La questione salariale nel nostro Paese, travalica i rinnovi contrattuali. Questi si stanno sottoscrivendo, con incrementi salariali che in buona parte recuperano, sia pure in ritardo, l’inflazione accumulata. Semmai hanno messo in evidenza che, nei settori a basso potere contrattuale dei sindacati confederali, l’impegno ad adeguare l’inflazione (accordo Ipca) in corso di vigenza del contratto precedente, non è stato rispettato dal contraente imprenditoriale, facendo anche slittare i tempi dei rinnovi. Lì dove è stato applicato, sta creando qualche frizione nelle trattative in corso, come sta emergendo, per esempio, per il contratto dei metalmeccanici (leggere Uliano).
In ogni caso, le cifre degli aumenti lordi enfatizzano anche la questione fiscale, perché una buona fetta di essi non finisce nelle tasche dei lavoratori ma dello Stato. E questo sta diventando un problema serio, dato che sempre più sono i lavoratori dipendenti e i pensionati a rappresentare la quasi totalità delle entrate statali, essendosi formati regimi privilegiati per tutti gli altri soggetti al prelievo fiscale (leggere Benetti).
In più, va detto che la stagione dei rinnovi nel settore privato si sta caratterizzando, a differenza del recente passato, per una ricchezza di contenuti, anche di nuovo conio, come quello di una diversa e ridotta organizzazione del tempo di lavoro e quello che prefigura primi tentativi di controllo dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale (leggere Chirico). Ciò conferma che la contrattazione resta uno strumento insostituibile di governo dei cambiamenti nel lavoro, soprattutto di quello stabile. E il tutto sta avvenendo senza la tradizionale conflittualità che ha accompagnato quasi sempre queste stagioni, anche perché la situazione economica e quella del mercato del lavoro suggeriscono alle aziende di non cercare lo scontro muscolare, ma di andare al sodo delle questioni sollevate dal sindacalismo confederale.
I rinnovi contrattuali non chiudono la discussione circa la tendenza dei salari italiani ad essere tra i più bassi in Europa (leggere Tronti). In verità, le differenze tra i vari Paesi europei si stanno attenuando. Ma questo processo avviene più per la generale difficoltà a spingerli verso l’alto, che per lievitazione dei livelli più bassi (leggere Zweysen). L’Italia resta comunque giù nella classifica ed è tendenza che viene da lontano ed è destinata a perdurare, se non si affrontano i vari fattori che concorrono a deprimerli. Basta concentrarsi sui principali che sono: la bassa produttività del sistema economico, un mercato del lavoro che fa crescere le diseguaglianze sociali, un sistema di rappresentanza delle parti sociali che compartecipa all’erosione del loro essere autorità salariale.
Negli ultimi venti anni, la capacità produttiva di beni e servizi in Italia non ha brillato per effetto di massicce dosi di investimenti privati e pubblici e quindi per diffuse innovazioni tecnologiche e organizzative. Si è tenuto il passo con gli altri Paesi perseguendo soprattutto il dumping salariale, piuttosto che gli incrementi della produttività che, salvo qualche eccezione, sono stati proprio modesti.
Il PNRR ha tutte le potenzialità per dare una sterzata a questa tendenza sia per gli orientamenti settoriali che privilegia che per la quantità di risorse messe a disposizione. Ma ci sono buone ragioni per temere che diventi un’occasione sprecata, se si continua ad andare a rilento nell’attuazione (ad oggi, solo il 16% delle risorse sono state utilizzate) e a disperdersi in rivoli e rivoletti (si vorrebbero contabilizzare anche le spese in azioni anti abortistiche).
