Un articolo scritto tra trentacinque anni spiega come l’Italia sia riuscita a tornare un Paese che fa figli e come questo l’abbia aiutata a far ripartire l’economia. Il segreto? Non l’immigrazione, né (solamente) soldi e servizi. È bastato scommettere su giovani e donne di Francesco Cancellato.
“2,1 figli per coppia: la popolazione italiana ha ricominciato a crescere”. Così, l’Istat, in un comunicato stampa di ieri, 26 febbraio 2051, ha annunciato che lo scorso anno, dopo una rincorsa lunga venticinque anni, l’Italia ha finalmente raggiunto la fatidica soglia di sostituzione. Non è un numero qualunque: questa cifra, infatti, rappresenta il tasso di natalità che consente alla popolazione di un Paese di “sostituirsi”. In altre parole, ogni persona ne mette al mondo un’altra.
Un comunicato del Governo parla di risultato storico e, per una volta, la retorica non è fuori luogo. Per comprenderlo, basta osservare i dati di qualche anno fa. Più precisamente, nel 2016. Anno in cui si preconizzava che gli ultranovantacinquenni sarebbero decuplicati nel giro di cinquant’anni, che la popolazione straniera sarebbe passata dal 10% al 20% del totale, che gli ultraottantenni sarebbero stati, nel giro di un decennio, meno delle persone sotto i dieci anni di età.
Ne avevano ben donde, a preoccuparsi, i nostri genitori. Nel 2015 si contavano 488mila nascite, record negativo dall’unità d’Italia. In quegli anni, i bambini italiani erano circa 3,3 milioni, due milioni in meno rispetto al 1971. Allo stesso modo, gli anziani con più di 65 anni erano 12 milioni, circa il doppio rispetto a quarant’anni prima. Una tendenza, questa, che nella grande crisi economica si era ulteriormente acuita: il tasso di natalità era infatti sceso del 7,4% tra il 2008 e il 2012 e del 4,3% nel 2013. Non bastasse, in dieci anni – fra il 2001 e il 2011 – la classe d’età dei 25-29enni si era ridotta di 30mila unità figlia di un processo di emigrazione di massa verso paesi con maggiori e migliori opportunità di lavoro.
Persino gli stranieri, una volta in Italia, smettevano di fare figli: nel 2008 la media di figli per donna era pari a 2,65, nel 2014 è scesa a 1,97. «Se i flussi immigratori non superano determinate soglie dimensionali – spiegava una mozione di Area Popolare in discussione a Montecitorio nel febbraio del 2016 – anche gli immigrati rapidamente invertono la tendenza: in Italia la popolazione immigrata è passata da livelli di fecondità largamente superiori alla soglia di ricambio generazionale, a livelli che ne permettono appena il ricambio e tendono ad abbassarsi ulteriormente».
Risultato? I conti pubblici erano diventati una bomba a orologeria. In quegli anni, Il 27,9% della spesa nazionale (pari al 14,1% del Pil, a 221 miliardi di euro e a 3.719 euro a testa) finiva per pagare le pensioni di anzianità. Cifra che, aumentando gli anziani e diminuendo la forza lavoro, sarebbe stata destinata fisiologicamente ad aumentare. Non solo: in un circolo vizioso destinato ad autoalimentarsi, la domanda interna si contraeva di mese in mese. Il motivo? Una popolazione giovane e un buon numero di figli sono uno stimolo ai consumi. Se diminuiscono i giovani, diminuisce una fascia di persone che ha una vita intera di bisogni e di desideri da realizzare, dall’acquisto di una casa a quello di un’automobile. Per far sopravvivere l’economia, in un simile contesto, l’unica strada è esportare, esportare, esportare. E per farlo, occorre guadagnare produttività, tagliando il costo del lavoro e il potere d’acquisto. Cosa che, a sua volta, spinge le persone a fare meno figli. Secondo Amlan Roy, responsabile delle ricerche demografiche per il Credit Suisse, «l’invecchiamento demografico rallenta il prodotto interno lordo, gonfia il debito pubblico, fa calare gli investimenti e indebolisce l’efficacia delle politiche monetarie delle banche centrali»
Per fortuna, abbiamo cambiato strada: “Il primo passo è stato essere consapevoli che non tutto era perduto” spiega a Linkiesta Alessandro Rosina, oggi decano dei demografi italiani, “ nonostante il numero di figli generati fosse sceso su livello molto bassi, circa 1,4 per coppia, il valore dato alla famiglia continuava ad essere alto e la preferenza era quella di avere almeno due figli. 2,19, per la precisione. Questo era vero anche per le nuove generazioni e le giovani coppie. Il che significa che, dal punto di vista demografico, davamo molto meno di quanto avremmo potuto, avremmo voluto e sarebbe stato utile per una crescita più equilibrata. C’erano quindi margini notevoli per migliorare con le politiche giuste”.
