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Bisogna recuperare il senso pieno della politica

Siamo ormai nel terzo millennio. Dobbiamo rapidamente rimettere ordine sul piano dei valori sociali e politici. Parlare di ”io” e di  “noi” senza allargare l’orizzonte del loro impegno rischia di essere un esercizio tardivo, addirittura sterile. 

Per rendere più chiara questa considerazione vorrei rifarmi ad uno degli ultimi scritti di Bruno Trentin, la “libertà prima di tutto”. Concentra la sua analisi sui cambiamenti colossali in atto. Esalta il valore della solidarietà e della libertà. Valori che da sempre riassumono le aspirazioni dell’io e del noi per quello che riguarda sia la realizzazione delle aspettative individuali, sia per quella collettiva (diritti civili, politici e sociali).

Lo spostamento della ricchezza in capo ai potentati finanziari e tecnologici e l’evidente rafforzamento di ruoli decisionali in Oriente, pongono problemi non aggirabili: c’è un brusco declino dell’io e del noi europei ed occidentali. Evidente è l’esito delle ultime elezioni europee. Si rinnega in modo consistente il “noi”, ci si rifugia in un “io” che pone soprattutto alla malconcia sinistra europea che a suo tempo aveva guidato le scelte a partire dalla tedesca, interrogativi che riguardano ormai la sua stessa esistenza.

In ogni caso una delle questioni centrali è la conseguenza della subordinazione delle sinistre europee al neo-liberismo che a sua volta ha creato élite molto distanti da quello che doveva essere il terreno privilegiato di azione: la classe lavoratrice, i giovani, coloro che per dirla con Pietro Nenni sono rimasti indietro. 

Si è giustamente sostenuto che si sta determinando una rivolta del “noi” delle periferie nei riguardi dell’”io” delle grandi città. E se si volge lo sguardo a quello che avviene fuori dal Vecchio Continente non possiamo che rilevare come le antiche periferie, il terzo mondo, è incamminato da tempo verso un ruolo sempre meno secondario per definire nuovi ed essenziali equilibri mondiali.

Una ripercussione di questo stato di cose sta nel fatto che non c’è più l’umiltà di accettare il fatto che la politica andrebbe ristrutturata da capo a piedi. Basta osservare le celebrazioni di questo periodo: Matteotti per un verso, Berlusconi e Berlinguer per un altro. Si ha l’impressione di non essere di fronte a protagonisti della storia politica con le loro luci e ombre, bensì ad icone da commemorare. E per quel che riguarda Giacomo Matteotti è scomparsa ipocritamente la lettura della sua visione politica che lo vide isolato battersi contro l’affermazione del fascismo, contro la politica economica di Mussolini che cancellava la conquista del riformismo sindacale di Buozzi, vale a dire la riduzione dell’orario di lavoro, la sicurezza ed i diritti del sindacato.

Cosa voglio sostenere con questo ragionamento? Occorre recuperare il senso pieno della politica che mette in relazione l’io ed il noi in nome di un confronto vero, del rispetto reciproco, della utilità del dissenso, della capacità di comprendere le ragioni dell’altro, ma non in modo asettico “televisivo” e social, bensì recuperando quella frattura che resta profonda fra classi dirigenti e i diversi ceti sociali. È un percorso da recuperare soprattutto per restituire qualità alla politica, alla progettualità, alla proposta, alle riforme. Caliamo il sipario sulla scena che ci offre oggi la destra. Si vedono sullo scenario politico, alla televisione e nei social ciarlatani, veggenti, influencer, maghi con l’algoritmo, predicatori, dimentichi del fatto che Google non perdona, pubblicando quello che gli stessi, sbagliando hanno proclamato, per vivere ora dicono il contrario per sopravvivere. È invece il tempo della politica dei redditi, della concertazione, della partecipazione, del dialogo. 

Questo orientamento ha esempi molto significativi: uno per tutti quella della Chiesa di Papa Francesco che, senza alcuna accademia, ha restituito centralità ai problemi della dignità umana, della lotta contro ogni forma di esclusione e di sfruttamento, della solidarietà, della pace. Una Chiesa che si sforza di avere la percezione sia di quello che avviene fra la gente, sia di quello che si muove nel mondo.

Un atteggiamento che, inutile dirlo, non è purtroppo prossimo alle nostre forze politiche ed alle attuali leadership. Di conseguenza, è positivo per esempio che gruppi dirigenti come quello del Pd abbiano deciso di affrontare i problemi non solo per i cittadini ma con i cittadini. È solo un inizio, che ha già offerto qualche risultato.

Insomma più si allarga lo spazio per il confronto e più è possibile che anche le forze di rappresentanza sociale ritrovino interlocutori non sfuggenti. Non saremmo così di fronte più al dilemma io e noi, ma all’esserci noi nel percorso che l’Italia fra mille difficoltà è chiamata a fare sul piano civile, economico e sociale. 

Il movimento sindacale ha mantenuto alcuni capisaldi della sua tradizione che sono importanti: la concretezza degli interessi di lavoratrici e lavoratori, la contrattazione, la forza di alcuni valori come quello primario della tutela della vita. Più appannata pare la fisionomia dell’azione imprenditoriale che pure esce da anni difficili. Entrambi questi interlocutori non hanno oggi un campo di gioco adeguato per esprimere le loro proposte. Pensiamo alla decadenza del nostro sistema industriale che continua a perdere colpi, mentre rimangono insolute questioni cruciali come il livello salariale, la produttività, gli effetti sulla organizzazione del lavoro della continua rivoluzione tecnologica. Qui sta fallendo la politica, anche e soprattutto la politica del Governo di centrodestra, anche se è difficile capire il perché la sinistra non si confronti come avveniva una volta con maggiore continuità e forza propositiva con il mondo delle organizzazioni dei lavoratori.

