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Le disuguaglianze di reddito fanno male anche alla salute

In questi decenni, è andata diffondendosi l’idea che le responsabilità collettive, in materia di giustizia distributiva, riguardino essenzialmente la soddisfazione dei bisogni e il livellamento del campo da gioco, in modo che tutti, a prescindere dalla famiglia in cui nasciamo e dal contesto in cui cresciamo, abbiamo le stesse opportunità di competere a armi pari con gli altri. Fra gli ultimi esempi di quest’atteggiamento possiamo ricordare le parole pronunciate pochi giorni fa da Renzi in occasione della presentazione della legge di stabilità per il 2017. Afferma il Presidente del Consiglio, che certo non è il solo a richiamare questi valori: “ Quale filosofia per il 2017? Merito e bisogno, tenere insieme competitività e equità, una chance a chi prova, una mano a chi non ce la fa”. Esattamente, dunque, interventi a favore di chi sta peggio e opportunità a chi si cimenta nel gioco competitivo.

La struttura della disuguaglianza rimane data. Dare una mano a chi non ce la fa significa, infatti, proteggere dalla povertà chi si trova nella parte bassa della distribuzione, senza intaccare quest’ultima. Similmente, dare chance a chi vuole provarci significa sostenere l’accesso alla struttura esistente delle opportunità. In entrambi i casi, le misure sono rivolte ai singoli, non al contesto complessivo.

D’altro canto, come ben ricorda Elizabeth Anderson, anche una parte non indifferente della filosofia politica contemporanea va in questa direzione. Scrive Anderson (“What is the Point of EqualityEthics, 1999, gennaio, p. 289 trad. mia), “in questi ultimi anni, gran parte del pensiero ugualitarista è stato dominato dall’idea che il compito fondamentale dell’uguaglianza sia compensare per gli effetti negativi della sfortuna, quali essere nati con abilità carenti o nella famiglia sbagliata o avere disabilità e malattie”. Secondo Anderson, occorre, invece, ritornare al carattere politico del progetto ugualitario che è quello di occuparsi della struttura sociale, assicurando che questa rifletta il valore fondamentale dell’uguaglianza morale di considerazione e rispetto, la quale impone di rapportarci gli uni agli altri come uguali.

Anderson porta l’attenzione sul più complessivo compito di porre termine all’oppressione. L’indicazione di occuparsi di struttura include, però, anche il più ristretto ambito delle disuguaglianze di reddito. Non occuparsene, come avviene tipicamente oggi malgrado i frequenti riconoscimenti della loro gravità, rischia di legittimare disuguaglianze che ben poco hanno a che fare con processi basati sul riconoscimento della comune uguaglianza morale, riflettendo, invece, una distribuzione iniqua del potere. Anche ammettendo che chi è più bravo debba ricevere di più, individui che si rapportano come uguali non potrebbero giustificare il diritto a qualsiasi cosa uno possa ottenere. Al contrario, il diritto sarebbe a ciò che si può ottenere entro regole eque di regolazione dei mercati.

Inoltre, non occuparsi di disuguaglianze di reddito potrebbe produrre diverse conseguenze negative che tendono a essere ignorate. Da un lato, la protezione stessa dalla povertà e l’uguaglianza di opportunità potrebbero essere compromesse. Anche se si tratta di mere correlazioni e non di nessi di causalità, i dati esistenti sono molto robusti nell’evidenziare che i paesi dove la disuguaglianza di reddito è più alta sono anche i paesi con meno uguaglianza di opportunità e più povertà (l’unica eccezione, a quest’ultimo proposito, è rappresentata dalla Svizzera). Le possibili ragioni includono difficoltà di sostenibilità politica. Più la società è divisa, più i più ricchi salgono sulla mongolfiera, come nell’efficace frontespizio del Rapporto Ocse (2011) Divided We Stand. Why Inequality Keeps Rising e chi sta appena sotto i ricchi è troppo preoccupato di cadere in basso per prestare attenzione a chi sta peggio. Al contempo, società molto divise perdono i benefici che derivano dalla integrazione tra pari e dei quali vi è ampia documentazione; in ogni caso, più aumenta la disuguaglianza più diventa difficile colmare le distanze. E non va dimenticato che fra i tanti altri mali, vi è quello di intaccare l’uguale diritto al godimento di un bene indispensabile quale è la salute stessa (ovviamente, entro i vincoli dati dalla natura).

E’ appena uscito, in Italia, l’ultimo volume del celebre epidemiologo sir Michael Marmot, La salute disuguale (Il Pensiero Scientifico, 2016). I dati offerti da Marmot sono allarmanti. Certo, in questi ultimi anni, le attese di vita, in aggregato, sono aumentate a livello globale. Ma, come nei due mondi di Dickens, se consideriamo il piano della distribuzione, la visione è assai peggiore. Quaranta anni è l’entità del divario di salute fra il paese dove si vive di più e quello dove si vive di meno. Al contempo, all’interno dei singoli paesi, si registra, ovunque, un gradiente sociale che vede le attese di vita aumentare inesorabilmente al crescere del reddito. Un esempio: a Glasgow, il divario fra chi abita nel quartiere degradato di Calton e chi abita nel quartiere residenziale di Lenzie è di circa venti anni. Aggiungo che la Scozia ha un sistema sanitario nazionale. Altro esempio: le attese di vita a Londra, lungo la linea Jubilee della metropolitana, diminuiscono progressivamente di un anno quando ci si muove da Westminster verso la zona est. La stessa tendenza, peraltro, era già stata rilevata in precedenza a Washington, quando ci si spostava dal centro della città verso Montgomery County, in Maryland. Il divario si accentua ulteriormente qualora, anziché il dato grezzo, si prendano in considerazione le attese di vita libera da disabilità.

