Sono ormai diversi anni che non riusciamo a uscire dall’inverno. E non è una questione di meteo. Mi riferisco al cosiddetto “inverno demografico”. Nel 2015 sono venuti al mondo 488mila bambini e bambine (8 per mille residenti), il numero più basso dall’Unità d’Italia. Il trend di quest’anno, dati Istat della scorsa settimana alla mano, è ancora peggio: da gennaio a giugno i nuovi nati sono diminuiti del 6%, il triplo rispetto a un anno fa. In poche parole, siamo a rischio di estinzione.
La mia esperienza mi porta a conoscere meglio la situazione romana – e Roma è sempre paradigmatica per tutto il Paese -, da presidente di un’Associazione come le ACLI di Roma che entra in contatto ogni anno con oltre 80mila persone, di cui almeno 10mila immigrati, che si rivolgono ai nostri Servizi di Patronato, assistenza fiscale, agli sportelli lavoro, ai Punto Famiglia radicati sul territorio, ai circoli e Nuclei.
Secondo le elaborazioni dell’Ufficio statistico di Roma Capitale su dati ISTAT, al 31 dicembre 2015, la popolazione romana è, in termini demografici, vecchia, determinata da un tasso di fecondità che non raggiunge il livello di sostituzione (2,1 figli per donna). A Roma, se si sommano tutti i bambini e tutti i ragazzi fino a 24 anni (fascia d’età 0-24 anni) si ottiene una fetta di popolazione pari solo al 22,4 %. Restringendo l’analisi ai minori fino a 14 anni si evidenzia che sono solo il 13,5 %, una quota veramente ridotta.
L’età media degli sposi romani è 34,6, per le spose 32,5 e questo innalzamento dell’età del matrimonio, che si ripercuote inevitabilmente sull’età della prima gravidanza. Un dato, come spiegano i demografi, prodotto da molti condizionamenti, in parte esistenziali (la ricerca del partner giusto), in parte culturali (il desiderio di una lunga autonomia), in parte, forse soprattutto, economici (la ricerca dell’occupazione e di un reddito sufficiente). Quest’ultimo è il fattore su cui vorrei soffermarmi anche perché ritengo che non sia di poco conto, se si pensa che all’inizio del 2015 la disoccupazione giovanile a Roma orbitava intorno al 40 %. Il lavoro manca e quando c’è è spesso precario, in nero, mercificato, ridotto a mero scambio prestazione/compenso.
Una cattiva occupazione non dà né diritti di cittadinanza né stabilità, privando di fatto della possibilità di fare progetti a lungo termine, come fare famiglia. Al contrario, quindi, un lavoro decente dà piena cittadinanza e si rivela uno strumento di inclusione sociale e anche, ne sono convinta, il modo per uscire dall’inverno demografico di cui sopra.
Lo pensano anche i giovani, come è emerso da una recente indagine “Avere 20 anni pensare al futuro” voluta dalle Acli di Roma e dalla Cisl di Roma e Rieti, nell’ambito del progetto “Job ti go, il lavoro svolta!“, realizzata con la collaborazione tecnica dell‘Iref, l’Istituto di ricerche educative e formative delle ACLI. Per oltre mille giovani – tanto il nostro campione, decisamente rappresentativo – il lavoro dignitoso è uno dei presupposti per mettere su famiglia.
Alcuni dati di questa indagine, sono davvero drammatici. Un ragazzo su due è pronto a fare le valigie lasciando la città eterna che evidentemente non rappresenta più un terreno fertile sul quale investire per gettare le basi del proprio futuro. La conseguenza è che la famiglia se la fanno all’estero, andando ad incrementare le nascite in altri Paesi. Dopo che un genitore, è stato calcolato, mediamente spende 180mila euro per crescere un figlio fino a 18 anni, è sempre all’estero che il pargolo dal cervello in fuga andrà a pagare le tasse.
E intanto qui, pur di tenersi un lavoro, i giovani, sempre secondo la nostra indagine, sarebbero pronti a rinunciare a malattia, parte dello stipendio, ferie e addirittura alla maternità, appunto. Come a dire: non si fanno più bambini e quando, coraggiosamente, nascono, vengono al mondo figli di nativi precari che, a loro volta, hanno già sulle spalle il peso di debiti che non hanno creato loro.
Alla base di tutta questa analisi, quindi, c’è un grande problema soprattutto culturale, perché i figli hanno un valore pubblico e sociale, non sono solo un affare privato. Tutelare i figli, anche quelli degli altri, e investire su di loro oggi, significa assicurarsi un futuro domani, sia da un punto di vista economico che biologico, sia di sopravvivenza della specie.
Credo dunque che il tema della denatalità vada affrontato non solo nell’ambito delle politiche sociali – che per lo più, riguardano problemi da risolvere – ma in quello delle politiche di empowerment per la famiglia, che riconoscono la famiglia stessa come soggetto sociale su cui investire come risorsa. Non parlo di fantascienza, a meno che non siano alieni Paesi europei virtuosi come Francia, Olanda, Germania, dove si comincia alla nascita con assegni sostanziosi e si prosegue con servizi adeguati a 360 gradi.
Già, i servizi, altro tasto dolente qui da noi. E non sono solo le mamme a chiederli a gran voce, mentre si arrabattano alla meno peggio per armonizzare famiglia e lavoro; ma anche i giovani della nostra indagine chiedono lavoro e accesso al credito per fare famiglia.
Occorre allora un approccio multitasking con risposte immediate, che richiedono investimenti anche urgenti, per i quali non si può aspettare, e altre di lungo periodo, che il cambiamento culturale sulla famiglia richiede una rivoluzione copernicana dai tempi dilatati, certo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare. L’inverno demografico italiano non è irreversibile. Basta (non) volerlo.
(*) Presidente delle ACLI di Roma