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Non è vero che se il Nord riparte, trascina il Sud

Ho incontrato la questione meridionale nelle periferie di Milano, intrecciata, direi quasi un tutt’uno, con la vita quotidiana di chi abitava nei palazzoni o nelle case di ringhiera della Bovisa. 

Erano gli ultimi anni Sessanta e io ero parroco proprio in quel quartiere operaio dove, attorno alla Montecatini erano distribuite nel raggio di qualche centinaio di metri la Oerlikon, la Ceretti-Tanfani, la Carlo Erba, la Face Standard, grandi nomi in mezzo a una miriade di piccole aziende oggi scomparse per far spazio al nuovo campus del Politecnico. 

A ogni cambio di turno vedevo fiumi di tute blu entrare e uscire dai cancelli e sentivo mescolarsi dialetti diversi, il milanese al pugliese, il bresciano al calabrese, la parlata lombarda degli operai più professionalizzati a quella dei meno qualificati, i meridionali che abitavano le case più vecchie e degradate. 

In Bovisa c’ero arrivato un mese dopo la mia ordinazione sacerdotale ed è inevitabile – scusate questa lunga parentesi personale – che sia una delle memorie più vive ed intense della mia vita. Ricordo che per cercare di familiarizzare con il quartiere e i suoi abitanti, io che arrivavo da Saronno, camminavo per via Andreoli, via Morghen, via Lambruschini e ascoltavo le voci dei ragazzini nei cortili delle case di ringhiera, i richiami delle mamme in un dialetto che ancora non sapevo riconoscere se napoletano o catanese.  

Di giorno mi occupavo dell’oratorio, di come aiutare i ragazzi a crescere in una fetta di città che cominciava a ribollire di fronte alle evidenti disparità sociali, a un sistema scolastico che lasciava al margine i figli degli immigrati dal Sud e dei meno abbienti, le scuole popolari che cercavano di tamponare la falla, la preoccupazione di tanti uomini e donne di integrarsi in fretta nella grande città cancellando abitudini e storie del paese natio e, all’opposto, la ribellione di chi, soprattutto i più giovani, si opponeva all’appiattimento di una tradizione che faticava a vedersi riconoscere spessore dalla cultura dell’epoca. 

Sui banchi della scuola popolare, dove l’obbiettivo era far prendere la licenza media al maggior numero possibile di giovani immigrati, la questione meridionale non era teoria, nessuno sapeva chi fossero Croce o Salvemini, Nitti o Fortunato, ma geografica nel senso letterale del termine: luoghi, regioni, paesi, contorni, distanze da cui emergevano prima i ricordi, poi i confronti, le nebbie e i fumi di Milano contrapposte all’azzurro del mare di Calabria meta, d’estate, delle prime vacanze insieme ai giovani io, nordico, alla scoperta di un nuovo mondo, loro, figli di immigrati, alla riscoperta di una terra tante volte ascoltata nei racconti quasi fiabeschi di nonni e genitori.

 

In quella Milano di fine anni Sessanta, questione meridionale e questione sociale crescevano insieme. Crescevano, lo avvertivo con chiarezza, nelle parole orgogliose di chi chiedeva rispetto e  un lavoro, dicendosi disposti ad abitare nelle tristi e decrepite case di ringhiera affittate dai milanesi in cambio di una prospettiva di vita migliore per sé e soprattutto per i figli. 

È in quegli incontri, in quelle serate dove mi era impossibile dire no all’offerta di un piatto di pasta o di un bicchiere di vino, che per la prima volta ho avvertito che grande risorsa sia il senso del vivere collettivo che, da allora, è entrato in me e condizionandomi in tutte le attività successive. 

Se chiudo gli occhi ho ancora presente la scena in un appartamento di via Andreoli, durante la cena con un gruppo di famiglie, quando un giovane padre napoletano mi ha detto quello che da allora è non ho più dimenticato: “Si ricordi, reverendo, che in un sacco di noci ci sta un sacco di miglio”. Ragionando su questo messaggio credo di essere riuscito a fare, insieme a tanti amici e a tanti sostenitori, quello che siamo riusciti a realizzare alla Casa della carità, il centro di ospitalità e di accoglienza per le persone più bisognose che il cardinale Carlo Maria Martini ha voluto aprire dieci anni fa a Milano per mettere insieme culture, patrimoni di conoscenza, sofferenza e salute come punto di partenza per uno sguardo nuovo sulla metropoli. 