Tutto ciò non implica significa negare che la povertà, in sé, conti. Al contrario, come ben argomenta Marmot, chi nasce da una madre povera corre un rischio molto più alto di subire sofferenze già nello stato fetale e le penalizzazioni si cumulano progressivamente nel corso del tempo. Nei primi anni di vita, si rischia di avere meno stimoli, di essere più abbandonati a se stessi e di subire instabilità emotiva se non addirittura abusi. Successivamente si frequentano scuole meno buone e si cresce in un contesto complessivo di scarse opportunità. Il che, quando non si finisce disoccupati, condanna in molti casi anche a opportunità scadenti di lavoro, esse stesse fonti di rischi per la salute. E il ciclo continua con gli eventuali figli.

E non implica neppure che chi sta appena sopra i poveri non sia più svantaggiato, in termini di attese di vita, rispetto a chi sta più in alto. Il rischio di chi ha un basso reddito, pur non essendo povero, di essere occupato in ruoli che non permettono l’esercizio di alcun controllo, né sui processi di organizzazione del lavoro né sulla durata stessa del contratto di lavoro, è molto più alto. Seguendo Marmot, si consideri il magazziniere di una grande rete di distribuzione on line. Il lavoro consiste nell’andare allo scaffale, prendere il prodotto, metterlo su un trolley, e quando il trolley è pieno, portare i prodotti a chi li confeziona, con l’unica compagnia di un dispositivo automatico che registra gli spostamenti e avverte quando si va troppo adagio e, dunque, si accumulano punti di penalizzazione. Ore dopo ore, i medesimi pochi gesti, turni di dieci ore e mezzo, con due pause di quindici minuti e una di mezz’ora, un aggeggio che mai dice “bravo” e una fila fuori di persone pronte a prendere il posto quando si sgarra anche solo di qualche minuto.

Infine, affermare il peso del gradiente sociale nelle disuguaglianze di salute neppure implica attribuire ogni responsabilità alle disuguaglianze di reddito. Com’è evidente nell’esempio appena fatto, centrale è anche la disuguaglianza nel senso di controllo sulla propria vita. Il che apre la porta alla necessità di adottare una visione più ricca della struttura sociale, in termini non solo di modalità di ripartizione delle risorse economiche, ma anche di natura complessiva delle opportunità offerte.

Il punto da sottolineare, però, è che le disuguaglianze nelle attese di vita non penalizzano solo i poveri e chi sta appena sopra i poveri. Penalizzano in modo inesorabile tutti coloro che si trovano in condizioni sociali al di sotto di chi sta meglio. Tale realtà è, peraltro, incompatibile con l’ipotesi della casualità inversa, secondo cui sarebbe la malattia a generare la povertà, invocata da chi mette in discussione il peso dei determinanti sociali. Possiamo forse dire che i lavori mal pagati attraggono solo chi ha minori attese di vita? Sembrerebbe abbastanza fantasioso.

Inoltre, le disuguaglianze nel potere di controllo sulla propria vita sono fortemente associate al potere di dire no che il reddito offre. Dunque, chi ha più reddito ha comunque più opzioni di dire no rispetto a chi ne ha meno.

Ma, se le disuguaglianze di salute seguono i divari di reddito, reclamare più uguaglianza nelle attese di vita non potrebbe portare acqua al mulino degli anti-ugualitaristi, implicando un livellamento alquanto odioso di riduzione della salute dei più ricchi?

Non penso che la risposta possa essere positiva. Non solo, sussistono le altre ragioni cui ho brevemente accennato a favore della riduzione delle disuguaglianze elevate di reddito. Se tali disuguaglianze sono inaccettabili per chi si rapporta agli altri come uguale, allora la valutazione potrebbe essere ribaltata. Sarebbero i più ricchi a godere oggi di vantaggi che sono ingiustificabili anche sotto il profilo della salute. In ogni caso, vi è poi un’altra possibilità, ben delineata nel libro di Marmot, quella di attivare interventi volti a migliorare le condizioni di vita per tutti quelli che si trovano sotto la parte più alta della distribuzione, migliorando proporzionalmente di più le condizioni di chi sta peggio.

Il punto di fondo che va sottolineato è che, anche ai fini della salute, la struttura della disuguaglianza conta. Una ragione in più per preoccuparsi delle recenti evoluzioni in materia di legislazione sul lavoro e per cominciare seriamente a occuparsi di regolazioni più eque dei mercati.

 (*) Professore ordinario di Scienza delle Finanze nell’Università di Roma Tre; articolo apparso su          Etica economia del 15 novembre 2016.

 

 

 

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