Una delle chiavi per rimettere insieme la forza (e la passione) dell’io e del noi non è però cambiata: riguarda sempre il coinvolgimento dei lavoratori. Le grandi svolte del passato sono riuscite perché non si è mai avuto il timore di affidare al mondo del lavoro dipendente gli obiettivi decisivi per cambiare le cose. Allora si sono affermate conquiste importanti ma sono anche cambiati gli interlocutori. 

Naturalmente l’Italia ha di fronte appuntamenti complicati: quello prioritario è di evitare il declino della sua vocazione manifatturiera che non può più essere esercitata senza tener conto di scenari totalmente cambiati. Ma anche qui il passato soccorre: c’è un noi cui non si dà il credito che invece nei decenni precedenti ebbe. Si tratta del rapporto fra le espressioni più significative della società e la cultura. 

Tema ancora più attuale visto che in ogni aspetto rilevante della vita collettiva, del…noi, è entrata di prepotenza la intelligenza artificiale. Il patron di Apple ha annunciato che anche il suo impero avrà una versione di essa. Ed Apple entrerà in comunicazione con milioni di utenti, scatenando presumibilmente nuove competizioni commerciali e non solo. Non si può stare a guardare se si vuole cambiare le cose. L’intelligenza artificiale è temuta, anche dopo che alcuni dei massimi esperti in materia hanno messo in guardia l’umanità. Bene, occhi aperti, ma senza dimenticare che ci sono risvolti positivi da utilizzare e che chi non saprà fare i conti con essa rischierà l’esclusione. E non stiamo parlando di qualche “io” ma di una nuova frontiera della conoscenza preclusa a tantissime persone. L’idea è quella di immaginare allora come può essere utilizzata per dare sostanza ad un riformismo che non ha mai avuto paura delle sfide, e che ha saputo avere e rafforzare un apporto della cultura.    

Quando si determinò un proficuo incontro fra questi due mondi si sono fatti passi avanti importanti sul piano dei diritti ma anche delle riforme e del miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Oggi questa collaborazione non emerge anche perché soffocata in parte da una logica autoreferenziale che predomina nella politica e svaluta altre possibili convergenze. Eppure fra l’io ed il noi il legame   più utile per tutti resta quello di ponti da costruire.  

Non servono i monologhi, occorrono i dialoghi. Bruno Buozzi, un riformista vero diceva: “non basta resistere un minuto di più del padrone; occorre conoscere almeno un libro in più”. Filippo Turati ricordava che i riformatori non si limitavano a parlare dei lavoratori ma volevano soprattutto parlare con i lavoratori.

Ezio Tarantelli nella sua intervista del 1° maggio 1984 auspicava di interrompere gli scioperi progettuali che allora da anni avevano bloccato i partiti sul tema della politica dei redditi e della predeterminazione dell’inflazione.

“What’s paste in prologue” è scritto nella ‘Tempesta’ di William Shakespeare. Eccone la traduzione “il passato determina il futuro”.

Insomma in un mondo che cambia sempre più velocemente occorre impegnarsi oggi più di ieri, per una politica dei redditi equa ed efficace nel nostro paese, a partire da un vero attacco, serio non burlesco all’evasione fiscale. Non possiamo stare con le mani in mano ‘en attendant Godot’. Si sta commemorando Enrico Berlinguer e Giacomo Matteotti a sinistra; Silvio Berlusconi a destra.

Commentava il 31 marzo del 1985 Ezio Tarantelli sulla Repubblica pochi giorni prima di essere assassinato: “il progetto per salvare l’Europa può mettere in prima linea assieme alle forze europeiste ed alla sinistra europea, la pulizia morale e la grande forza del PCI per il rilancio della occupazione europea. Questa era, dopotutto, l’intuizione geniale dell’eurocomunismo. Ma per questo grande progetto c’è bisogno oggi come non mai, di un partito comunista nuovo, capace di cambiare pelle anche sul tema centrale della politica dei redditi, un partito comunista italiano capace di predeterminare o programmare responsabilmente le aspettative o l’inflazione come ormai hanno fatto tutti i paesi europei”.

Qualche commento infine anche sull’Europa. Luigi Einaudi ha ricordato in un suo saggio che la penisola italiana tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500 godeva in Europa di una vera e propria egemonia in fatto di arte, cultura, innovazione, arte del Governo. Se quei piccoli stati italici avessero progettato e realizzato una forma di governo unico, mettendo in comune le loro risorse, non avrebbero subito le vicende che li avrebbero portati tutti indistintamente alla scomparsa. Si ritrovarono, sottolinea Einaudi, nel breve volgere di qualche secolo dal massimo splendore, all’ignominia della sconfitta da parte della storia.

Possiamo paragonare quella esperienza con la situazione della Unione Europea contemporanea che è formata da tanti stati piccoli e medio-piccoli allenati alla collaborazione e tuttavia sempre più ligi ai propri interessi nazionali. Rinunciare a intraprendere il percorso di trasformazione in Stati Uniti d’Europa significa compiere lo stesso errore di quei piccoli stati dell’Italia del Rinascimento. Significa scegliere l’irrilevanza, destino inevitabile per tutti e 27 in un mondo dove a contare nelle decisioni che riguardano il futuro del pianeta, sono soltanto gli stati grandi e potenti.

Per concludere. Dobbiamo ammettere che è tardi. Non è facile… ma lì possiamo ancora fare in tempo.

“Io” e “noi”, possiamo, anzi dobbiamo, essere capaci di farli dialogare.

*Già Segretario Generale della UIL, Presidente della Fondazione Buozzi

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