Ho l’ossessione, se non si può abbandonare questo lessico, della pensione dei giovani. Alcune categorie di lavoratori sono andati in pensione con 15 anni 6 mesi e un giorno di lavoro, altri sono andati con pensioni con un tasso di sostituzione del 110%, ovvero con pensioni più alte addirittura dell’ultimo stipendio. Chi paga il conto? Tra il 2020 e il 2030 le pensioni scenderanno verso il 46% dell’ultimo stipendio e il calcolo che fa la Ragioneria Generale dello Stato fa risultare che alle nuove pensioni si accederà dopo i 70 anni di età.
Bisogna dire tutta la verità: partendo dallo spiegare che oggi per pagare le pensioni in essere, servono ogni anno 40miliardi di € pagati dalla fiscalità generale ovvero dalle tasse, dei lavoratori italiani e dai pensionati con pensioni molto più basse. Aggiunto a questo c’è anche il tema dei vitalizi e delle pensioni d’oro: va ricordato che oltre ad essere inaccettabili, non garantiscono neanche l’equità tra gli anziani stessi, figuriamoci con i giovani.
Gran parte della separazione assistenza e previdenza è stata svolta nei computi dei bilanci degli Istituti Previdenziali, ma prima del ’95 era carente o molto confusionaria.
Occorre inoltre affrontare con decisione il tema della previdenza complementare. In breve, ciò che occorre fare: vanno incentivati fiscalmente i fondi integrativi negoziati e con una pensione Inps così bassa, quella complementare va resa obbligatoria. Il Governo, su questo, ha sbagliato tutto. Il Premier, quando si faceva consigliare dal Segretario della Fiom ha addirittura promosso il conferimento del Tfr in busta paga, e i giovani han capito che era una fregatura e non ci sono cascati. Ora, invece, bisogna renderli consapevoli del loro futuro previdenziale. Bene se questo avviene come si fa in molti paesi europei, con comunicazioni ad hoc come prevederebbe la cosidetta busta arancione, che pare arriverà fra un po’ di tempo.
Oggi gli aderenti ai fondi complementari sono soprattutto over 45 anni. Da questo punto di vista abbiamo fallito. Chi ne ha più bisogno è il più lontano da queste forme di protezione sociale, non sempre per condizione ma per scarsa consapevolezza
Prima tutto il sindacato molla la bufala dei cosiddetti “diritti acquisiti” e prima tornerà a seminare consapevolezza.
I diritti o valgono per tutti o mi hanno insegnato che vanno chiamati privilegi.
In molti casi, è vero, si tratta di privilegi acquisiti, che pagheranno gli altri con tasse e pensioni meno generose. E’ difficile dimostrare il contrario.
Nel 1994 ci siamo opposti alla riforma previdenziale del Governo Berlusconi e l’anno successivo, quella del Governo Dini, fu fatta con l’accordo con tutto il sindacato.
Riforma che appunto, introdusse le pensioni contributive, per coloro che al 31 dicembre 1995 non avevano ancora svolto 18 anni di lavoro.
Sento da troppi, fiumi di demagogia, in cui ci si dimentica chi paga il conto. Anche la Corte Costituzionale, fa bene a considerare alcuni diritti come prerogative, a partire dall’indicizzazione delle pensioni medio basse. Ma ricordo che è la stessa che difende i vitalizi dei politici e suoi. Gradirei che la Corte avesse lo stesso zelo nei confronti delle pensioni dei giovani.
Quando i lavoratori che oggi prendono 1500 euro netti si accorgeranno che avranno dopo 45 anni di lavoro 650€ di pensione, rischiamo il sommovimento sociale e una fascia di povertà che decuplica la sua platea. Io non ci sto a farmi dire, quando accadrà, dove era il sindacato. Non ci sto neanche a far sentire in colpa chi si è fatto 40 anni di lavoro in fabbrica, sui ponteggi di un edificio, in corsia in ospedale o su una volante della polizia o in tanti lavori in cui arrivare a 65 anni è inaccettabile. La spesa previdenziale è di 260 miliardi di euro, 85 dei quali per pensioni di under 65 anni. Non sono tutti lavori a turni, faticosi o usuranti e troppo spesso chi va in pensione presto, continua poi a lavorare in nero. Questo è un paese in cui parlano tutti dei “giovani” ma quelli pronti a lasciargli spazio sono sempre molto pochi.
