Non so se il perbenismo sociale vorrà sapere quanto il corona virus e il suo ingresso nella vita dell’uomo dipendano dalle modificazioni che l’uomo ha operato sugli ecosistemi, sulla variazione dei loro equilibri, delle loro gerarchie interne, delle catene alimentari. Non sappiamo neanche se questo virus sia un tentativo di resilienza. Sicuramente siamo disposti ad accettare che la sua diffusione sia favorita dalla mobilità del sistema produttivo, finanziario, commerciale.
Sappiamo che molti virus sono nati dalle condizioni ambientali degli allevamenti intensivi, dai concimi e dai guani, dall’agricoltura dei deserti verdi; sappiamo che l’aumento della CO2 deriva dalla combustione delle sostanze fossili nei cicli energetici, nella mobilità e nei cicli urbani e residenziali, che l’inquinamento del mare deriva dall’aver trasformato l’oceano in un‘immensa discarica. Quando però dobbiamo superare, nella conoscenza sociale diffusa, il rapporto diretto tra causa ed effetto per entrare nel rapporto complesso tra equilibri e squilibri sistemici ed ecosistemici, allora la conoscenza e l’informazione sociale prendono le distanze; nascono prudenze e silenzi.
Sono notizie di questi giorni quelle che ci parlano di un numero notevole di virus per ora circoscritti e giacenti in nicchie ecologiche delle foreste pluviali. Se questi virus abbandoneranno le loro nicchie, lo faranno non perché presi da una subitanea voglia di viaggiare per conoscere il mondo ma perché qualcuno, distruggendo la loro nicchia o uccidendo i loro antagonisti, li libera e consegna loro un biglietto gratuito per girare il mondo al seguito di merci, manager, tecnici, operai specializzati che, a prescindere dal vettore, vivono il biglietto Roma-Frascati, Roma-Milano, Roma-New York con la stessa indifferenza.
Allo stato attuale delle conoscenze non sappiamo da dove e come il virus si sia insediato nel sistema umano e negli ecosistemi di sua maggior presenza e frequenza; sappiamo però che il suo ingresso nella vita dell’uomo è data da una variazione ecosistemica che, alterando o modificando gli equilibri in cui albergava o in cui aspettava tranquillamente una sua futura e imprecisata nascita, gli ha creato le nuove residenze di vita.
Non c’è dato sapere se il virus sia nato o si sia diffuso in un suo processo migratorio indotto e non da lui voluto. Sappiamo però che la sua nuova comparsa nelle città non può che dipendere dalle variazioni (anche minime) degli elementi che compongono un determinato equilibrio in un luogo e quindi delle gerarchie ecosistemiche che l’uomo ha compromesso con azioni dirette (urbanizzazione, deforestazione, variazione delle catene alimentari, uso di escrementi animali per concimazione, ecc.) e indirette (inquinamento dell’aria, dell’acqua e della terra).
Sappiamo che se un essere nasce, è perché ha un principio e se si diffonde è perché ha un veicolo su cui viaggiare.
Anche se sono tante le cose che non sappiamo, ne conosciamo molto bene due: la prima riguarda le modificazioni dirette e indirette che abbiamo operato sugli ecosistemi; la seconda, la nostra enorme ignoranza.
Se riuscissimo ad avere un minimo di modestia e fossimo capaci di abbandonare l’arroganza che ci caratterizza, riconosceremmo con semplicità che ci siamo mossi conoscendo (e neanche troppo bene) solo quello che ci interessa per realizzare le trasformazioni che ci servono, senza nessuna coscienza e conoscenza delle derivazioni ecosistemiche che sarebbero sorte a causa delle variazioni da noi introdotte.
Le variazioni che operiamo le conosciamo perfettamente perché sono nate dalle nostre azioni; per le conseguenze … après moi le déluge.
Ogni modificazione degli equilibri modifica le loro gerarchie interne; fa scomparire alcuni antagonisti; fa proliferare gli esseri divenuti liberi per l’assenza di quegli antagonisti. Nascono sicuramente nuove forme di vita, come i vermi dalla putrefazione. Sappiamo che la morte è un attimo in cui l’assenza di entropia prelude a nuove forme di vita magari nascoste o soggiacenti (come i fiori del deserto che nascono quando piove o pioverà, non importa quando).
