dalla Newsletter n.93 del 24/07/2012
Il decreto legge 95 si presenta, nella migliore delle ipotesi, come il classico bicchiere riempito a metà che può, quindi, essere giudicato mezzo pieno o mezzo vuoto.
Se lo vediamo alla luce del rinvio dell’aumento delle aliquote Iva, come premessa alla sua totale eliminazione, il bicchiere appare mezzo pieno. Se lo giudichiamo alla luce della congiuntura italiana e della necessità di stimoli alla crescita il bicchiere appare mezzo, se non totalmente, vuoto.
Non vi è dubbio che il governo si muove in un contesto difficile. Il duo Berlusconi-Tremonti, grazie alla nulla credibilità del loro governo, ha consentito alla Commissione Europea e alla Germania di imporci vincoli di bilancio più drastici di quelli posti agli altri paesi dell’area euro. Solo l’Italia ha l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013, senza questa scadenza avremmo risorse per rilanciare la crescita. Nonostante le manovre fatte, il nostro spread viaggia pericolosamente vicino a quota 500, pagando un prezzo in buona parte dovuto non a una sfiducia dei mercati alla solvibilità del nostro paese, ma alla tenuta dell’euro. Siamo all’assurdo che paesi UE, come Romania e Bulgaria, hanno uno spread inferiore rispetto a quello dei titoli di stato italiani, solo perché fuori dall’euro.
Stiamo pagando, al netto delle nostre colpe e dei nostri problemi, cosa da non dimenticare, la sfiducia dei mercati verso la tenuta dell’euro innescata dalle dichiarazioni di Merkel-Sarkozy a Deaoville nell’ottobre 2010 e consolidata dai ritardi dell’Unione a fronteggiare e risolvere la crisi greca e dalla riluttanza, se non dall’indisponibilità, della Germania e di altri paesi del Nord ad accettare proposte in grado di arginare questa sfiducia. In altre parole, in questo momento, anche a causa del rinvio della pronuncia della Corte Costituzionale tedesca sul fondo salva stati, corriamo il rischio di rimanere soli di fronte ai mercati.
A questo si può aggiungere il ritorno in campo del Cavaliere. Facile immaginare come questo non induca i paesi del nord Europa ad accettare come un dato certo e permanente il riequilibrio dei conti italiani.
In questo quadro, non vi è dubbio che le possibilità di manovra del governo siano molto limitate, ma prima o poi ci si dovrà porre il problema di come agire in assenza d’interventi europei, di come stimolare autonomamente la ripresa della nostra attività produttiva.
Tutto questo manca negli ultimi due provvedimenti del governo, quello sulla crescita e quello sulla spending review. Il primo non è solo a saldo zero, ma le nuove spese compensate da nuove entrate assommano a importi molto modesti soprattutto nel biennio 2012/13 dove non arrivano a 100 milioni di euro.
Il decreto, in assenza di risorse a disposizione, si prefigge l’obiettivo di creare le condizioni “esterne” necessarie alla crescita “mobilitando” risorse private, ma in una situazione in cui la domanda di consumi mostra la maggiore caduta del dopoguerra, risulta, tuttavia, difficile credere a questa mobilitazione. Si trattava allora di movimentare in termini di maggiori spese, e maggiori entrate dato il vincolo di bilancio, risorse nettamente superiori a quelle contenute nel provvedimento sulla crescita. Ci si attendeva, quindi, che la spending reviewnon si limitasse al solo obiettivo di evitare l’aumento dell’Iva, ma si ponesse obiettivi più coraggiosi trovando risorse da utilizzare per lo sviluppo.
Il decreto 95 assolve alla funzione principale di rinviare/abolire l’aumento programmato dell’Iva dal mese di ottobre, e trova le risorse per estendere la salvaguardia ad altri 55.000 esodati e per le esigenze indifferibili (missioni all’estero, cinque per mille, terremoto, ecc.) senza pesare sui conti pubblici. Certamente, positivo è il riequilibrio tra imposte etagli di spesa prodotti dal decreto. Si tratta, tuttavia, di un riequilibrio “oggi” virtuale, poiché l’aumento dell’Iva sarebbe scattato solo da ottobre, un riequilibrio che evita un ulteriore appesantimento della pressione fiscale, ma che non riduce quella attuale. Non si da un ulteriore colpo alla produzione e ai consumi, ma nulla si offre rispetto a oggi. E’ auspicabile, comunque, che il governo trovi il prima possibile le risorse adeguate, pari a 6,5 miliardi strutturali nel 2013 e nel 2014, per annullare del tutto anche il previsto residuo aumento dell’Iva.
In termini d’indebitamento il saldo del decreto sarà di 602 milioni nel 2012, di 16 milioni nel 2013 e di 27 milioni nel 2014. Impatto quindi pressoché nullo sui conti pubblici, ma con un riequilibrio tra tasse (diminuite) e tagli di spesa (aumentati). Nel 2014 le minori entrate nette saranno pari a -8,364 miliardi di euro, le minori spese nette saranno pari a -8,392 miliardi di euro.
Le risorse per finanziare le esigenze cosiddette indifferibili e altri aumenti di spesa ammontano a 509 milioni di euro nel 2012 (per la quasi totalità destinate al Fabbisogno emergenza Nord Africa), a 2.998 milioni di euro nel 2013 (Missioni all’estero, cinque per mille, Fondo esigenze indifferibili, sostegno autotrasporto) e di 343 milioni di euro nel 2014 di cui 190 milioni per gli esodati (le maggiori spese per la tutela degli esodati sono previste negli anni successivi, 590 milioni nel 2015 e più di 1.000 milioni per anno nel biennio 2016/17). E’ stata inoltre finanziata la spesa per il terremoto del giugno scorso con lo stanziamento di 1.000 milioni annui per il biennio 2013/14. A queste maggiori spese si affiancano le minori entrate derivanti dal rinvio dell’Iva (-3.280 milioni di euro nel 2012, -6.650 nel 2013, -9.840 nel 2014). Il tutto è coperto con tagli alle spese e aumenti di entrate (essenzialmente modifica al patto di stabilità per le Regioni a Statuto speciale).
