L’immagine che noi abbiamo della Germania è quella di un sistema economico solido, basato sull’alta qualità della produzione di beni e servizi. Dentro un’organizzazione del lavoro molto strutturata la regola è quella di elevate retribuzioni corrisposte a dipendenti che dispongono di un sistema di protezione sociale elevato, tra i più robusti al mondo. Tutto ciò può essere riassunto in un costo del lavoro orario che secondo l’Eurostat era nel 2016 in media nei settori privati, esclusa l’agricoltura, per le imprese con almeno dieci addetti di 33 euro l’ora (di cui 26 euro di retribuzione);[1] a fronte di questa vi sono naturalmente una produttività elevata, una straordinaria attenzione all’educazione di base e alla formazione continua, una grande capacità di ricerca e innovazione, che mantengono elevata la competitività del sistema.
Tutto ciò è naturalmente vero; o meglio si dovrebbe dire che questa è la verità prevalente, anche se non rappresenta tutta la realtà del paese. Vi è in Germania, perfino in Germania, come naturalmente in tutti gli altri paesi, in primis nel nostro, una parte del sistema economico decisamente più in ombra, in cui le condizioni produttive sono molto più modeste con a fronte un lavoro più precario e meno remunerato. L’importante è che tra queste due parti del paese non vi sia troppa distanza e possibilmente questa distanza non cresca nel tempo, anche in conseguenza di un’innovazione tecnologica che tende a polarizzare tra coloro che ce la fanno e coloro che restano indietro. Di fronte ad una realtà duale si può provare ad uniformare i trattamenti avendo l’idea che un meccanismo di selezione darwiniana costringe tutti ad andare più veloce, premiando quelli che sono capaci di stare in piedi e lasciando semplicemente fuori mercato gli altri. Regole, dunque, solo a misura delle “lepri”, che possono permettersi di dimenticare le parti del sistema economico, che somigliano più a “tartarughe”.
I numeri
In Germania non hanno fatto così ed hanno preso atto ad un certo punto dell’esistenza di quote del sistema economico più lenti e in difficoltà. Ci si è posti allora il problema di mantenere un grado accettabile di coesione sociale dentro una struttura economica dualistica, che tende a portare nell’economia sommersa o, semplicemente, a far scomparire le parti più deboli.
La nascita dei mini-job risponde a mio avviso ad un’esigenza di questo genere. L’espressione tedesca dice esplicitamente che si tratta di impieghi marginali, a bassa retribuzione, mentre il termine mini-job tende un po’ a mimetizzarlo. Si parla di impieghi che non possono superare oggi i 450 euro al mese, con tutele sociali decisamente meno robuste di quelle che il sistema ordinariamente conosce. In linea di massima – ma la casistica, come si vedrà, è complessa – si tratta di rapporti di lavoro (pressoché) esenti da tasse e contributi previdenziali da parte del dipendente, mentre per il datore di lavoro l’onere è ridotto, ma non in tutti i casi. E oggi i mini-job sono tutt’altro che trascurabili. Secondo le ultime rilevazioni delle statistiche ufficiali a dicembre 2016 vi erano in Germania circa 6,7 milioni di mini-job nel settore produttivo, in cui erano impiegati 4 milioni di donne e 2,7 milioni di uomini. A questi si devono aggiungere circa 300 mila addetti nel lavoro familiare.[2] Naturalmente si tratta di impieghi con un orario ridotto; sulla base del salario minimo di legge non si possono superare le 51 ore al mese. Dunque, riportando la cifra a tempo pieno, i valori si ridimensionano nettamente, ma si tratta pur sempre di un numero di persone molto alto che per ragioni di stretta necessità di reddito oppure anche per arrotondare il potere d’acquisto, proprio o della famiglia, decide di svolgere un’attività di lavoro. La distribuzione dei mini-job per classe di età secondo le statistiche ufficiali è a forma di U, ovvero le classi più numerose riguardano i più giovani, fino ai 30 anni, e poi le classi di età più anziane; quasi un milione di persone con i mini-job ha più di 65 anni. Le età intermedie, quelle tipiche del lavoro centrale, sono meno rappresentate, a rafforzare l’immagine dei mini-job come in prevalenza di completamento, piuttosto che di attività primaria. Tra i settori produttivi il maggior numero di impiego è nel Commercio e riparazioni (1,2 milioni di mini-job a dicembre 2016), poi i Servizi vari alle imprese (0,8 milioni), Turismo, alloggio e ristorazione (0,8 milioni), Sanità e servizi sociali (0,7 milioni), Industria manifatturiera (0,5 milioni).