Se un gruppo di esseri non ha più antagonisti, ha libertà di crescita e, qualora trovi un vettore idoneo, di espandersi.
Il loro sviluppo ed espansione, quali variazioni porta nell’equilibrio ecosistemico e soprattutto quali conseguenze hanno le loro crescite e diffusioni? Come cambiano i valori gerarchici?
Apro qui una parentesi elementare: il passaggio da 500 milioni d’individui a 8 miliardi, quanti alberi ha tagliato? Quanti animali ha allevato? Quali spazi ha occupato? Quali sono state le variazioni micro e macro sistemiche e quelle ecosistemiche, prodotte in ogni e da ogni individuo, in ogni luogo aggregato e da ogni luogo di nuova aggregazione?
Senza proseguire oltre con le domande e per rimanere nel concreto, sappiamo che il vuoto in natura non esiste ma non sappiamo però, fatte salve le sostituzioni che creiamo, come si riempiranno i vuoti nelle micro e nelle macro condizioni sistemiche e in quelle ecosistemiche.
Quando sostituiamo un’unità complessa (un’unità ecosistemica) con un’unità diversa e inizialmente semplice, non sappiamo con quali processi questa semplicità iniziale si andrà arricchendo, con quali processi migratori di specie e diversità, con quali processi generativi o auto-generativi.
Che fare? E pur dobbiamo operare, visto che 8 miliardi di individui hanno necessità in abbondanza e che la libertà (dei singoli e della collettività) è nella coscienza delle necessità (dei singoli e della collettività).
La prima risposta è semplice: dobbiamo studiare, dobbiamo aumentare il quoziente conoscitivo della cultura sistemica e del valore circolare dei processi, dobbiamo far diventare cultura di base (patrimonio di tutti) la cultura sistemica e il valore circolare dei processi.
Che cosa significa?
Primo: che ogni azione di trasformazione ha una conseguenza sull’equilibrio (positiva o negativa) che in tutti i casi va prevista, stu diata e soprattutto, utilizzata, sapendo che la sua utilizzazione può essere foriera di nuovi investimenti mentre trascurarla può comportare spese sociali ed economiche di riparazione superiore ai vantaggi da essa creata.
Per fare questo è necessario rivedere profondamente gli statuti delle discipline otto/novecentesche costruite sui valori puntuali degli interventi e disattenti ai valori sistemici dei processi.
Secondo: va ricondotta la politica nell’alveo delle scienze sociali, superando l‘attuale tendenza alla sua gestione manageriale. La Politica va ricondotta al suo ruolo di gestore della Res Publica, del benessere sociale e dei cittadini. Se ci fosse qualche dubbio su questo, è sufficiente osservare i prezzi sociali e individuali che sono stati pagati nell’attuale gestione del virus Covid 19 a causa dello smantellamento di gran parte della sanità pubblica a favore di quella convenzionata e privata; dobbiamo rivedere la filosofia e la struttura legislativa e dei finanziamenti, nonché l’organizzazione della tassazione, che regola le azioni di trasformazioni del territorio e dell’ambiente. Vanno favorite in ogni modo le trasformazioni e la gestione degli interventi progettati e realizzati nella cultura sistemica secondo i canoni dell’economia circolare, mentre vanno penalizzati, fino alla dissuasione,gli interventi progettati e costruiti sul loro valore puntuale. Lo stesso discorso vale per la struttura e l’organizzazione dei finanziamenti: devono essere incentivate e favorite solo le opere di trasformazione organizzate sul circuito completo delle risorse e capaci di coinvolgere soggetti e processi co-settoriali.
Terzo: dobbiamo modificare e rinnovare profondamente i processi produttivi, la formazione e la distribuzione della ricchezza tra territori e tra individui, sapendo che nei processi sistemici e nell’economia circolare molte delle voci che nell’economia puntuale sono classificate come spese possono e devono diventare il presupposto di nuovi investimenti e di nuovi circuiti economici figli e complemento di quelli che fino a oggi sono stati interventi puntuali; comunque, devono ricollocarsi nei binomi produttivi spese/investimenti e risparmi/guadagni.