Già, le politiche giuste. Il dibattito, in questo senso, è stato molto acceso. C’era chi sosteneva che la strada fosse quella di dare più servizi alle giovani coppie. Asili nido, in particolare. Una misura che sembra ovvia a molti, ma che tuttavia alcuni ritenevano fosse sbagliata: se i servizi fossero la chiave per fare figli, osservava ad esempio lo statistico Roberto Volpi sul settimanale Tempi, “la Germania, il Paese con la più bassa natalità al mondo, avrebbe dovuto essere la nazione con i più alti tassi di natalità e fecondità”. Non pago, ricordava il caso dell’Emilia-Romagna degli anni Settanta-Ottanta: “fino alla metà degli anni Novanta – raccontava – era la regione più prospera in Italia, con servizi all’infanzia formidabili che tutti dall’estero venivano a studiare. Eppure in quel periodo in media le donne avevano 0,9 figli a testa, cioè un tasso da annullamento della popolazione nel giro di 50 anni”.
Meglio i soldi dei servizi, suggerivano altri, prendendo a esempio il caso francese, con quasi due figli a coppia, la grande eccezione di un continente, l’Europa, in cui la popolazione tendeva a diminuire pressoché ovunque. La cifra che il governo francese spendeva nel 2015 per sostenere la natalità era pari a quasi il 5% del prodotto interno lordo. Architrave era la “Prestazione di accoglienza del bambino”, un bonus elargito a tutte le coppie dopo il quarto mese di gravidanza, in modo da permettere di sostenere le spese iniziali ed esteso fino ai tre anni di età del nascituro. E poi, soprattutto, un grande incentivo a fare più di un figlio, grazie ad assegni familiari pari a 129 euro al mese per chi aveva due figli e di quasi 300 per chi ne faceva tre. Cruciale non è tanto il primo figlio, quanto quelli successivi: “I dati Istat – continuava il documento parlamentare – rilevano che avere più di un figlio raddoppia il rischio di contrarre debiti per mutuo, affitti, bollette o altro rispetto alle coppie senza figli”.
Per seguire l’esempio francese c’erano da spendere parecchi soldi, insomma, e di soldi ce n’erano pochi. Certo, bisognava cambiare strada: in Europa solo Lettonia e Grecia destinavano meno fondi di noi alle famiglie. E qualcosa si è fatto, tagliando sprechi e privilegi, o rimodulando il mix della spesa assistenziale, soprattutto per offrire bonus dal secondo figlio in su, ma serviva altro: “Basterebbe far entrare in Italia più immigrati sostenevano alcuni – faranno loro i figli che noi non facciamo più”. Facile a dirsi: diversi studi demografici avevano infatti dimostrato che una volta in Italia, persino le donne straniere diminuivano la loro propensione a procreare. Peraltro, nonostante il senso comune sembrava suggerire il contrario, un massiccio afflusso di migranti in età da lavoro non avrebbe fatto altro che accelerare il collasso del nostro sistema di welfare: “Se io, in teoria, tolgo di mezzo 200mila nascite e ci metto 200mila immigrati trentenni” – spiegava il demografo Gian Carlo Blangiardo sempre su Tempi – “succede che il carico per una ventina di anni si abbassa”. Successivamente, nel momento in cui la popolazione diventa stazionaria, esso diventa “più alto di quello che sarebbe stato senza l’arrivo degli immigrati al posto dei nati”.
La storia ci insegna che non sono stati né i soldi, né le migrazioni a risolvere il problema: “Alla base di tutto c’è stato un cambiamento di approccio politico e sociale – ricorda ancora Rosina – “Un primo cambiamento è consistito nel considerare le spese a sostegno della famiglia un investimento che si ripaga nel tempo, e non più un costo. Il secondo è stata la rivoluzione culturale che ci ha fatto uscire dalla logica del figlio come bene privato ed assumere la prospettiva di una adeguata consistenza e qualità delle nuove generazioni come cruciale interesse pubblico su cui investire con generosità e intelligenza”.
