Essere invisibili è una condanna senza scadenza. E’ quello che capita a chi è povero. Fiumi di parole sulla povertà, categoria sociologica molto indagata e mai risolta. Minore attenzione ai poveri in carne ed ossa, alle variegate identità che assumono gli ultimi della nostra società del benessere.
La Caritas è diventata progressivamente un’autorità in questo campo. Ha una organizzazione capillare nelle città grandi e piccole. Assiste soprattutto in campo alimentare, ma non solo, individui e famiglie in stato di necessità, senza chiedere dichiarazione di redditi, provenienza geografica, orientamento politico, credo religioso. A chi bussa, apre. A chi si presenta non manda mai via a mani vuote. A chi chiede, sa rispondere a tono, sempre rassicurante, attento, amicale.
E’ così che ha costruito una reputazione di serietà, di generosità e di fratellanza che consente di avere una rete di volontari diffusa, di sostenitori convinti, di utilizzatori dei suoi servizi sempre più numerosi. Ha potuto rafforzarla con una competenza senza spocchia, con una tenace presenza nel territorio e da qualche anno, con una preziosa diffusione di informazione sugli aspetti qualitativi e quantitativi del fenomeno con cui quotidianamente ha a che fare.
Non è la sola organizzazione che si occupa della povera gente. Ce ne sono moltissime altre, altrettanto prestigiose, che si dedicano al sostegno concreto dell’indigenza delle persone. Ma la Caritas è indubbiamente la più accreditata a dirci qual’ è lo stato di salute della povertà: cresce il numero degli ultimi, cioè dei nullatenenti; lambisce senza sosta i penultimi, soprattutto tra i poor workers; non riguarda tanto gli immigrati ma sempre di più i nostri connazionali; non si concentra sugli anziani, ma avanza anche tra le famiglie più giovani.
E quando questo mondo di invisibili si fa denso e diventa quasi il 10% della popolazione italiana, non basta parlarne soltanto il giorno dell’uscita del Rapporto della Caritas. Quanto meno dovrebbe diventare oggetto di un dibattito più intenso e profondo, anche perché le persone non si possono massificare in un’unica immagine e trovare un’unica risposta. La dimensione del fenomeno e delle cause che lo determinano sono tali da richiedere un approccio complesso e non unidimensionale.
Ovviamente, li accomuna la mancanza o l’assenza di risorse economiche proprie, ma almeno tre sono le macro aree della povertà: quella educativa, quella alimentare, quella energetica, la più recente. Ma compartecipano anche lo stato di maggiore o minore stabilità familiare, la condizione di vita al limite dll legalità quando non è immersa fino al collo nell’illegalità, il degrado dell’ambiente in cui si vive. Da questo dossier, tutto ciò emerge chiaramente.
Proprio per questo, chi si illude che questo fenomeno possa essere attenuato o ridimensionato in termini monetari è fuori pista. Rifugiarsi unicamente nella “charity”, anche se di Stato, sarebbe un modo di salvarsi la coscienza, di allontanare da sé il calice amaro del farsene carico. Reddito di cittadinanza e Reddito di emergenza, indipendentemente dal dibattito sulla loro efficacia, da soli non addrizzano la piega storta della povertà. Ne attenuano la gravità, ma non possono rimuovere le cause della condizione di indigenza.
Far uscire i poveri o la maggior parte di essi dalla loro situazione di invisibilità, significa poterli guardare in faccia uno per uno, capirne le ragioni, individuare le misure più idonee. Ai bambini che non frequentano la scuola dell’obbligo e che con i loro genitori non riescono a fare due pasti al giorno se non andando alla mensa della Caritas; a quanti non sono in grado di pagare le bollette, non quelle salate attuali ma quelle di tanto tempo fa; a quelli che rinunciano alle spese mediche e si tengono i loro malanni. A questi, ciò che serve sono i libri, le penne, i quaderni, le provviste alimentari, le cure adeguate, l’uso della luce, del telefono, del riscaldamento, la dotazione di abiti decenti.
Cioè di servizi alla persona mirati alle singole situazioni, controllabili e dosabili con la collaborazione degli interessati e proiettati verso l’obiettivo dell’ autosufficienza, ove fosse possibile. Infatti, un sistema capillare di tale consistenza ha senso se finalizzato a far uscire dalla povertà, verso un lavoro, tutte le persone che potrebbero averlo. L’assistenzialismo fine a sé stesso non favorisce l’emancipazione verso una prospettiva sociale più accettabile. Soltanto il lavoro può dare dignità a chi non ce l’ha, non la conosce, non sa neanche che voglia dire.
Siamo molto lontano da questa lotta alla povertà in tutte le sue sfaccettature. Il sistema è lacunoso, contraddittorio, grezzo. Ma soprattutto senza stella polare. Finchè non è chiara la finalità, è anche poco definibile una strategia stringente. Con il rischio che diventi finanche più costoso che una politica attiva di reinserimento sociale. Prima che sia troppo tardi, una Conferenza nazionale sulla povertà non sarebbe tempo perso. Non fosse altro per consentire agli invisibili di essere sia pure temporaneamente visibili. Temo però che questo Governo non sia in grado di volerla. Chissà che non venga in mente alle forze di opposizione.