Rinnovare il mondo? Tutti sappiamo che convincere le oligarchie che controllano e governano economicamente e politicamente il mondo, non sono cose risolvibili con gli strumenti della Fatina dai capelli turchini. Quelli che dobbiamo avviare sono processi e come tali hanno un avvio e un percorso che va costruito con i tempi, le possibilità e le capacità che possiamo mettere in campo.
Entriamo nel merito con le scuse per la sommarietà propria degli enunciati.
Le teorie sistemiche dimostrano che ogni azione non è fine, né può esserlo, a sé stessa; se entriamo nell’errore dell’intervento puntuale creiamo alterazioni negli equilibri ecosistemici che non abbiamo né previsto, né studiato, né tanto meno compensato. È inutile dire che questo ha comportato conseguenze sociali, ambientali ed economiche più onerose dei vantaggi acquisiti.
Per questo ogni disciplina, trattando un solo segmento conoscitivo, sa e deve sapere che questo segmento confluisce in un sistema complesso. È questo rapporto tra segmento e complessità che va conosciuto nel suo intero, sia nel dettato disciplinare sia in quello sistemico.
Se vogliamo un mondo misurato sulla qualità e non sul PIL, dobbiamo far in modo che ogni conoscenza specifica e puntuale sia trattata e usata con il criterio olistico della valutazione complessa, sistemica ed ecosistemica.
Se su questo ci fosse qualche dubbio è sufficiente valutare quanto bisogno di riqualificazione esiste. Se dobbiamo riqualificare è perché abbiamo dequalificato e quindi … Ma a prescindere dalle spese mal fatte calcoliamo quanto lavoro e quanta ricchezza oggi potrebbero (e possono) produrre progetti e processi di riqualificazione.
Avviando un grande piano del lavoro e degli investimenti sui magnifici Ri, non solo potremmo dare una risposta positiva all’arido PIL e ai suoi altrettanto aridi estimatori, ma potremmo rispondere positivamente alle carenze oggi registrate e manifestate dal malessere sociale rispetto ai valori negativi degli indicatori che misurano la qualità della vita e del lavoro.
Domandiamoci quanti investimenti risiedono (o potrebbero risiedere) nei processi di riqualificazione, rispetto agli indicatori delle qualità, di ciò che è stato strutturato e realizzato con la cultura del valore puntuale degli interventi (due esempi tra i tanti sono le città e il sistema energetico).
Al contrario (qui il pessimismo della ragione è d’obbligo e deve cedere il passo all’ottimismo della volontà) mentre fino alla fine del 2019 non si poteva aprire un organo di stampa senza trovare almeno una citazione sul new deal green, oggi che pur dobbiamo pensare alla ripresa economica e all’uscita dalla crisi, tutti pensano solo a riaprire i processi produttivi esistenti.
Invece che considerarli dismessi (e mi scuso per la forzatura che elude i tempi dei processi) li consideriamo solamente parcheggiati.
È come quando ritorniamo da una vacanza: riapriamo l’appartamento conosciuto e, riscoprendolo intatto, dimentichiamo il soggiorno occasionale che abbiamo vissuto e riprendiamo le antiche abitudini.
Non può essere così.
Se non utilizziamo, cosa che da Keynes in poi si è fatto, la crisi e il post-crisi per un grande ripensamento del lavoro e degli investimenti, allora veramente non abbiamo dato degna sepoltura ai nostri morti e ci comportiamo come degli eredi scialacquoni.
Per ritornare alla formazione della matrice culturale, senza la quale non può esserci pensiero innovativo, le discipline devono fare la loro parte.
La necessità delle specializzazioni deve contribuire a formare un’unità conoscitiva ancora più ricca e complessa e non rimanere separata lasciando agli individui o ai gestori della Res Publica l’onere di ritrovare la sintesi. I saperi separati sono utili se ricondotti all’unità sistemica capace di garantire la formazione di un nuovo equilibrio utile e non dannoso per la comunità.