Le analisi sembrano suggerire che si tratta di quote di occupazione a forte rischio di immersione nell’economia informale. Nel 1999, infatti, il governo tedesco limitò il ricorso ad uno strumento preesistente analogo ai mini-job. Questo portò alla scomparsa di molta parte di questa occupazione, valutata nel 1999 in 6,5 milioni di rapporti. Che magicamente e massicciamente tornò sulla scena con la nuova normativa. I dati evidenziano che a settembre 2002 erano registrati 4,1 milioni di dipendenti in forme di occupazione marginale; cifra balzata a 7 milioni nel corso del 2004 con le nuove regole.[3]
I mini-job e la riforma Schröder
I mini-job sono nati, dunque, in Germania sull’onda delle riforme del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali nei primi anni dopo il 2000 per rispondere alla bassa crescita del PIL e all’aumento strutturale della disoccupazione. Le riforme sono state attuate dal 2003 al 2005 dal Cancelliere socialdemocratico Schröder e costruite sulla base delle proposte di una Commissione istituita nel febbraio 2002, composta da 15 personalità della politica, dell’economia, dei sindacati e del mondo accademico, denominata Commissione Hartz, dal nome del presidente, Peter Hartz, membro del consiglio d’amministrazione della Volkswagen. E’ stato definito allora un nuovo sistema di politiche del lavoro con le quattro leggi Hartz, che comprendeva, tra l’altro, la riforma dei servizi pubblici per l’impiego, la definizione di nuove regole per la titolarità dei benefici, la rimodulazione dei sussidi di disoccupazione e di assistenza sociale, la riduzione dei vincoli all’utilizzo del lavoro interinale e dei contratti a tempo determinato, gli incentivi al lavoro autonomo e alla creazione di nuova occupazione. La Riforma di Schröder complessivamente riduceva la regolamentazione del mercato del lavoro e costruiva un sistema destinato ad incoraggiare la persona in cerca di occupazione e a favorirne la ricerca dell’impiego. Tra queste misure vi era anche l’ampliamento dell’offerta di lavori marginali per studenti e pensionati da ottenere abbassando le aliquote contributive per le occupazioni con redditi fino a 800 euro.[4] L’obiettivo dei mini-jobs era quello di aumentare la domanda legale di mansioni poco qualificate, ad esempio nel settore del commercio al dettaglio o dei servizi di pulizia, generalmente svolte nell’economia sommersa. Questo era pensato soprattutto per l’occupazione delle fasce più svantaggiate del mercato del lavoro.
L’introduzione dei mini-job ha, però, successivamente necessitato nel 2015 l’introduzione del salario minimo di legge, fissato a quel tempo a 8.50 € l’ora. Si trattava, infatti, di contrastare una tendenza, insita probabilmente nello strumento stesso e aggravata dalla crisi, verso le basse retribuzioni per queste fasce di occupazione. La definizione di un minimo legale era la misura principale negoziata due anni prima tra i socialdemocratici e la signora Merkel per la nascita del nuovo esecutivo di Grosse Koalition. Il salario minimo per legge è stato, dunque, introdotto per evitare un ulteriore peggioramento della distribuzione del reddito determinato dai mini job. Si era visto, infatti, che era cresciuta e si manteneva su livelli molto alti la differenza tra la media delle retribuzioni e il primo decile delle retribuzioni, cioè la media del 10% dei redditi da lavoro dipendente più bassi.[5]
