i salari, compresi quelli situati nella fascia più bassa della distribuzione. Tuttavia, è importate sottolineare come i benefici derivanti dal salario minimo tendano, comunque, a distribuirsi diversamente in base alle diverse caratteristiche dei lavoratori: genere, titolo di studio, nazionalità. Analogamente, sembra rilevante il ruolo della contrattazione collettiva: dove è più ampia la sua copertura è minore la dispersione. Un ruolo simile, coerentemente con le attese, è svolto dal grado di copertura sindacale, fortemente correlato con la variabile precedente. Al contrario, la contrattazione di secondo livello (o decentralizzata) è associata a una maggiore dispersione salariale, presumibilmente perché le differenze di redditività tra le imprese si ripercuotono sui salari.

L’evidenza mette anche in luce come la dinamica salariale sia positivamente influenzata dalla carenza di manodopera in specifici segmenti del mercato del lavoro. Ciò indica l’importanza della ‘forza’ contrattuale: con il migliorare delle scelte e delle opzioni esterne per i lavoratori migliorano anche i salari, il che tende a ridurre la diseguaglianza.

Figura 2: fattori istituzionali ed economici che influiscono sulla distribuzione

Nota: impatto stimato con I.C. al 95% sulla varianza del logaritmo dei salari (%) di una variazione di cinque punti percentuali nei fattori contestuali, stimata da una regressione RIF che controlla per sesso, età al quadrato, sesso per età al quadrato, status di migrante, istruzione, stato di convivenza, presenza di un figlio in famiglia, urbanizzazione, mesi di lavoro full-time o part-time, ore lavorate ed effetti fissi per settore e per anno, ponderati e con errori standard raggruppati a livello di Paese-settore produttivo-anno.

Fonte: EU-SILC 2007-2022, con l’integrazione di dati esterni.

Conclusioni: come sostenere i lavoratori meno retribuiti. Le evidenze discusse in questa nota mostrano come delle istituzioni forti, orientate a sostenere il reddito dei lavoratori (i.e., salario minimo, contrattazione collettiva), siano centrali per contrastare la disuguaglianza salariale. Tuttavia, nel tempo si è manifestata in Europa una chiara tendenza alla riduzione della copertura della contrattazione e all’indebolimento dei sindacati. Ciò chiarisce l’importanza della clausola della Direttiva UE sui salari minimi in merito alla necessità di aumentare la copertura dei contratti collettivi di lavoro. È inoltre chiaro che un salario minimo sufficientemente elevato possa incidere su un più ampio segmento della distribuzione salariale con effetti positivi di riduzione della disuguaglianza. Ed effetti analoghi – anche se non permanenti – potrebbero scaturire da un fattore di ben altra natura: la carenza di manodopera, che oggi si manifesta in alcuni ambiti, con il suo impatto sul potere contrattuale dei lavoratori e, dunque, sulla loro capacità di ottenere condizioni di lavoro e retribuzioni migliori. Vi è evidenza che negli Stati Uniti questo fenomeno ha portato a un miglioramento dei salari percepiti dai lavoratori meno retribuiti; non altrettanto chiara è l’evidenza per quanto riguarda l’Unione Europea. In ogni caso, la strada da percorrere con urgenza per contrastare, in modo più strutturale, la disuguaglianza salariale è quella degli interventi istituzionali che elevino il livello dei salari più bassi.

*da Eticaeconomia n.213/ 2024 

**Wouter Zwysen è ricercatore senior presso l’Euroepan Trade Union Institute e si occupa di tendenze del mercato del lavoro e disuguaglianza. È affiliato all’Università di Essex e all’ Università Cattolica di Lovanio.

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