Una rivoluzione culturale, quindi. I cui due capisaldi sono state due delle categorie più massacrate, fino a trent’anni fa: i giovani, il cui tasso di disoccupazione aveva superato il 40%, e le donne, della cui difficoltà a entrare nel mondo del lavoro – e della loro propensione a uscirne – nessuno sembrava preoccuparsi. Dei primi, si diceva che fossero dei bamboccioni deresponsabilizzati, incapaci di badare a sé stessi, figurarsi a costruire una famiglia. Delle seconde, che fosse proprio la loro smania di carriera una delle cause della denatalità italiana.
Luoghi comuni, certo, ma con un fondo di verità: “Anzitutto bisogna ridare autonomia ai giovani” – spiegava all’inizio del 2016 il demografo Massimo Livi Bacci al Corriere della Sera – “Ormai raggiungono la piena autonomia molto tardi e per conseguenza rinviano molte delle decisioni familiari riproduttive. Finiscono gli studi tardi, entrano nel mercato del lavoro tardi, escono dalla famiglia tardi, rimandano la scelta di fare un figlio fino a trovarsi a ridosso di un’età in cui riuscirci è molto faticoso se non quasi impossibile”. E poi, aggiungeva, “è indispensabile dare più lavoro alle donne. Quarant’anni fa, nei Paesi nei quali le donne erano impegnate prevalentemente in lavori domestici e i tassi di occupazione erano bassi, la natalità era più elevata. Oggi avviene l’inverso: dove c’è un’occupazione femminile alta si fanno più figli e dove c’è un’occupazione bassa se ne fanno meno. Una famiglia ha bisogno di più fonti di reddito, non può più puntare su un solo procacciatore di risorse”.
“La chiave di volta sono state le riforme che hanno mirato a migliorare la condizione delle nuove generazioni nel mondo produttivo” – spiega oggi Alessandro Rosina – “Si è imboccato un sentiero di crescita e sviluppo attraverso il miglioramento di prodotti e servizi, puntando sul capitale umano e la capacità di innovazione dei giovani. Le aziende hanno iniziato a investire sulle nuove generazioni considerando l’espressione delle loro potenzialità il fattore più importante per migliorare produttività e competitività dell’azienda stessa. Anziché rivedere al ribasso le proprie scelte, si è entrati in una fase di revisione verso l’alto: anziché rinviare e fare un figlio in meno si è stato incoraggiati ad anticipare e farne uno in più. E’ finita così l’epoca della sospensione delle scelte e si è passati a quella della realizzazione e del rilancio”.
Non solo: “Altro grande salto in avanti è stato quello della conciliazione tra lavoro e responsabilità familiari” – continua Rosina – “Numero di figli e partecipazione femminile hanno iniziato a crescere assieme grazie a solidi ed efficaci strumenti di integrazione dei tempi di lavoro e di vita nelle aziende e nelle città. Certo, importanti per la conciliazione sono stati i servizi per l’infanzia e per l’assistenza degli anziani non autosufficienti. Ma ha aiutato molto anche un cambiamento culturale maschile e ai vertici delle aziende. Gli uomini sono diventati sempre più coinvolti positivamente nella cura dei figli, attraverso anche il potenziamento dei congedi di paternità. Le aziende sono diventate sempre più consapevoli che dipendenti appagati e realizzati nella dimensione familiare e nelle scelte di vita sono più responsabilizzati, impegnati e produttivi nell’ambiente di lavoro”.
Così, in un colpo solo, nel tentativo di fermare la spirale della denatalità, siamo tornati a essere un Paese con una forte domanda interna, che innova, che cresce e in cui tutti hanno un’opportunità di realizzarsi professionalmente senza per questo rinunciare a costruirsi una famiglia: “Viene un grande brivido a pensare a cosa saremmo oggi se in questi ultimi decenni anziché cambiare strada avessimo continuato quella che ci stava portando verso un punto di non ritorno”, chiosa Rosina. Già, meno male.
http://www.linkiesta.it/it/article/2016/02/27/italia2050eccocomeabbiamosconfittoladenatalita/29416/ 1/5
(*) direttore responsabile de Linkiesta, articolo tratto da www.linkiesta.it 27/2/2016