Vi saranno cambiamenti nella globalizzazione nell’era di Trump? Intanto mercoledì prossimo al Parlamento europeo, a Strasburgo, si discuterà del CETA (Accordo economico e commerciale globale con il Canada). Un accordo molto discusso. Di tutto questo parliamo con Monica Di Sisto, giornalista di ASKANEWS, vicepresidente dell’Associazione Fairwatch, che si occupa di commercio internazionale e di clima da oltre 10 anni. Insegna Modelli di sviluppo economico alla Pontificia Università Gregoriana di Roma.
Partiamo da Donald Trump. Con lui torniamo indietro di decenni su molti fronti. Anche su quello dei trattati internazionali del commercio. Infatti ha stoppato l’accordo Trans-Pacifico, poi sarà l’ora del Ttip (ma la trattativa, ormai, è su un binario morto) e del Nafta. Insomma siamo nell’era del protezionismo galoppante?
Se non vogliamo essere ideologici, dobbiamo intenderci sulle parole. Gli Stati Uniti di Obama erano protezionisti: bloccano da oltre 15 anni qualsiasi negoziato nell’Organizzazione Mondiale del Commercio per non consentire a Cina, India, Brasile e Russia, di guadagnare uno spazio commerciale globale pari al proprio. Se analizziamo i livelli di dazi americani a protezione del loro mercato interno, sono molto più alti di quelli europei. Se analizziamo il livello di sussidi alla produzione interna, che da sempre rafforzano la posizione degli Usa nel mercato globale, sono altissimi soprattutto in ambito agricolo. Ricordo che su questo Obama ha perso una causa esemplare al Tribunale della Wto contro il Brasile, proprio perché i sussidi ai produttori Usa del cotone sono stati riconosciuti come lesivi della concorrenza. Il programma “Buy American” di Obama, che premiava le imprese nazionali nelle gare e negli appalti rispetto alla concorrenza internazionale, che cos’era se non un complesso di misure protezionistiche? Anche il NAFTA, il TTIP e il TPP servivano a garantire ai firmatari condizioni commerciali favorevoli rispetto al resto dei concorrenti globali nei mercati di riferimento, cioè centro-nord americano, atlantico e pacifico. Erano misure protezionistiche a geometrie variabili, a leggerle con le categorie della retorica economicista.
La domanda vera da porsi, a mio avviso, è: come impattano le condizioni sociali e ambientali dei territori coinvolti? Il “Buy american” ha garantito una ridensificazione produttiva e un miglioramento delle condizioni sociali di molti distretti industriali americani che erano stati annientati dall’apertura dell’area di libero commercio tra Usa, Canada e Messico attuata dal Nafta. Secondo me, dunque, era una buona politica. Se il Nafta venisse superato da una politica, o da un complesso di misure, che portasse i neoschiavi messicani fuori dalle zone di produzione per l’esportazione promosse dal Nafta, promuovendo un modello industriale più diffuso e sostenibile nel Paese senza precipitarlo nella deindustrializzazione, sarebbe cosa buona e giusta. Se sarà Trump o Ronald Mc Donald in persona a farlo, personalmente non credo, ma mi interessa il giusto. E’ quello il vero obiettivo: come utilizziamo l’economia e tutti i suoi strumenti, anche quello commerciale, per stare tutti meglio, e perché i diritti di tutti siano rispettati. Voglio parlare di fatti e impatti, gli slogan in un secolo complesso come questo non aiutano.
La Cina come reagirà di fronte a questi provvedimenti?
La Cina si è già presentata al Forum economico di Davos come campionessa della globalizzazione neoliberal e come antidoto al trumpismo. C’è da sorridere. Il modello cinese è quello di un capitalismo di stato talmente controllato da consentire a un investitore straniero di operare sul proprio territorio solo in presenza di una partnership con un soggetto locale. Altro che liberismo! A livello di commercio internazionale se c’è un Paese che, secondo i report dell’Organizzazione mondiale del commercio sul dumping, infrange tutte le regole di liberalizzazione che pure ha sottoscritto pur di mantenere la propria competitività, è la Cina. La Cina ha introdotto il salario minimo, con grande capacità di visione e di coraggio, che è una delle misure che gli Stati Uniti ancora nemmeno osano immaginare proprio per colpa del mantra condiviso della libertà dell’azione economica. Io credo che l’approccio economico cinese al tempo presente sia più strategico di quello europeo, molto interessante, zero ideologico. Ma se qualcuno crede alla sceneggiata di Davos, dovrebbe leggersi il Piano statale quindicennale di programmazione economica del Partito comunista cinese. Io lo trovo una lettura istruttiva sulla distanza tra retorica e realtà.