Durante la crisi si è aggiunto un altro ammortizzatore sociale: quello della famiglia, in cui i pensionati hanno supplito ad un sistema di ammortizzatori sociali che non ha garantito il sovraindebitamento di numerosi salariati. C’è una bella indagine, in merito, fatta su questo dalla Fnp, la nostra Federazione dei Pensionati Cisl insieme a Demopolis.
Il tema del sovraindebitamento è un tema economico, di protezione sociale, ma anche culturale. Con Next e Proseguo stiamo lavorando molto su questo tema. Serve maggiore consapevolezza finanziaria, in particolare delle nuove generazioni: tutti sono spinti dentro la morsa dell’indebitamento o per condizioni di povertà, talvolta anche per inseguire uno stile di consumi al di sopra del reddito disponibile.
Penso che serva, come sostiene la Cisl un reddito, di inclusione sociale. Serve un paracadute universale, ma il tema centrale deve essere la costruzione delle occasioni di lavoro delle persone. Nella proposta di Boeri, un aspetto si avvicina alla nostra proposta, che però non riguarda solo gli over 55, e cioè che l’erogazione è condizionata ad un patto da parte dei membri della famiglia finalizzato all’inserimento lavorativo ed il reddito che derivasse da una nuova occupazione verrebbe conteggiato ai fini di questo “SIA55”, solo parzialmente e con gradualità fino al decimo mese dal nuovo impiego.
Detto questo, il nostro Paese, se non ripartono con vigore gli investimenti, se non si inizia a progettare un futuro di lavoro e crescita sostenibile e a programmarne le misure che ne sostengano un rilancio complessivo, rischia di avere più inoccupati che lavoratori. Servono riforme e sfide vere per tutto il Paese, a partire dal ceto imprenditoriale.
In questi ultimi anni, soprattutto a ridosso della lunga crisi economica, in molti contratti nazionali e aziendali è stato introdotto, o si è sviluppato, il capitolo del welfare aziendale, ossia la componente della retribuzione in natura, e in particolar modo riguardante prestazioni e servizi sociali, di sostegno al poter d’acquisto e alla conciliazione dei tempi vita-lavoro.
La molla è stata la consapevolezza che le disuguaglianze e il benessere dei lavoratori non possono essere declinate in termini di reddito. Si è visto nel welfare aziendale la possibilità di costruire risposte concrete ai bisogni delle persone con nuove forme che consentano economie di scala tali da garantire l’abbassamento della soglia di accesso a servizi come a beni e opportunità altrimenti di difficile fruizione.
Nei metalmeccanici stiamo recuperando molto velocemente i ritardi che ci sono stati nella nostra categoria dovuti, almeno in larga parte, all’ostilità della Fiom rivolta prima contro la previdenza integrativa, poi contro la sanità integrativa. Nel 1997 accettarono obtorto collo l’introduzione del fondo pensione integrativo Cometa nel contratto nazionale. La loro riserva era ispirata ad un timore di smantellamento del sistema previdenziale pubblico. Nel 2009 con la nascita del fondo sanitario integrativo Metasalute, la storia si ripete: la Fiom non accettò di prenderne parte, accusandoci di “smantellare il servizio sanitario nazionale”. Successivamente, però, a livello locale e nei contratti delle piccole e medie imprese hanno firmato ovunque per la costituzione di fondi di categoria.
Dal 2001 abbiamo scelto di non aspettare più e di praticare l’innovazione su questi temi recuperando ritardi significativi: il prezzo pagato è stato che su 6 contratti nazionali, la Fiom ne ha firmati solo due. Oggi la Fiom nel rapporto con alcuni gestori si è smarcata dal vincolo ideologico sostenendo alcuni fondi sanitari territoriali o nelle piccole e medie imprese.
Sta cambiando il patto sul lavoro: stiamo passando da uno scambio lavoro-retribuzione ad uno più ampio, ossia, lavoro-benessere. Il perno intorno al quale ruota il nuovo patto è lo sviluppo del welfare aziendale. Le implicazioni di tale cambiamento per i lavoratori sono importanti.
Un lavoratore già oggi valuta positivamente un’azienda, non solo in base al salario, ma anche al clima e appunto al benessere più generale. Le condizioni di benessere, solo in un’ottica economicista derivano dalle mere condizioni reddituali: sanità, previdenza, consumi sostenibili, formazione e studio possono diventare, invece, opportunità accessibili per fasce di lavoratori che oggi ne sono privi o sono esclusi, grazie alla sviluppo del welfare aziendale.