Gli studi della Fondazione di Dublino e dell’OCSE mettono in evidenza luci ed ombre del sistema dei mini-job. [6] Sembrano, infatti, confermare che il sistema ha favorito l’aumento dell’occupazione avutasi a partire dalla Riforma di Schroeder ed il corrispondente calo della disoccupazione. A parte il breve periodo dello scoppio della crisi del 2009, il tasso di disoccupazione si è ridotto sensibilmente dopo il 2005. Il tasso di occupazione è cresciuto in Germania secondo i dati OCSE di nove punti nel complesso tra il 2005 e il 2016 e di 11 punti per le donne. Il tasso di disoccupazione è passato dall’11% della forza di lavoro nel 2005 a meno del 4% più recente. Gli imprenditori rilevano che i mini-jobs e le occupazioni a basso reddito sono necessari per aumentare le opportunità occupazionali delle fasce di lavoro più svantaggiate, che vanno a coprire impieghi a più bassa produttività. Diversamente, quelli che lavorano nei mini-job non sarebbero occupati, almeno con un lavoro regolare. Il sindacato tedesco imputa alla Riforma Schroeder la scarsa qualità dei posti di lavoro che sono stati creati. Questo sarebbe parzialmente confermato dalla stessa Fondazione di Dublino che, sulla base di ricerche condotte in Germania, rileva come non sia cambiata significativamente la quota di occupati standard, ma come sia aumentata molto la quota dell’occupazione non standard, compresi i mini job; secondo tali ricerche, dunque, non sembrerebbe che vi sia stata una sostituzione di occupazione stabile con occupazione precaria, ma di creazione di occupazione aggiuntiva a più basso reddito.
D’altra parte, secondo le statistiche ufficiali, solo il 18,2% di coloro che ha un mini-job nel settore produttivo ha una copertura previdenziale e la percentuale si abbassa al 14,3% nel lavoro domestico. Naturalmente trattandosi di redditi molto bassi e di aliquote generalmente inferiori alla norma, si dà luogo ad accreditamenti contributivi modesti, destinati a tradursi, se non rafforzati da altre fonti, in pensioni insufficienti.
Il mini-job sembra, sempre secondo la Fondazione di Dublino, funzionare come passaggio intermedio verso il mercato del lavoro regolare e occupazioni a retribuzioni più elevate. Altre ricerche indicherebbero che serve ad attenuare il rischio di caduta in una condizione di povertà; il 57% di coloro che, prima di entrare in un’occupazione a basso reddito, sono esposti al rischio di povertà esce da tale condizione contro il 6,4% che era sopra la linea di povertà e che con la nuova situazione cade sotto la linea. [7] D’altra parte, però, gli occupati nei mini-job sono più esposti al rischio di povertà quando si ritirano dal lavoro o se perdono l’occupazione. Ciò è dovuto al fatto che hanno ridotti crediti pensionistici e non hanno accesso ai benefici dell’assicurazione contro la disoccupazione. [8]
La massiccia presenza delle donne tra i mini-jobber è spiegata dall’OCSE con la particolare struttura dell’imposizione fiscale in Germania, che prende a riferimento la media dei redditi della famiglia piuttosto che il reddito individuale. Se la coppia passa da monoreddito a bireddito, con i normali rapporti di lavoro, il reddito aggiuntivo viene sottoposto ad aliquote fiscali marginali elevate, mentre non vi sono particolari benefici per la copertura sanitaria, perché questa è assicurata anche da un solo reddito. Invece, se l’impiego del secondo coniuge è con il mini-job, questo secondo reddito sarà pressoché esente per il fisco e si potranno evitare i costi aggiuntivi della contribuzione sanitaria, mantenendone i benefici in capo al reddito principale. [9] Più in generale optare per il mini-job può avere, dunque, in Germania solide motivazioni fiscali per chi ha una seconda attività o un secondo reddito (pensionati); serve ad arrotondare il budget senza particolari oneri. Questo spiega, perché lo strumento è più diffuso nella Germania Ovest piuttosto che nella parte orientale.
Come funzionano
I mini-job in Germania sono pensati espressamente per lavori marginali e si dividono in due tipologie:[10]
- I mini-job a 450 euro, in cui il vincolo è quello della bassa retribuzione (originariamente e fino al 2012 il limite era a 400 euro). Il dipendente non deve guadagnare in via ordinaria più di 450 euro al mese, mentre è possibile variare la quantità e la distribuzione dell’orario di lavoro, salvo naturalmente il vincolo generale del salario minimo orario di legge, introdotto nel 2015 (attualmente a 8,84€). Quindi l’orario mensile ordinario non può superare oggi le 50 ore e 54 minuti.