La sintesi tra conoscenze separate e azioni che potrebbero comportare attività diverse e divergenti, deve procedere in modo unitario in una sintesi circolare tra cultura politica e gestione, ritrovando quell’unità decisionale e comportamentale capace di garantire la società e gli individui sul valore sistemico delle azioni proposte e realizzate.
Nel Club di Roma fu trovata una formula chiarissima per spiegare la matrice dei progressivi dissesti che nascevano dalle azioni degli uomini: i tempi storici [di trasformazione] non coincidono più con i tempi biologici [di metabolizzazione della natura]. Questo purtroppo sarà una divaricazione che ci porteremo avanti. Per questo la forbice va progressivamente diminuita ed è per questo che i progetti di trasformazione devono riferirsi all’intero ecosistema che subisce le trasformazioni puntuali, spesso contradditorie anche tra di loro.
Bisogna intervenire sugli statuti disciplinari e far sì che le discipline si uniformino sempre più al valore sistemico della conoscenza.
Così come fino ad oggi per costruire un’unità (di qualunque tipologia essa sia) dobbiamo conoscere tutti i valori prescrittivi (statici, sismologici ecc.) propri delle legislazioni urbanistiche nate dalla firmitas di Vitruvio, da domani dovremo iniziare a introdurre i valori ecologici ed ecosistemici delle conseguenze.
Progettare non può essere più un verbo che si riferisce alla realizzazione di un manufatto, di un complesso, di …, ma deve comprendere la progettazione dell’ecosistema trasformato.
E non mi si venga a dire che non è possibile farlo. La trasformazione del paesaggio agrario, pre-industrializzazione dell’agricoltura, non è stata dettata dalla scienza ma dal profitto. È la legge del profitto che ha trasformato in deserti verdi la ricchezza biologica propria del territorio agricolo così come è descritto nella Storia del paesaggio agrario di Emilio Sereni.
Iniziamo dal potenziare tutte le azioni e i provvedimenti già esistenti volti alla diminuzione progressiva delle fonti inquinanti e degli inquinamenti. In questo processo sono fondamentali i provvedimenti sulla tassazione e sui finanziamenti e su questo lo Stato deve fare la sua parte, fondamentale per creare le condizioni di convenienza e quindi di confluenza.
L’azione deve proseguire con quella che può essere chiamata economia sistemica: l’economia deve prendere dall’ecologia la sua cultura sistemica e deve organizzare i suoi progetti di sviluppo svincolandoli dai processi di crescita di settore o di unità aziendale. È il particolare che deve trovare spazio e respiro nel generale.
Sappiamo e conosciamo bene il valore del disordine, dell’entropia, della diversità. Partendo dal valore della biodiversità, dal concetto di equilibrio e traendo proprio dal valore dell’equilibrio quello dell’ordine progettuale delle trasformazioni, possiamo e dobbiamo avvicinarci al valore del progetto sistemico ed ecosistemico.
Per questo, anche se lo dico con molta prudenza e cosciente della schematicità della trattazione, è necessario iniziare a praticare il concetto e il valore della neghentropia.
Per questo chiediamo la complicità, la complessità e l’organizzazione ai magnifici Ri. Con questa complicità, che ci permette di misurare una società sui suoi valori qualitativi e non sul solo PIL, possiamo arrivare a progetti di sviluppo che minimizzino gli scarti, assumano come invarianti progettuali solo quelle che scaturiscono dall’uso dei valori qualitativi.
Se la neghentropia ci permette di trasformare un sistema da disordinato a ordinato, non dobbiamo tuttavia incorrere in un ulteriore errore: quello di ordinare per valori uguali e non per valori e specie diversi. I processi di riordino devono essere finalizzati alla formazione di realtà complesse e plurali espresse dalle biodiversità e capaci di avere il valore dell’equilibrio e non della supremazia o della monarchia.
Lo sforzo richiesto a chi è preposto a gestire i processi d’insediamento e trasformazione territoriale è quindi quello di costruire delle linee guida, impiegando l’approccio e adattandolo alle specificità dell’ecosistema per costruire una catena di diversità compensative e funzionali all’equilibrio.