Ci sarà una riforma del WTO?
In tanti lo auspichiamo da molti anni. Personalmente, vorrei che l’Organizzazione mondiale del commercio rientrasse nel sistema delle Nazioni Unite, e che ponesse in tutti gli accordi che promuove almeno sullo stesso piano, se non su um piano superiore, il rispetto dei diritti umani universali, dei diritti dell’ambiente, dei diritti del lavoro, rispetto alle esigenze del commercio. Ad oggi gli unici principi che animano la Wto sono quelli della concorrenza leale e della non distorsione del mercato globale. Vi chiedo: se un prodotto fa male, va prodotto e commerciato? Io credo di no, e credo che, nel secolo di Amazon, ci debba essere un’istituzione globale che garantisca tutti gli abitanti del pianeta che esso sia bandito da ogni mercato. Se un prodotto inquina, va commerciato? In un pianeta sporco e invivibile come il nostro, io credo di no, e credo che ci debba essere un’istituzione che garantisca a tutti gli abitanti del pianeta che esso sia bandito dal mercato globale. Se un prodotto è fatto bene, è realizzato rispettando i diritti di chi lo fa, di chi lo consuma, dell’ambiente, crea occupazione e benessere, deve avere un trattamento ‘di favore’ nel mercato globale, perché magari produrlo costa di più, per renderlo accessibile a più persone possibili in tutto il pianeta? Io credo di si. Il fatto che la Wto, con le sue regole, renda di fatto illegale ciascuna di queste tre cose di buon senso, dimostra come sarebbe urgente che i Paesi che ne fanno parte vi ponessero seriamente mano.
Parliamo dell’Europa. La UE sarà ancora più debole con la Brexit. Il Regno Unito, sicuramente, farà accordi con gli USA. E questo non pensi che porterà danno ai paesi UE? Quale strada dovrebbe seguire l’Ue?
La Brexit è una ferita dolorosissima. Personalmente l’ho molto sofferta, ma non va letta come causa del disastro europeo. La Brexit è un sintomo del fatto che Bruxelles non adotta politiche positive e inclusive tali da far sentire tutti noi a casa, in Europa. E per me Europa vuol dire almeno bacino mediterraneo…
Sono un’europeista convinta, ma affranta. Quando puoi forzare le strette maglie di una coesione economicista come quella fondata sul debito solo quando subisci un terremoto, e non puoi farlo per intervenire, ad esempio, sulla prevenzione e sulla pianificazione, c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che non va se Bruxelles decide che una vongola è vendibile solo se supera un tot di millimetri, se una pesca è vendibile nel mercato comune solo se pesa un tot, senza nessun’altra considerazione qualitativa o di protezione della biodiversità, e così decidendo si sbattono sul lastrico centinaia di migliaia di produttori piccoli, che magari sono proprio quelli che il territorio te lo curano e te lo proteggono. E’ questo il punto: se Bruxelles – non l’Europa, perché l’Europa siamo anche tutti noi che la vorremmo diversissima da com’è – reagisce alla Brexit accelerando, tra l’altro, l’agenda commerciale attuale che sta inasprendo la competizione internazionale, facendo invadere il mercato europeo da prodotti a più basso costo economico ma che danneggiano persone e ambiente, abbassando i costi di produzione interne, in primis quelli legati a stipendi, welfare, qualità e ambiente, dà la risposta sbagliata alle aspettative e ai sogni dei propri cittadini. A quel punto non ci sarà nessuna ragione, che non sia geopolitica, di massa critica, per tenerla in piedi. Ma per quello c’è anche la Nato: siamo davvero ridotti solo a questo?
Adesso, il prossimo 15 febbraio, il parlamento di Strasburgo voterà per il CETA. Tu hai espresso un giudizio duro su questo trattato. Perché? Quali i pericoli? Il Trattato non è un modo per combattere l’isolazionismo protezionista di Trump?