- I mini-jobs per il lavoro a breve termine. Il dipendente in questo caso non può lavorare più di tre mesi, per un totale di 70 giorni lavorativi nel corso di un anno solare. Può lavorare anche con una cadenza non regolare, per esempio occasionalmente.
Un’altra distinzione da fare, interna a tutte e due le tipologie sopra viste, è tra:
- Impiego nel settore produttivo e delle libere professioni.
- Lavoro domestico
I mini-job a 450 euro nel settore produttivo possono avere orari di lavoro sia regolari che flessibili, e con guadagni mensili uguali o differenziati. Il dipendente può anche svolgere diverse attività contemporaneamente come mini lavoro; se però in un anno viene superato il limite di 5.400 Euro si esce dalla tipologia del mini-job e si entra nella contribuzione ordinaria. La regolazione è abbastanza complessa con casistiche ed eccezioni. Ad esempio se il dipendente ha due rapporti di lavoro, uno con il datore di lavoro A, da cui ricava uno stipendio di 450 euro, e uno con il datore di lavoro B, da cui riceve 300 euro, nessuno dei due rapporti sarà un mini-job. Inoltre se il lavoratore lavora con un solo datore di lavoro in tre mesi 1.500 euro al mese e poi 100 euro al mese nei rimanenti, pur restando nei limiti dei 5.400 non viene riconosciuto come mini-job; questo perché vi è un’eccessiva fluttuazione del reddito e il datore di lavoro sarà chiamato a pagare gli arretrati contributivi per i mesi con un reddito più alto; se invece il reddito viene stabilizzato attraverso lo strumento della banca delle ore, si resta nell’ambito del mini-job. Invece se il lavoratore, che normalmente guadagna 420 euro al mese, viene chiamato a fare in via occasionale e per un evento imprevedibile, una sostituzione di un altro addetto per un mese e, per questo, si supera il limite dei 5.400 euro, si rimane nel campo dei mini-job.
I dipendenti con mini-job fino 450 € al mese hanno l’esenzione dai contributi per l’assicurazione obbligatoria sanitaria, contro la disoccupazione e la perdita dell’autosufficienza. I loro datori di lavoro pagano, invece, contributi del 13% per l’assicurazione sanitaria contro il 15,5% normale; per quelli pensionistici vi è un’aliquota del 15% cui si aggiunge la quota del 3,7% a carico del mini-jobber; questi però può chiedere di essere esonerato e ricevere l’equivalente in busta paga. Si tenga conto che in Germania l’aliquota previdenziale ordinaria è del 18,7%, ripartita ordinariamente a metà tra datore di lavoro e dipendente. Dunque, i mini-jobber hanno un accredito pensionistico inferiore rispetto agli altri dipendenti, oltre che per il ridotto reddito, anche per l’aliquota in genere più bassa, a meno di versamenti integrativi volontari. La tassazione per i mini-job fino a 450 euro può avvenire, secondo la valutazione del datore di lavoro, o secondo l‘ordinaria struttura fiscale di aliquote e deduzioni oppure con una tassazione forfettaria del 2%; il datore di lavoro deve fare in modo che il dipendente non venga danneggiato da tale scelta. Infatti la convenienza dell’una o dell’altra soluzione dipende dalla condizione specifica del lavoratore; se questi è un pensionato o, comunque ha redditi aggiuntivi rispetto al mini-job, fatto peraltro frequente, è certamente più conveniente la tassazione forfetaria, che peraltro è ad un’aliquota molto bassa.
Se il reddito va da 450,01 euro a 850 euro al mese non si è più nel campo dei mini-job, ma in quello dei midi-job. I dipendenti, in tale condizione, pagano quote crescenti di contributi sociali all’aumentare del reddito mensile, arrivando all’aliquota ordinaria al raggiungimento degli 850 euro; possono, però, chiedere di essere esonerati dai contributi pensionistici. I datori di lavoro pagano in questo caso le aliquote ordinarie contributive.
