La recessione europea non accenna a scomparire e le misure fino ad ora prese per rianimare l’economia del vecchio continente non hanno funzionato. E’ necessario cambiare cura al più presto e bisogna farlo in un contesto di maggiore integrazione e partecipazione all’interno dell’Europa Unita. La soluzione può essere solo e soltanto europea.
Allo stesso tempo, però, è importante prendere coscienza della peculiarità della nostra economia, dove gli andamenti ciclici si sovrappongono a gravi debolezze strutturali.
Ciò spiega la peggiore evoluzione complessiva della nostra economia negli ultimi dieci anni rispetto a quella dei principali paesi sviluppati.
C’è bisogno di politiche anticicliche ed europee per combattere una crisi le cui origini sono finanziarie ed internazionali, ma c’è anche bisogno di riforme strutturali ad hoc per modernizzare e rendere competitiva la nostra economia. Questa la brevissima sintesi delle Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, pubblicate alla fine di maggio.
Il documento – che vuole profilare una via d’uscita a questa prolungata recessione che assume sempre più le sembianze di una mini-depressione – trae la sua forza dai dati e dalle proiezioni del Bollettino economico della Banca d’Italia, pubblicato alcune settimane prima. Questo ci dice che lo scorso anno, dopo 7 anni di deficit corrispondenti al 3,5-4% del PIL, l’Italia ha ottenuto il tanto desiderato pareggio della bilancia dei pagamenti e che nel quarto trimestre 2012 questa è addirittura risultata positiva. Ma non si tratta di un avanzo legato all’impennata delle esportazioni, che tutti aspettano da anni; pareggio ed avanzo sono figli del crollo delle importazioni. Un fattore che conferma la condizione di profonda debolezza in cui si trova la domanda interna.
Recessione e contrazione della domanda sono vittime di una peculiare co- dipendenza, la prima alimenta la seconda che a sua volta incentiva la prima. Bastano pochi numeri a descrivere questa spirale micidiale lungo la quale scivola inesorabilmente la nostra economia: nel 2012, il reddito disponibile si è contratto del 4,8% mentre negli ultimi due anni i consumi reali sono scesi del 5%. Meno spesa meno consumo, è semplice, ma anche meno consumo meno salari. Tutto ciò avviene sullo sfondo di una forza lavoro in aumento, non per motivi demografici ma per motivi recessivi, fiscali e strutturali: nel 2012 ben 540 mila unità si sono aggiunte, tra queste una buona percentuale proviene da donne che prima potevano permettersi di stare a casa e ora non lo possono fare più e da sessantenni che non possono andare in pensione.
Altro fattore depressivo la bassa inflazione – a sua volta sintomo della debolezza della domanda interna – e la caduta della spesa per investimenti che nel 2012 è letteralmente crollata di ben 10 punti percentuali rispetto all’anno prima. Di fronte a questo scenario il governatore Visco ha enfatizzato il problema degli “ampi margini di capacità inutilizzata” presenti in tutto il paese, uno spreco di risorse che non possiamo certamente permetterci. Infine per il 2013, le imprese prevedono un’ulteriore flessione e la Banca d’Italia non nasconde le sue preoccupazioni per il 2013 riguardo alle proiezioni sulla crescita del PIL, che sebbene meno marcata che nel 2012 (-2,4 per cento) rimarrà negativa (-1,5 per cento).
Vittima primaria di queste statistiche da depressione economia è l’economia reale, lo dice chiaramente il Governatore quando nella sezione a questa riservata nelle Considerazioni finali afferma: “Il prodotto interno lordo del 2012 è stato inferiore del 7 per cento a quello del 2007, il reddito disponibile delle famiglie di oltre il 9, la produzione industriale di un quarto. Le ore lavorate sono state il 5,5 per cento in meno, la riduzione del numero di persone occupate superiore al mezzo milione. Il tasso di disoccupazione, pressoché raddoppiato rispetto al 2007 e pari all’11,5 per cento lo scorso marzo, si è avvicinato al 40 tra i più giovani, ha superato questa percentuale per quelli residenti nel Mezzogiorno”.
Anche sul mercato dei capitali la situazione continua ad essere critica, e questo nonostante la politica monetaria della BCE; le “operazioni monetarie definitive” (Outright Monetary Transactions, OMT) di acquisto sul mercato secondario dei titoli di Stato, senza limiti quantitativi; le dichiarazioni del Presidente della BCE, che ad agosto del 2012 ha affermato l’impegno a fare tutto il necessario per salvaguardare l’euro. Queste azioni hanno calmato i mercati finanziari e ridotto i rendimenti a medio e a lungo termine nei paesi sotto tensione attenuando la frammentazione dei mercati lungo confini nazionali. Tuttavia, nel primo trimestre 2013 il nostro paese aveva un deficit di 240 miliardi di euro, corrispondente al 18% del PIL, quando agli inizi del 2011 il saldo era praticamente in pareggio. Dove sono finiti tutti questi soldi, i capitali fuggiti, insomma? La risposta è semplice: all’estero. E di chi sono i capitali esportati? Una parte appartengono ad investitori esteri, ma un’altra, cospicua, appartiene ai residenti. Un drenaggio di ricchezza in un momento critico per il paese. Secondo la Confindustria dal 2006 al 2012 in Italia vi è stata una perdita di ricchezza pari a 460 miliardi di euro, mentre in Germania si è registrato un aumento di ricchezza finanziaria di 506 miliardi di euro.
Per quanto riguarda il settore bancario, colpito dallo scandalo del Monte dei Paschi, Visco dichiara che “ la garanzia ultima della stabilità delle banche è la loro capacità di generare reddito. In prospettiva, la caduta della redditività rischia di indebolirne il patrimonio e di comprometterne la capacità di finanziare il rilancio dell’economia reale. Dal 2007 al 2012 il rendimento del capitale e delle riserve è peggiorato; nel 2012, al netto delle poste straordinarie connesse con la svalutazione degli avviamenti, è stato pari allo 0,4 per cento”.
Quali i suggerimenti del Governatore della Banca d’Italia di fronte a queste sfide epocali? Pochi, cauti e fermi: che la classe politica prenda atto di questa situazione ed agisca di conseguenza, sicuramente supportando il percorso di integrazione bancario, finanziario, fiscale ed avendo come obiettivo l’unione politica; che si prenda atto dei motivi che ci ha reso la nostra economia incapace di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi venticinque anni. Queste, in sintesi, le due direttive anti-recessive lungo le quali dovrebbe correre la politica economica nazionale e quella internazionale all’interno dell’Unione Europea.
(*) Docente di economia presso la Judge Business Schools di Cambridge