Due sono le condizioni orizzontali indispensabili per avviare il Piano Draghi: gli investimenti e la governance. E non sono separabili: chi dice sì al Debito comune deve fare anche le riforme per un’Europa più integrata. Più investimenti e più Europa sono due facce della stessa medaglia. L’analisi di Draghi è chiara e allarmante: non c’è futuro per l’Ue senza cambiamenti profondi, senza un balzo in avanti. Ciò significa: debito comune, riforme e una visione globale (non un’Europa à la carte dove ognuno sceglie ciò che preferisce) per superare i freni alla crescita.
Investimenti e governance: cioè risorse (dai 650 agli 800 miliardi all’anno), riforme per un’Europa più forte e più sovrana con nuove modalità di decisione comune. Vale per i tedeschi, allergici al debito comune, ma vale anche per i vari sovranisti allergici a una maggior integrazione europea. Il debito comune non è una novità. Abbiamo alle spalle il Piano Juncker (pur limitato a prestiti e garanzia che tanti benefici ha portato all’Italia), il piano Invest-Eu ma soprattutto il programma «Sure» per proteggere i lavoratori e il Next Generation Eu, con l’emissione di titoli di debito sul mercato privato, coperti da garanzia europea.
La prospettiva di questa proposta è tanto più necessaria ora che è entrato in vigore il nuovo Patto di Stabilità e Crescita e a presidiare le regole ci sarà un Commissario rigorista come il lettone Valdis Dombrovskis. Molti Stati membri, e l’Italia tra questi, non hanno margini di bilancio per fare investimenti, dalla difesa alla intelligenza artificiale, alle tecnologie Verdi.
Nella proposta di debito comune del piano Draghi, ci sono due rilevanti novità che nel dibattito sono state trascurate e che è bene invece che in tutte le capitali siano comprese a fondo. La prima: le risorse (i famosi 600/800 miliardi) sono sia pubblici che privati. Non si chiede all’Europa di indebitarsi per quella somma, si chiede all’Europa di mettere risorse proprie, ma anche di riuscire a mobilitare i capitali privati con le opportune «mosse» (norme come l’Unione dei Mercati dei Capitali, vantaggi fiscali, incentivi, Partnership Pubblico-Privato, ecc.).
Una prospettiva tanto più concreta quanto riusciremo a realizzare il completamento del Mercato unico proposto dal rapporto Letta. Anche la finanza è chiamata a fare la sua parte di fronte a questa sfida, spingendo i detentori di capitali a investire nell’economia reale piuttosto che nella speculazione finanziaria. Il debito comune sarà anzi un volano utile per mobilitare il capitale privato e sarà un asset importante per questo nuovo mercato.
La seconda novità: gli investimenti del debito comune non saranno rivolti a singoli interventi nazionali (come in Ngeu che non ha visto progetti transnazionali), ma dovranno indirizzarsi a progetti di livello europeo, per scala di grandezza, per importanza e per ricaduta su tutta l’economia europea come gli Ipcei (Important Project of Common European Interest), grandi progetti di interesse comune europeo. È ormai evidente che gli interventi solo a livello nazionale non raggiungono la scala adeguata allo slancio che serve alla competitività dell’economia, né nel campo del digitale, né in quello della difesa o nelle tecnologie verdi per la transizione del nostro sistema industriale, di mobilità e per la decarbonizzazione.
Lo stesso si può dire per le reti energetiche, per le infrastrutture della mobilità e per la nascita di «campioni» nei settori strategici e altamente innovativi, se non vogliamo perdere la sfida con le grandi potenze economiche su scala mondiale in tutti i campi.
Occorre perciò un salto di qualità anche nella visione dei governi nazionali per capire che i vantaggi e le ricadute positive di questi «beni comuni europei» sostenuti dal debito comune sono per tutti, sia per i Paesi grandi come per quelli piccoli o per quelli «che credono di essere grandi» mentre stanno diventando piccoli.
Sul piano della governance e delle riforme si dovrebbe partire dalla strada maestra della riforma dei Trattati, comunque da avviare, sapendo che è una strada lunga e complessa. Possiamo dunque, con pragmatismo, imboccare da subito la strada dell’intesa politica che dipende dalla volontà degli Stati nel Consiglio, affiancati dalla Commissione e sostenuti dal Parlamento, di cooperare per una maggiore unità nelle scelte e nelle procedure decisionali. È una strada «di fatto» ed è l’unica immediata. Tutto questo è utopia e realismo allo stesso tempo.
Siamo di fronte al rischio di perdere la nostra ambizione di Europa come potenza nel mondo, come continente di crescita e prosperità e come modello di welfare e inclusione. Non è la gara mondiale a chi ha più soldi e potere che conta, ma la competizione tra valori e modelli politici ed economici radicalmente diversi. Se vogliamo difendere in Europa, e affermarlo a livello globale, il nostro modello politico, economico e sociale basato su diritti, libertà, giustizia sociale, democrazia e pace allora con coraggio e pragmatismo dobbiamo tentare il tutto.
*da Corriere della Sera 02/10/2024