I mini-jobs per il lavoro a breve termine nel settore produttivo non sono affatto coperti, a differenza di quelli con limite a 450 euro, dal punto di vista pensionistico. La tassazione per i dipendenti in questa condizione è opzionalmente determinata dall’aliquota fiscale marginale oppure forfettariamente al 25%. I datori di lavoro sono esenti da contribuzione, salvo aliquote molto ridotte per malattia (0,9%), gravidanza e maternità (0,3%), infortuni sul lavoro e caso di insolvenza del datore di lavoro. Diversamente dall’altra tipologia il mini-job a breve termine è sostanzialmente esente da contribuzione. E’ pensato per impieghi molto sporadici. Quello che distingue la fattispecie dei mini-job a breve termine è la durata del rapporto, che deve essere contenuta. Il vincolo dei 70 giorni lavorativi in un anno solare viene considerato in ragione dei diversi possibili datori di lavoro. Se un dipendente lavora prima 45 giornate con un datore di lavoro A e dopo 27 giornate con un altro B, nel caso di A il rapporto sarà considerato un mini-job, mentre con B un rapporto normale. E’ possibile svolgere il mini-job a breve termine con lo stesso datore di lavoro in modo permanente, in più anni, fermo restando il vincolo delle 70 giornate lavorative in ogni anno solare; non deve trattarsi di impiego on call; l’utilizzo, però, in questo caso non deve essere prevedibile, cioè prefissato in certe date o in un determinato periodo, ma determinato da contingenze come improvvisi fabbisogni di personale o sostituzione di addetti. Questo dovrebbe ostacolare l’impiego a fronte di situazioni di stagionalità; il condizionale, però, è d’obbligo. Va sottolineato che si rimane nell’ambito del lavoro a breve termine, se il guadagno, rapportato alla durata del rapporto, è inferiore ai 450 euro al mese.
I mini-jobs per il lavoro domestico a 450 euro si differenzia soprattutto per le attività che sono svolte dall’addetto nell’ambito familiare e per la registrazione ai servizi per l’impiego. L’impiego è limitato alle attività quotidiane della casa in abitazioni private, che normalmente sono svolte da membri della famiglia, come pulizia, cucina, spesa, giardinaggio, cura dei bambini, degli anziani, delle persone non autosufficienti e anche degli animali domestici. Il datore di lavoro paga le imposte per il suo dipendente; i calcoli vengono fatti dai Servizi per l’impiego, utilizzando le informazioni che il datore di lavoro dà quando registra, anche online, il rapporto di lavoro domestico attraverso uno snello formulario; il pagamento delle imposte, in quanto sostituto d’imposta, può avvenire direttamente attraverso la domiciliazione bancaria sul conto corrente del datore di lavoro. In questo caso la tassazione per i mini-job avviene con l’aliquota forfettaria del 2% oppure secondo l‘ordinaria struttura fiscale di aliquote e deduzioni; se vi sono altri redditi il dipendente può scegliere un’imposta forfetaria del 20%.
Per il datore di lavoro che si è registrato è possibile detrarre dal proprio imponibile fiscale il 20% delle spese sostenute per il lavoro domestico fino ad un massimo di 510 euro.
I mini-job nelle case private possono essere svolti con orari di lavoro regolari o flessibili e dar luogo a redditi mensili differenziati. Il dipendente può avere diversi rapporti contemporaneamente. Il limite però resta quello dei 450 euro mensili ordinari e dei 5.400 euro annui; superando questi, non si è più nell’ambito dei mini-job. Oltre 450 e fino a 850 euro si rientra nel caso dei midi-jobs con contributi pieni per il datore di lavoro e crescenti per il dipendente, fino ad essere allineati a quelli ordinari alla soglia degli 850 euro. Se un dipendente ha due datori di lavoro e la somma dei guadagni supera i 450 euro mensili, entrambi i rapporti non vengono considerati come mini-job.
I contributi di un datore di lavoro per un mini-job familiare sono il 5% per l’assicurazione sanitaria, il 5% per quella pensionistica, l’1,6 per gli infortuni, lo 0,9% e lo 0,3% per rispettivamente malattia e gravidanza e maternità. I dipendenti possono chiedere di essere esonerati dal pagamento del proprio contributo previdenziale e, dunque, di non avere un proprio accredito pensionistico. In caso decidano di corrisponderlo l’aliquota è del 13,7% (pari al 18,7% ordinario meno il 5% a carico del datore di lavoro).