Un esempio per tutti è l’infrastruttura verde; fino a oggi ha riguardato, oltre alle aree naturali, al massimo il verde agricolo (quando non siano deserti verdi) che, nel migliore dei casi, è stato inserito nei corridoi biologici e nella redazione di carte per definire la rete ecologica. È evidente la debolezza di questo approccio. L’infrastruttura verde è quindi fondamentale per legittimare l’occupazione artificiale (quindi non solo edilizia) del suolo.
La gestione di un piano dovrà quindi essere basata sulle funzionalità dell’infrastruttura verde a garantire processi di resilienza e sulla sua armatura minima indispensabile a biodiversità, idrologia, clima, funzioni igienico-estetiche.
Il primo elemento per garantire processi di resilienza è ampliare la permeabilità del suolo (includendo nei territori da rendere permeabili anche quelli ora semi impermeabili e/o fortemente inquinati e inquinanti – fino alle falde acquifere – degli allevamenti intensivi e dei deserti verdi). Nasce da qui l’incentivo ai processi di riqualificazione e ridefinizione dei volumi urbani, questo perché pensiamo che la prima vera riqualificazione di un territorio avvenga attraverso l’innesco di processi culturali che si tramutano in attività e quindi in impresa e lavoro. I processi economici legati alla riqualificazione urbana e territoriale sono enormi, capaci di innescare veri processi di sviluppo.
Nello schema di ragionamento che propongo, si affaccia il concetto di costruire una comunità ecologica (ecological community) basata sulla qualità e con processi legati alla circolarità dell’economia.
Partiamo per semplicità dalla città (la stessa logica vale per gli insediamenti industriali, le grandi aree dei deserti verdi, il raggruppamento dei grandi allevamenti intensivi) che è uno dei luoghi energivori per antonomasia.
Basta osservare il paesaggio urbano che ci circonda: è l’espressione di una cultura del costruire e dell’abitare che va profondamente modificata, perché dannosa in termini economici e dequalificante per le attività umane e le economie integrate basate sui sistemi di qualità. Alla base si evidenzia la necessità di cambiamenti anche di tipo comportamentale.
È necessario trovare una nuova forma urbis, anche in termini di riorganizzazione immateriale, che abbia la sostenibilità ambientale ed energetica come nuova firmitas avviando un grande processo di ristrutturazione e riqualificazione.
È questo processo che implica l’organizzazione e la gestione di un piano d’investimenti sulla riqualificazione ambientale e paesaggistica.
Per questo abbiamo posto come prioritario il piano di sviluppo (e non della sola crescita) capace di innescare una programmazione occupazionale e d’investimenti che, rifacendo belli i territori contaminati da insediamenti urbani, industriali e agricoli miserevoli, detti una nuova cultura progettuale e ambientale.
Serve una riorganizzazione strutturale che detti le regole ecologiche superando le regole che hanno determinato le forme attuali della città dispersa, grande consumatrice di energia e di suolo, con tempi di mobilità inaccettabili e con un rapporto spesso impossibile anche con i servizi primari come la salute.
Il consumo di suolo potrà essere contenuto, e in seguito bloccato, solo intervenendo in modo massiccio nella ristrutturazione/riqualificazione urbana ed edilizia, sugli allevamenti zootecnici, sui deserti verdi e sugli insediamenti produttivi.
Nel progetto sistemico il termine territorio si sostituisce con il termine ecosistema.
Questo significa che il benessere è da ricercare nel mantenimento della biodiversità con la cura di quei valori naturali (i beni comuni) di cui l’uomo ha necessità per il suo benessere.
Questo significa che il progetto di trasformazione territoriale va dimensionato su tutti i valori fisici ed economici, biotici e abiotici, strutturali e ambientali capaci di garantire il benessere umano; quando la qualità ambientale è stata compromessa, devono essere proposte opere necessarie a invertire processi di degrado e necessarie per avviare processi di resilienza.
*Professore di Urbanistica, Univ. La Sapienza, Roma