Nel sacco di noci in cui sta un sacco di miglio io ci vedo un imperativo etico che, non a caso, mi è stato ricordato da un uomo del Sud: nello spazio che noi crediamo già saturo ci può stare molto di più se siamo disposti a cambiare radicalmente. 

Ecco la prima dimensione che non intacca l’insostenibile pesantezza della questione meridionale, ma la impone come centrale anche dal punto di vista della coesione sociale. La soluzione deve stare dentro una cultura sociale e una risposta popolare (“Si può, se siamo disposti a cambiare radicalmente”) radicata nelle tradizioni, anche se negli anni è stata segnata da contraddizioni, condizionata da fenomeni drammatici di corruttela e criminalità consentiti anche dall’assenza nel territorio delle istituzioni e dell’arretramento dello Stato.

Io credo che il forte legame sociale che si è creato nella Milano degli anni Sessanta sia un elemento di cui siamo in gran parte debitori alla gente venuta dal Sud. Non credo sarebbero state possibili le battaglie per i diritti civili, per una scuola aperta a tutti, per un’organizzazione del lavoro meno opprimente, per una società più sensibile ai temi della solidarietà e del sociale, senza l’esperienza, il contributo, la testimonianza attiva delle migliaia di persone costrette a trasferirsi al Nord per cercare lavoro e un futuro migliore. 

Per me, questa resta una lezione fondamentale che mi dà forza per affrontare quotidianamente i temi e le emergenze legate ai migranti dei nostri giorni, siriani, magrebini, somali, etiopi, afgani in fuga da guerre e miserie, con lo stesso spirito che mi hanno insegnato i meridionali della Bovisa per contestare affermazioni preconcette dietro le quali, oggi come ieri, si celano piccoli egoismi privati e grandi vizi pubblici. 

È una lezione che mi fa dire che per fortuna, ieri come oggi, la vitalità della società civile è in grado di costruire ponti nonostante i fossati che la politica, o quanto meno una parte di essa, continua a scavare.

 

C’è però da aggiungere che affrontare oggi la complessità della questione meridionale, descritta in modo sintetico dalle cifre impietose della disoccupazione che vedono senza lavoro quasi sei giovani su dieci di quelli che lo cercano nel Mezzogiorno, contro un 40% di media nazionale, significa per forza di cose affrontare il tema della lotta alla criminalità. Al Sud ma anche al Nord visto il radicamento di mafia, ndrangheta, camorra in zone sempre più ampie del Settentrione, nella mia Lombardia, nella mia Milano, celato dietro i grandi affari e i grandi appalti pubblici, dietro la crisi del piccolo commercio e della piccola impresa strozzata dai debiti e dall’usura. 

Bisogna assolutamente spezzare la catena che porta alla rassegnazione, che considera la debolezza delle istituzioni come un segnale di resa prima che di collusione, che alimenta indifferenza e complicità. La lotta alle mafie passa dalla voglia, dimostrata da tantissimi giovani, da tanti imprenditori, da migliaia di cittadini pronti a resistere alle minacce e a sfidare il clima di omertà e paura. 

Penso ai ragazzi di Libera del mio amico don Luigi Ciotti: sono da poco stato a Napoli dove si sta ragionando come trasformare il tema dei senza dimora  in un obbiettivo di lotta alla povertà, rompendo con l’assistenzialismo per garantire a tutti dignità. Penso alle realtà cresciute in quartieri considerati perduti per la legalità. Penso al rione Sanità di Napoli dove, con don Antonio Loffredo, è cresciuta una straordinaria risorsa di imprenditorialità che, riscoperto e recuperato il passato delle catacombe, ha ridisegnato una progettualità aperta ai giovani. Penso alla Scampia di Gomorra dove non ci sono solo le belle storie dell’oro olimpico di Maddaloni ma trovano spazio attività culturali, centri di aggregazione, presenze straordinarie. Penso a Bitonto e alla sua vitalità associativa, a Modica dove una realtà cresciuta sul piano della solidarietà è diventata anche espressione politica e istituzionale. Penso a Locri dove sta affermandosi un potenziale cooperativistico. 