Da rilevare che alcune delle manovre più discusse, come quella sulla riduzione dei posti letto o quella della riduzione delle piante organiche nella P.A., hanno un impatto marginale sulla manovra. La prima incide per 20 milioni nel 2013 e 50 milioni nel 2014; la seconda produce un aumento di costo netto nel 2013 di 172 milioni e un risparmio netto nel 2014 di 114 milioni.
Il decreto è un mix di spending review, d’interventi tradizionali e di norme procedurali o comunque non quantificabili in termini di minore spesa secondo la Relazione tecnica. Queste ultime sono le parti più condivisibili del provvedimento. Forte è la necessità di una riduzione dei costi della politica, a livello nazionale e locale. Positivi sono, quindi, gli interventi volti a una riorganizzazione complessiva del sistema istituzionale locale (province, piccoli comuni, prefetture) e positive le norme volte a sopprimere o accorpare gli enti strumentali, agenzie e consorzi creati da Regioni, Comuni e province per lo svolgimento di attività di natura istituzionale che creano duplicazioni inutili di spesa pubblica e la messa in liquidazione e privatizzazione di società pubbliche.
Gli effetti di queste misure non sono oggi quantificate, ma, se effettivamente realizzate, potranno liberare risorse da utilizzare per lo sviluppo, il sostegno della domanda interna, gli investimenti nella produzione e nei servizi e la riduzione del peso fiscale. Il pericolo è che, trattandosi di norme che non incidono sui saldi del provvedimento, siano annacquate nel passaggio parlamentare e/o applicate solo in parte.
La spending review si esercita in particolare sull’acquisto di beni e servizi e potrebbe essere estesa ad altre parti del decreto. L’indicazione sulla riduzione delle piante organiche nel settore pubblico è, in prima istanza, di tipo lineare. Se così fosse il taglio si sommerebbe alle conseguenze di un blocco delle assunzioni in vigore da anni, con riduzione di personale del tutto casuale derivante essenzialmente dal tasso di pensionamento del personale. Si produrrebbe un effetto negativo sulla distribuzione efficiente del personale, con un danno per i servizi ai cittadini e una loro diminuzione. E’ auspicabile che il governo ottemperi effettivamente a quanto previsto dal decreto, commisurando i tagli alle effettive esigenze dei singoli uffici in una logica di spending review.
Buona parte della riduzione di spesa deriva dai tagli agli Enti locali, alla Sanità e ai Ministeri ripetendo sotto questo aspetto il mix d’interventi delle numerose manovre di questi ultimi anni senza alcuna sostanziale innovazione. Si tratta in linea di massima di tagli lineari.
Gli enti locali contribuiscono per 2,3 miliardi di euro nel 2012, per 5,2 miliardi nel 2013 e per 5,5 miliardi nel 2014. Sono tagli presenti in tutte le manovre del passato, in gran parte di tipo lineare, in assenza della non avvenuta determinazione dei costi standard. E’ ragionevole prevedere un taglio dei servizi a livello locale (diversamente da quanto affermato nel titolo del provvedimento) e un aumento ulteriore della tassazione locale.
La sanità contribuisce alla manovra per 0,9 miliardi di euro nel 2012, per 1,8 miliardi nel 2013 e per 2 miliardi nel 2014.
Con questi tagli, aggiuntivi a quelli derivanti dagli interventi di Tremonti, l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil scenderà dal 7,3% del 2010 al 6,9% del 2013, nonostante la caduta del Pil. La riduzione della spesa sanitaria, addossata principalmente alla filiera farmaceutica e alla riduzione dei tetti di spesa per appalti, forniture e dispositivi medici, non deriva dalla necessità di limitare una spesa fuori controllo, ma serve a fare cassa, rinunciando a riqualificare la spesa.
Gli spazi per una revisione della spesa sanitaria sono certamente ampi ma differenziati per Regione. La prima cosa da decidere e se considerare il nostro Sistema sanitario come regionale o nazionale. Nel primo caso, lo Stato può ridurre i trasferimenti, ma deve lasciare alle Regioni il compito di come contenere le spese; nel secondo caso, è autorizzato a entrare nel merito delle diversi voci della spesa sanitaria. Nel provvedimento vi sono ambedue i tipi d’intervento e questo impedisce alle Regioni virtuose di programmare le proprie spese e lascia spazi indebiti alle Regioni non virtuose.
E’ in definitiva, un provvedimento in parte nuovo, in parte tradizionale, in parte da attuare con ulteriori interventi. Delude sul piano della crescita. Non può che essere così se si continua a sottostare da un lato ai vincoli di bilancio imposti dall’UE e dai mercati e dall’altro ai vincoli posti dalla composita maggioranza che sostiene il Governo e dalla riluttanza di questo a praticare vie nuove.
Le misure fiscali di Hollande sono un esempio da imitare. Non tutte le misure di aumento del gettito hanno effetti recessivi se si considerano le diverse propensioni marginali al consumo. Si può estendere la spending review applicando in modo generalizzato i costi standard. Alternative “interne” alle attuali politiche economiche ci sono, ricordando che la crescita aiuta il risanamento dei conti.
(*) già Presidente Inpdap, esperto in previdenza