In questo contesto, le indicazioni di Letta e Draghi per il futuro competitivo dell’Europa, appaiono avveniristiche. Ma senza uno sforzo di rinnovamento complessivo nella struttura della produzione, anche i salari sono destinati a procedere a rilento, se non ad arretrare. Gli altri Paesi non stanno fermi e divengono sempre più attrattivi per i nostri giovani professionalizzati.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, proprio il buon andamento occupazionale attuale mette in risalto l’aumento delle differenze di condizioni tra lavoratori (leggere CISL). Cresce il lavoro stabile, ma anche quello precario, incerto, sommerso. Nel lavoro stabile corre il salario (e migliori condizioni di lavoro, per l’irruzione della maggiore sensibilità alla qualità della vita) delle professionalità più ricercate o più rare; per quelle più generiche, la compressione non è soltanto prodotta dalla maggiore disponibilità di persone, ma anche dalle maggiori possibilità di paghe basse legalizzate (part time involontario, contratti pirata, subappalti incontrollati).
A quest’area di lavoratori, bisogna aggiungere quella del lavoro instabile, anch’esso in aumento e sottratto alla tutela contrattuale. E’ un settore del mercato del lavoro in netta concorrenza, specie nei servizi alle imprese e alle persone, con le attività che rispettano leggi e contratti. Anche se si introducesse il salario minimo legale, lo svuotamento di questa sacca di sfruttamento non sarebbe garantito. Occorre ben altro e fondamentalmente una strategia di ricomposizione del mercato del lavoro. Se non si interviene, la sua frantumazione non può che generare ulteriore insicurezza, incertezza, miseria.
Così si viene alla terza questione: la qualità della rappresentanza delle parti sociali. E’ fuori discussione l’importanza dei corpi intermedi. La breve stagione della disintermediazione è morta e sepolta. Ma è da archiviare anche la fisionomia novecentesca dell’associazionismo rappresentativo dell’intero mondo del lavoro (leggere Megale). A partire dalla questione salariale. Dal lato dell’imprenditoria grande e piccola, una rappresentanza che ha digerito, in un tempo fin troppo lungo, la normalità della contrattazione, come modus vivendi della comunità produttiva, non può avere come proprio obiettivo fondamentale e quasi mossessivo quello di pagare meno tasse, quasi a compensazione dei maggiori salari da assicurare. La nuova dirigenza della Confindustria è chiamata a dare una prospettiva più strategica al ruolo delle imprese e convincersi che alti salari significa anche maggiore spinta alla crescita della produttività e con essa al benessere dell’impresa e del Paese.
Dal lato della rappresentanza dei lavoratori è assurda la scissione che si sta affermando nelle grandi confederazioni: unitarie nella contrattazione, distinte se non contrapposte sulle politiche generali. Il rischio è grande. Si potrà avere anche la migliore contrattazione possibile ma acquisterebbe sempre più una connotazione di parzialità se non addirittura corporativa. Se la crescita della massa salariale dipende dalla produttività e dalla ricomposizione del mercato del lavoro, soltanto una guida veramente confederale può generare una cornice negoziale e istituzionale capace di incidere sulla realtà ed indirizzarla verso gli obiettivi più futuribili. Una concertazione stabile nel tempo tra parti sociali e governo, può assicurare che la contrattazione sviluppi spazi sempre più significativi di partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche aziendali.
Invece, il privilegio che si sta affermando per le questioni identitarie di ciascuna confederazione, porta ad un indebolimento della capacità di incidere sulla qualità del cambiamento. La logica della “ditta” ha già fatto vittime illustri in politica, specie a sinistra. Non può trascinare anche il sindacato, in una pratica di pura sopravvivenza, mentre servirebbe come il pane il suo contributo culturale, partecipativo e unitario all’evoluzione di una società più matura.
In definitiva, la questione salariale è magna pars di un riformismo moderno ed europeo. Esso non può attuarsi senza una spinta sociale forte ed autorevole e soltanto dopo, può essere fatta propria anche dalle forze politiche più sensibili alle esigenze di uguaglianza e solidarietà. Senza le forze sociali in campo, le riforme strutturali, specie in economia, non si realizzano al meglio. Per ora è bene non etichettarle. Ma richiamare tutti a confrontarsi e pensare in grande sarebbe un concreto ed apprezzabile contributo alla rivitalizzazione della democrazia e della partecipazione nel nostro Paese.