E’ mezzogiorno, è domenica e a quest’ora, puntualmente ogni settimana,
Romano Prodi esce dalla parrocchia di San Giovanni a Bologna al termine della messa. Stavolta no, stavolta risponde dal suo telefono di casa in via Gerusalemme: «Siamo dentro una emergenza che ti priva delle cose che ti sono più care». Ma oltre ad essere un cattolico osservante, Prodi è anche un padano che non si stanca di studiare e di pensare al futuro e in queste ore, racconta, «penso e ripenso a CO- me potere uscire da questa grave emergenza. E credo che l’Europa e l’Italia siano chiamate a decisioni all’altezza di una crisi senza precedenti. Alla tragedia delle vite umane si unisce il dramma economico».
L’Unione europea in questi giorni si è manifestata con le parole delle due donne più influenti, parole assai diverse tra loro, ma in fin dei conti un’Europa che conferma di essere pensata soltanto per «quando c’è il bel tempo», come ha detto Lucrezia Reichlin?
«Il bel tempo mi sembra piuttosto lontano. Venendo all’oggi: della Lagarde, presidente della Bce, si era detto che non ha esperienza tecnica, ma che è una raffinata politica. Speriamo che abbia imparato un po’ di tecnica! Quanto alla Commissione europea, prima di pronunciarsi, ha aspettato che Î’emergenza coronavirus diventasse tragica. Certamente la presidente Von der Leyen ha fatto dichiarazioni positive, malo erano pure quelle sul Piano verde. Poi, per la verità, non ha potuto mettere le necessarie risorse nel Bilancio. Tutto è sempre nelle mani del Consiglio. Decidono gli Stati, ma ora la gravità della situazione impone di cambiare»,
E quale potrebbe essere il segnale di una svolta vera, percẹpibile, epocale?
«È arrivato il momento di mettere in atto un salto di solidarietà, di lanciare una strategia europea per impedire una crisi irreversibile che toccherà anche gli altri Paesi europei. La misura da prendere è l’emissione di Eurobonds, come strumento per raggiungere obiettivi comuni. Gli Eurobonds, da una parte sarebbero il segno della solidarietà, ma consentirebbero anche l’avvio della politica economica e della fiscalità a livello europeo che ancora non esistono»
Lei pensa ad una cura d’urto, incomparabile con quelle sinora immaginate?
«Per un momento eccezionale servono risorse finanziarie eccezionali: un piano nell’ordine delle centinaia di miliardi, anche se non possiamo quantificarlo ora perché non sappiamo quanto precisamente durerà questa crisi e quale profondità avrà».
Come lei ben sa i tedeschi si sono sempre opposti: perché stavolta dovrebbero cambiare idea?
«Perché stavolta nessuno potrà dare colpe all’Italia o ad un singolo Paese. Temo che tra qualche giorno comprenderemo che la crisi determinata dal virus non è soltanto un problema italiano. Noi abbiamo più. debito di altri, ma questa crisi tocca tutti. Anche i tedeschi difronte ai fatti nuovi cambiano idea: chi due giorni fa avrebbe immaginato che la Germania chiudesse le frontiere con l’Austria e la Francia?»
In questi giorni ogni Paese europeo ha pensato a sé stesso mentre a Bruxelles chi doveva pensare a tutti, ha finito per balbettare: sarà il coronavirus ad accelerare la nascita di una Europa politica?
«Se non ora, quando? L’Europa politica non potrà mai decollare da una teoria, ma dai fatti! Se non capiamo che oggi l’Eurobond è legittimato politicamente, oltreché tecnicamente, quando lo capiremo? È arrivato finalmente il momento di dotarsi di uno strumento di intervento straordinario che vale per tutti: il titolo pubblico del debito pubblico europeo»,
Possibile che davanti ad emergenze epocali non si riesca a prendere atto che eccezionalmente si devono assumere decisioni comuni?
«Certo, è bene che in tempi ordinari la politica sanitaria resti una competenza nazionale, ma è evidente che davanti ad un’emergenza, se tu produci mascherine e io respiratori, la cosa più logica è scambiarseli. Agire in comune è infinitamente più efficace che agire separatamente».
Il governo ha tamponato l’emergenza con misure attese e condivise dalle parti sociali, ma le prime stime su quello che ci attende, sia a livello di debito-deficit che di ricadute sociali, fanno paura: come se ne esce?
«Le risorse messe a disposizione dal governo mi auguro che siano spese subito, perché l’economia purtroppo rischia di crollare a vite, si rischiano fallimenti per le imprese e tragedie per le famiglie. E in ogni caso non sapendo che durata avrà la crisi, non mi sento di quantificare la caduta del Pil, né la misura del deficit pubblico. Ma ho un chiodo fisso: l’Italia appronti, da subito un piano per il rilancio del Paese in modo da tornare a renderci competitivi quando l’emergenza sarà finita».
Facile a dirsi. La storia nazionale è piena di libri dei sogni, di progetti faraonici…
«Ci sono alcuni grandi eventi che impongono cambiamenti ma offrono anche opportunità. La globalizzazione non è finita ma si sta manifestando in forme diverse dalle previsioni. Molte nostre imprese che nel passato sono emigrate, in parte si preparano a rientrare. In Cina, ad esempio, resteranno soprattutto le imprese interessate al mercato interno, ma al- tre si allontaneranno, perché i costi stanno crescendo anche lì. Nel 1982 scrissi un articolo che era titolato: Italia-Cina 1 a 40″, perché da noi il costo per ora lavorata aveva quel rapporto lì. Oggi siamo scesi a 1-2,5 e tra non molto si andrà verso il rapporto di 1 a 1”.
Non resta che attendere quelle imprese?
«Noi abbiamo, purtroppo, un costo del lavoro drammaticamente inferiore a quello di Francia e Germania. Tuttavia le imprese straniere, pur avendo convenienza a venire da noi, preferiscono andare altrove a causa dei nostri difetti politici e burocratici. Si deve riorganizzare il sistema Paese. Il governo riunisca subito un ristretto gruppo di specialisti che prepari un pacchetto di regole e di incentivi per i nostri imprenditori e per quelli stranieri».
*da La Stampa 16/3/2020