Trump non è isolazionista: vuole espandersi nel mondo alle proprie regole. Incontrare i partner faccia a faccia, stringere accordi bilaterali rapidi, dove i vantaggi per gli Usa siano chiari, così ha detto il suo nuovo capo negoziatore, che arriva dallo staff di Reagan, un campione del liberismo. Per questo ha messo in stand by il TTIP ma non l’ha cancellato: prova a capire se, stringendo un accordo vantaggioso con la Gran Bretagna, non riesca a costringere la Commissione europea ad accettare un TTIP ancora più sbilanciato sugli Usa.
Il Canada ha fatto lo stesso, e lo ha ammesso con i quotidiani nazionali la sua ministra al commercio: quando la regione belga della Vallonia ha chiesto alla Commissione europea di bloccare il CETA, Chrystia Freeland ha lasciato immediatamente Bruxelles: “Abbiamo deciso che era davvero importante non andarcene via da arrabbiati, perché volevamo che i Valloni fossero colpevolizzati”, ha detto testualmente al “Globe”(1). “Sapete, noi siamo canadesi, per la gente siamo gentili, grandi, quindi il tono che abbiamo scelto era più di dispiacere che di rabbia. Questa modalità ha creato una crisi e ha trasformato questo in un loro problema. Nelle 24 ore successive, sapete quanti politici europei mi hanno chiamato per chiedermi di non andarmene?”. Questo è il livello di affidabilità dei nostri partner commerciali che dovrebbero farci da argine a Trump.
Il primo ministro canadese Justin Trudeau, appena Trump è stato eletto si è congratulato pubblicamente per la scelta in virtù dei “comuni valori” dei loro governi, e lo ha di nuovo ringraziato per aver dato il via libera all’oleodotto Keystone XXL bloccato da Obama perché avrebbe accelerato la lavorazione di sabbie bituminose che lui considerava nemiche della sua “rivoluzione verde”.
Oltre a queste considerazioni politiche “di contesto”, già abbastanza decisive per smontare la bufala del “si al CETA” come strumento anti-Trump, vorrei provare a convincere quei parlamentari che vogliono votare, nel centro e a sinistra del Parlamento europeo, si a un trattato così sbagliato senza averlo mai letto, di non fidarsi della propaganda che stanno subendo da parte della Commissione Europea.
Un foglietto che circola tra i loro banchi, e che rinviano via email alle migliaia di cittadini che da mesi scrivono ogni giorno da tutta Europa per chiedere di fermare il CETA, li convince con delle falsità che vorrei smentire.
C’è scritto che con il CETA gli europei risparmieranno 500 milioni di euro in tariffe doganali. Non è vero. Saranno soltanto le aziende che esportano in Canada ad avere questo vantaggio, che in verità è piuttosto risibile se rapportato al valore degli scambi tra Ue e Canada,che già oggi ammonta a più di 50 miliardi di euro. Il CETA però sottrarrà agli Stati europei ben 331 milioni di euro di dazi riscossi fino ad oggi sulle merci in arrivo dal Canada. Questo a fronte di un aumento di Pil che – al lordo della Brexit di cui la Commissione non ha mai calcolato l’impatto sul trattato – per l’Europa, in dieci anni, vale tra lo 0.003% e lo 0.08% e per il Canada tra lo 0.03% e lo 0.76%.
La Tift University statunitense ha calcolato che il CETA provocherà una perdita media di reddito da lavoro media di 615 euro tra tutti i lavoratori UE, con punte minime di -316 euro fino a picchi di -1331 euro in Francia, e la distruzione di 204mila posti di lavoro, dei quali circa 20 mila in Germania e oltre 40 mila sia in Francia sia in Italia.
Si dice che le imprese europee aumenteranno le proprie quote d’accesso negli appalti pubblici canadesi. Ma quante imprese italiane, che sono in gran parte piccole e medie, saranno in grado di parteciparvi? Quello che è certo è che le amministrazioni pubbliche avranno ancora più difficoltà, dopo il CETA, clausole premiali che avvantaggino le imprese del loro territorio.
Triplicheranno le quote di importazione di grano d’oltreoceano, che in Canada è pesantemente trattato con il diserbante glifosfato, riconosciuto come tossico anche dall’Ue, e che, a causa dell’umidità e delle basse temperature canadesi, sviluppa micotossine nocive per l’uomo.