In realtà per molti aspetti stiamo torna alle origini: le vecchie mutue sanitarie e il social housing inventato dalle grandi imprese. Ricordate il villaggio Falck a Sesto San Giovanni? E le colonie estive per i figli dei dipendenti, le borse di studio?
Il Welfare pubblico deve certamente rimanere, ad accesso universalistico. Il welfare integrativo aziendale in rete con quello di prossimità, invece, può rappresentare una dimensione forte di risposta ai bisogni sociali, sia tradizionali che nuovi, in una logica integrativa, sapendo che lo Stato da solo non è più in grado di farcela,
Se si pensa, poi, ai problemi di sovraindebitamento dei lavoratori stessi un sistema di welfare integrativo può essere utile a orientare l’impiego delle proprie risorse ad un benessere reale e a scoraggiare l’inseguimento di una scheda di consumi insostenibile.
Il ruolo che può giocare il sindacato nello sviluppo del welfare nell’ambito della contrattazione aziendale è decisivo.
Solo dove non c’è consapevolezza si considerano sullo stesso piano le prestazioni di welfare fruibili per scelta unilaterale dell’azienda con quelli scaturiti da accordi con chi rappresenta i lavoratori. Il nostro ruolo si basa sul rilancio dell’attuale sistema di welfare integrativo. E’ necessario, perciò, intervenire sulle sue debolezze strutturali, sulle sue contraddizioni e sulle sue fragilità. Il fulcro del sistema è l’autonomia negoziale che negli anni ha costruito esperienze importanti di previdenza complementare e di sanità integrativa. La nostra sfida è andare insieme oltre l’attuale welfare integrativo verso un modello più inclusivo, più efficace ed esteso di protezione sociale. La rete di ammortizzatori sociali si è estesa ma è più “corta” in termini temporali e di integrazione al reddito. Credo che ci siano spazi per fondi bilaterali anti-crisi. Bisogna estendere, come in alcune aziende stiamo facendo, anche a nuovi ambiti la rete del welfare di prossimità che possiamo mettere in campo. A questo proposito dobbiamo avere la capacità di collegare il lavoro ad altre dimensioni di welfare, nate in questa fase con cui rendere la protezione alla persona più forte e più foriera di opportunità di promozione umana.
Siamo in un contesto di welfare mix: al fianco delle prestazioni pubbliche sono cresciute negli anni quelle di natura privata e contrattuale, in una logica di integrazione, e che hanno riguardato soprattutto la previdenza e la sanità, oltre altri ambiti. Rimane scoperto il capitolo dei nuovi bisogni sociali come l’assistenza agli anziani e ai familiari non autosufficienti.
Attraverso un accordo aziendale tra datore di lavoro e compagine sindacale, si mira a fornire ai dipendenti dell’azienda beni, servizi ed opportunità in molteplici forme, senza che questi rappresentino una diretta corresponsione di denaro. Questa infatti sarebbe gravata da oneri fiscali tali da renderla troppo onerosa per il datore di lavoro e poco percepibile dal dipendente. Per questo motivo attraverso gli accordi di Welfare aziendale si propongono alla comunità dei dipendenti beni e servizi graditi quali ad esempio: congedi, orari flessibili, part-time, banca delle ore, telelavoro, asili, scuole, tirocini, borse di studio, assistenza sanitaria, master, corsi linguistici, campus estivi, mensa, fondo pensioni, trasporto pubblico, e molti altri erogati in maniera diretta. Tra questi, un capitolo di sviluppo è certamente quello dei servizi alla persona, in particolare di assistenza alle persone anziane, in un’ottica di conciliazione dei tempi di vita con quelli del lavoro e della famiglia.
La normativa di riferimento sul welfare integrativo è di alcuni decenni fa, pensata in un momento storico diverso in cui non si pensava ad una crescita così sostenuta e rapida di questo strumento. E’ arrivato il momento di aggiornarla.
I fondi pensione di derivazione contrattuale devono essere ricondotti ad alcune caratteristiche di sostenibilità. Gli investimenti devono riguardare titoli, aziende, fondi che rispondano a principi di sostenibilità: libertà sindacali, sostenibilità sociale, ambientale. Stiamo lavorando molto con Next su queste cose. La democrazia economica può partire da qui. La reputazione delle multinazionali e della finanza è una grande opportunità. Bisogno iniziare a premiare chi si comporta bene con i lavoratori e con il pianeta. Li dirotteremo le nostre risorse.
(*) Segretario generale FIM CISL