Sono realtà che sfuggono a ogni stereotipo di un Sud dove si muove solo la criminalità e che devono essere aiutate ad emergere e a far notizia in positivo. E penso ai tanti luoghi toccati dal progetto Policoro sognato da don Mario Operti e concretizzato dalla Conferenza Episcopale Italiana ormai da quasi due decenni. 

Tutti si devono dar da fare, nessuno escluso. Per questo, come prete, sono felice del discorso di Papa Francesco davanti alla gente di Calabria radunata nella piana di Sibari concluso con la scomunica agli aderenti alla ndrangheta che, avendo scelto di seguire il male, il malaffare e la violenza, si sono messi fuori dalla comunità. 

Un passo fermo e deciso che per me è la risposta più alta a uno splendido scritto di don Giuseppe Diana, assassinato a 36 anni dai casalesi per il suo impegno antimafia: “Le nostre Chiese – scriveva nella lettera “Per amore del mio popolo” diffusa nel Natale del 1991, tre anni prima della  sua morte – hanno urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe. Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili. Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia: “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… L’esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.  

 

Non c’è dubbio che gli errori di strategia economica nel progettare e immaginare gli interventi nel Mezzogiorno hanno condizionato il mancato sviluppo e il conseguente sempre maggior peso nell’economia meridionale della criminalità organizzata. Sono errori macroscopici, frutto spesso di un rapporto clientelare tra società e politica. Ad altri più competenti di me tocca indicare le soluzioni possibili. Io mi limito ad accennare alla necessità di rimettere in moto un circuito virtuoso che porti speranza, occupazione, prospettive certe e durature di sviluppo ragionando, per esempio, sul futuro del turismo nel nostro paese, un turismo che rispetti l’ambiente, che recuperi la storia e le tradizioni del passato, che punti su quello che di bello e di buono il nostro Belpaese può dare, che finalmente possa contare su infrastrutture degne di questo nome che consentano di sfruttare le mille potenzialità che il Sud ha nel turismo, nell’agroalimentare, nella green economy

Il problema è come dar spazio alle nuove idee che vengono dal basso, come sfruttare la vitalità di ampi settori di società civile disposti a mobilitare le loro competenze e professionalità, come mettere in rete progetti, come renderli trasparenti, come renderli inossidabili rispetto a quel vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche, diceva don Diana, “è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi”, come e dove trovare la sostenibilità finanziaria. 

Noi della Casa della carità siamo fieri della sintesi che usiamo per descrivere il nostro obbiettivo nei confronti di chi, povero o senza casa, migrante o disoccupato italiano, bussa alla nostra porta: “È  attraverso la presa in carico della persona nella sua globalità e il legame che instauriamo con lei che tentiamo di costruire insieme un progetto finalizzato all’autonomia”. Mi piace immaginare una cura per la questione meridionale che consideri il problema nella sua globalità e costruisca un progetto che ha per fine l’autonomia.    

Bisogna essere chiari: lo sviluppo del Sud, oltre che per una decisa lotta alla criminalità, per un serio piano di sviluppo che sfrutti i vantaggi di clima, posizione, storia e cultura del Mezzogiorno d’Italia, per un ruolo da protagonisti delle forze economiche e sociali che sanno indicare nuovi percorsi di crescita, deve diventare una questione nazionale. 

La politica deve capire che se non si affronta la questione meridionale non c’è futuro per il paese. Per questo vanno zittite le trombe di chi, appena si comincia a parlare di Sud, suona l’eterno motivetto: e le risorse dove le prendiamo e la compatibilità con gli impegni in Europa che fine fanno? Sono le trombe di chi sostiene che tra un Nord in crisi ma che conserva potenzialità di ripresa e di occupazione e un Sud in crisi (tripla) ma con scarse possibilità immediate di crescita (e quindi di occupazione) bisogna puntare al Nord, affrontare semmai la questione Settentrionale.

A questo ragionamento bisogna avere la forza di rispondere un no chiaro. La forza di dimostrare, statistiche alla mano, che non è vero che la locomotiva del Nord, quando riparte, si trascina dietro il vagone del Sud. Al Sud andrebbero (come sono andate in passato) le briciole e si rimetterebbe in moto, più o meno camuffatto, l’antico meccanismo assistenzialista fatto di interventi a pioggia, spreco di soldi pubblici, panacea per corrotti e corruttori.

 

 (*) Presidente Fondazione Casa della carità “Angelo Abriani” – Milano – www.casadellacarita.org

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