Aumenteranno le quote per latte e carne da un Paese in cui gli animali vengono trattati con ormoni della crescita, vietati in Europa. Anche se nominalmente il Canada rispetta il principio di precauzione, insieme agli Stati Uniti si appellò contro il bando degli ormoni negli allevamenti, introdotto dall’Ue presso l’Organismo di risoluzione delle dispute della WTO, e vinse proprio perché la WTO dichiarò che un concetto come la precauzione, anche se riconosciuto nella legislazione ambientale internazionale, non era rilevante ai fini commerciali. L’Europa, per mantenere il bando, fu condannata a riconoscere a Usa e Canada delle compensazioni.
Per la prima volta nel trattato col Canada viene introdotta una “lista negativa” per i servizi pubblici, cioè un sistema in cui tutti i servizi non esplicitamente menzionati nella lista vanno aperti a gara cui si ammettono anche gli operatori canadesi.
Per la prima volta nel CETA si introduce una Corte sovranazionale costituita da arbitri commerciali in cui un’impresa o un investitore canadese che si sentissero danneggiati da una legge in vigore in Europa, potrebbero farci causa e chiederne la revoca. Per di più, dopo il Ceta, l’UE dovrà consultare il Canada (e viceversa) prima di introdurre nuove leggi o regolamenti che influenzino il commercio tra le due sponde dell’Atlantico, e dovrà attendere i “consigli” di tutti i portatori d’interesse prima di definirne l’articolato.
A queste e molte altre preoccupazioni, la Commissione europea e il Governo canadese, pur di chiudere in fretta la partita, hanno risposto elaborando una Dichiarazione congiunta nella quale assicurano, sotto la propria responsabilità, che nessuno di questi pericoli è concreto, che gli Stati manterranno la loro capacità attuale di regolare e le imprese non saranno in alcun modo preferite ai cittadini. Peccato che molti pareri autorevoli , uno tra tutti quello dell’esperto Simon Lester dell’ultraliberista Cato Institute, convergono nel parere che “chiunque abbia preoccupazioni e sia rassicurato da questo testo, sa poco di legge” perché la dichiarazione “vale poco più di un comunicato stampa”.
A me sembra abbastanza per respingere un trattato che rimodella la filiera delle regole sui meri interessi commerciali delle due parti dell’Atlantico, e che non mette niente in tasca a nessuno se non a piccoli gruppi d’interesse ben rappresentati a Roma e a Bruxelles.
La globalizzazione, pur con i suoi gravi limiti, è stata comunque una occasione di crescita per l’umanità. Adesso nell’era sovranista c’è la voglia di costruire “muri” di ogni genere con quello che ne consegue. Insomma è possibile una nuova globalizzazione?
Io sono refrattaria a parlare di nuova globalizzazione. Il sovranismo è la risposta a mio avviso più caotica alla mancanza di una governance intelligente di un fenomeno che è parte del genere umano: conoscere e incontrarsi, riconoscersi e definire lo spazio intorno a partire da se’. La globalizzazione è quello che è: da Marco Polo a Colombo fino a internet, è sempre stata cultura, economia, pensiero, passione, competenze. Oggi è la “contemporaneità” la vera sfida, la eterna presenza, l’accelerazione. Rileggere le nostre identità nella velocità è faticoso, e quando i contorni si fanno più labili, è molto umano che c’è chi si voglia fermare, chi ridisegnare i propri confini, chi, invece, fondersi. Sono impatti materiali che vanno governati. Al momento chi è riuscito a farlo sono solo alcune identità forti, pervasive: dagli archi d’oro del panino, ai bit della digital-economy, alle filiere del “vedo, compro, ricevo” e così via, offrono identità portabili, comprese nel prezzo. Ciascuna le offre modellate sui propri interessi. Ma questi vettori che attraversano il mondo lo stringono in maglie sempre più strette: le identità che disegnano per noi riducono lo spazio vitale di ciascuno perché lo costringono nei pochi vuoti rimasti tra i loro intrecci. Come questo spazio, invece, si possa riallargare sulla base di un nuovo patto sociale da ridisegnare non pensando a roccaforti, fossati e confini, ma a partire da una comunità politica, cioè abitante le città, pensante e senziente, che parte da un sé globale ma non indistinto, e rimette l’economia al posto che le compete. Al servizio di un progetto umano condiviso e biodiverso, che potrebbe essere decisivo per riportare pace e benessere a questa nostra martoriata comunità umana.