Anche i mini-jobs per il lavoro domestico a breve termine si contraddistinguono per la durata ridotta del rapporto, che può essere anche occasionale. Il limite attuale è dei tre mesi o 70 giorni lavorativi, che è computabile su un anno solare. Al solito, oltre questi limiti si esce dalla fattispecie. Valgono le regole sopra viste per il cumulo di più attività, del limite massimo di reddito, della possibilità di definire accordi su un arco pluriennale. Il datore di lavoro corrisponde oneri sociali limitatamente ai contributi dell’1,6 per gli infortuni, lo 0,9% e lo 0,3% per rispettivamente malattia e gravidanza e maternità. Nessuna aliquota contributiva è prevista per i mini-jobber e contestualmente non vi è nessuna tutela. Le imposte del dipendente possono essere corrisposte o sulla base della struttura ordinaria o su un’aliquota forfetaria del 25%.
I mini-job in Italia?
La cancellazione dei voucher ha aperto la strada all’ipotesi di introduzione anche da noi di uno strumento simile a quello che esiste in Germania per le attività marginali e a bassa retribuzione. E’ evidente che uno strumento è indispensabile. Pena l’occultamento di tali attività dietro la cortina dell’economia sommersa. Alimentando quello che è un tratto abbastanza tipico del nostro paese del “Si fa, ma non si dice” con un processo di amnesia collettiva, che salva i principi, ma dimentica la realtà.
Che giudizio si può dare del sistema così come è configurato in Germania? Esso appare decisamente complesso rispetto soprattutto alla capacità di governo e controllo della nostra macchina amministrativa. I tedeschi hanno puntato a fare uno strumento flessibile, destinato calzare tante situazioni, ma che apre a numerose subordinate, di non immediata comprensione e gestione. Che fa un po’ rimpiangere i voucher nostrani.
Vi è poi un altro problema rilevante secondo chi scrive. L’introduzione dei mini-job potrebbe richiedere anche da noi l’introduzione di un salario minimo orario, proprio come ha necessitato in Germania. E questo sarebbe certamente non senza conseguenze sul terreno delle relazioni industriali, indebolendo il ruolo di riferimento dei contratti nazionali di lavoro, come abbiamo sempre sostenuto in questi anni. Certo una classica eterogenesi dei fini per chi ha promosso il referendum di abolizione dei voucher.
[1] Eurostat (2017), Labour costs in the EU, http://ec.europa.eu/eurostat, april
[2] Die Minijob Zentral (2017), Aktuelle Entwicklungen im Bereich der geringfügigen Beschäftigung – IV. Quartal 2016, https://www.minijob-zentrale.de/
[3] Colin C. Williams (2014), Informal sector entrepreneurship, http://www.oecd.org,
[4] Per quanto segue si veda Eurofound (2016), Low-wage jobs – an efficient tool to combat unemployment?, https://www.eurofound.europa.eu, Dicembre. Si veda anche Eurofound (2013), New rules for marginal employees, https://www.eurofound.europa.eu, Giugno.
[5] OCSE (2014), Germany – Keeping the edge: competitiveness for inclusive growth, http://www.oecd.org, Febbraio
[6] Per quanto segue si veda Eurofound (2016), Low-wage jobs – an efficient tool to combat unemployment?, https://www.eurofound.europa.eu, Dicembre.
[7] Per quanto segue si veda Eurofound (2016), Low-wage jobs – an efficient tool to combat unemployment?, https://www.eurofound.europa.eu, Dicembre, European Commission (2016), Your social security rights in Germany, http:ec.europa.eu,
[8] OCSE (2014), Economic survey Germany – Overview, http://www.oecd.org, maggio
[9] Felix Hüffner e Caroline Klein (2012), The German labour market: preparing for the future, “OECD – Economic Department Working Paper, n. 983, http://www.oecd.org
[10] Tutte le informazioni aggiornate al 2017 sono tratte dal portale https://www.minijob-zentrale.de. Si veda anche Matteo Mazzon (2013), Minijob alla tedesca: facciamo un po’ di chiarezza, “Bollettino Adapt”, 6 febbraio http://www.bollettinoadapt.it.