La transizione post-industriale e il peso crescente dei servizi, la globalizzazione, la cosiddetta quarta rivoluzione tecnologica sono diventati i motori di una «Grande Trasformazione» delle economie e società europee, peraltro amplificata dal rapido cambiamento socio-demografico. Ciò sta causando un vero e proprio sovvertimento della tradizionale struttura di rischi e opportunità. Territori, gruppi sociali, famiglie, persone si trovano ad affrontare situazioni non previste di bisogno e insicurezza: depauperamento e marginalizzazione geo-economica dell’area in cui si vive e lavora, obsolescenza di risorse e competenze un tempo sufficienti a garantire reddito e occupazione stabili, lavoro con contratti a termine e basse retribuzioni, grandi difficoltà nel conciliare responsabilità lavorative e vita familiare, nuove forme di competizione per risorse scarse (lavoro, welfare) sulla scia dei flussi migratori.
Chi sostiene che oggi viviamo in un capitalismo senza classi certamente esagera. Ma la pluralizzazione dei fattori di rischio e delle situazioni sociali che attenuano/amplificano l’impatto di tali rischi suggerisce un cambio di linguaggio. L’espressione che meglio coglie sia l’oggetto che la natura del sovvertimento in corso è quella di chance di vita, cara a Max Weber e ai suoi seguaci, soprattutto Ralf Dahrendorf. Per chance di vita s’intende il totale delle possibilità o occasioni di cui le persone possono disporre nelle varie fasi della propria esistenza. Più possibilità significa più opzioni di scelta, più margini di libertà individuale. Ma sappiamo che le scelte sono pesantemente condizionate dalle risorse disponibili nelle varie situazioni. E il menu di possibilità entro cui scegliere è sempre connesso alle strutture sociali e al loro cambiamento nel tempo. La Grande Trasformazione in corso sta, appunto, rapidamente cambiando il menu delle chance di vita. La struttura di classe delle società avanzate si è riarticolata in cinque segmenti.
In alto troviamo una élite di plutocrati quasi interamente «inglobata»: il percentile più ricco è pienamente inserito nei circuiti globali – soprattutto quelli finanziari -, in grado di consumare e vivere in un mondo senza confini. A seguire, troviamo il ceto alto-borghese, benestante ma ancora ancorato a patrimoni e attività prevalentemente nazionali. Al centro della distribuzione vi è la «massa media», a sua volta sempre più differenziata. Il tradizionale Quarto Stato (reso famoso dal dipinto di Pellizza da Volpedo) si è disciolto all’interno di questa massa, anche se nell’ultimo ventennio ha registrato una stagnazione dei propri redditi e durante la crisi addirittura una riduzione. Al fondo della distribuzione troviamo infine i «deprivati», gli «esclusi» e soprattutto la maggior parte dei precari. Chi fa parte del «Quinto Stato» subisce le conseguenze negative dell’apertura economica e delle politiche che l’hanno accompagnata: liberalizzazione dei mercati del lavoro, delocalizzazioni, tagli ai servizi pubblici, e così via. I fautori della globalizzazione e dell’integrazione economica hanno sovra-stimato il potenziale di trickle down (gocciolamento verso il basso) di questi processi. In basso è arrivato poco o niente.
La sfida per il futuro è chiara. Occorre orchestrare un «contro-movimento», proprio come avvenne un secolo fa quando venne costruito il «primo» welfare state. Bisogna dare un ordine alla nuova costellazione di rischi e opportunità. Un ordine capace di favorire lo sviluppo economico e sociale nel quadro delle garanzie liberaldemocratiche e ispirato a principi condivisi di giustizia distributiva, in modo da essere percepito e accettato come equo e legittimo nei suoi fondamenti da parte dei cittadini. Questa volta il contro-movimento è più difficile da attivare rispetto al passato. Sul piano politico, per ora esso si sta manifestando come pars destruens, o meglio regrediens: il desiderio di tornare indietro, di bloccare il flusso di cambiamento. Dal punto di vista delle idee, prevalgono le retrotopie, per dirla con Zygmunt Bauman: ripristiniamo e rafforziamo il vecchio welfare compensativo (la vecchia sinistra), oppure ricostituiamo le «tribù» e proteggiamole con i muri (la nuova destra). Due strade che non portano da nessuna parte (è come cercare di fermare le onde con un colino), ma che nondimeno attraggono persone e gruppi con interessi molto disparati: pensiamo alla dispersione socio-economica dell’elettorato lepenista e di quello leghista, e più ancora di quello del Movimento Cinque Stelle. Le platee di elettori che sostengono questi partiti includono persone variamente e diversamente collocate sull’asse rischi-opportunità. Il voto di protesta esprime prevalentemente una disaffezione generica nei confronti delle élite politiche tradizionali, della loro incapacità di gestire o fermare i cambiamenti. Non esprime una domanda sociale con interessi condivisi. Ciò vale anche per movimenti estemporanei che si formano nella rete, sulla scia di qualche avvenimento o provvedimento, magari locale, e poi si mobilitano offline (pensiamo ai gilets jaunes): perlopiù si tratta di fiammate che non si trasformano in fuoco vero e proprio perché poggiano su un insieme molto disparato di istanze e bisogni.
Trovare una via d’uscita in positivo non è certo facile: occorre individuare una meta ambiziosa e abbastanza definita e poi saperla comunicare in modo efficace. Per incanalare il contro-movimento in direzione costruttiva questa è però l’unica opzione. La ricerca della meta richiede oggi esercizi straordinari di analisi dei problemi, da svolgere sullo sfondo di una nuova e persuasiva cornice valoriale capace di dare un «senso» al cambiamento. Per evitare che la Grande Trasformazione si esaurisca in un generalizzato sovvertimento, con esiti sociali e politici regressivi, serve insomma un ambizioso progetto di «Riformismo 2.0», che non si limiti ad ammortizzare gli effetti negativi dei cambiamenti in corso, ma ne sappia sfruttare l’enorme potenziale per un equo ampliamento delle chance di vita. Una strategia capace di coniugare ambizioni lungimiranti e pragmatismo responsabile. E di opporre alle inconcludent.i e pericolose «retrotopie» una serie di utopie realistiche, grazie a cui gli elettori possano intravedere scenari futuri con un saldo positivo in termini di rischi e opportunità, per sé e soprattutto per i propri figli.