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La questione salariale non passa dal salario minimo legale

Onorevole Presidente, Onorevoli Senatrici e Senatori,

la discussione che il Parlamento avvia circa la introduzione in Italia di un salario minimo orario costituisce una utile occasione per riflettere e intervenire su come meglio tutelare i salari dei lavoratori italiani e più in generale su come rilanciare una azione per il loro incremento. Anche per questo motivo le nostre Organizzazioni Sindacali ringraziano per l’odierna audizione.

In Italia esiste una “questione salariale” che Cgil, Cisl e Uil hanno sollevato da tempo e che deve essere affrontata e richiede risposte urgenti. Dobbiamo fare in modo che anche questo provvedimento contribuisca realmente, insieme alle necessarie misure per ridurre il carico fiscale a vantaggio delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti, al raggiungimento di questi obiettivi.

Cgil Cisl e Uil tuttavia ritengono che questo dibattito, e la conseguente adozione di provvedimenti congrui ed efficaci, debba assolutamente basarsi sulle caratteristiche peculiari, anche nel panorama europeo, del sistema di contrattazione collettiva vigente in Italia.

In tutta Europa la contrattazione collettiva, per come è organizzata e a seguito anche dei cambiamenti economici, registra tassi di copertura dei lavoratori dipendenti importanti ma mai totali, ed in alcuni casi decrescenti. In diversi Paesi europei le stesse Organizzazioni Sindacali hanno sollecitato l’adozione di un salario minimo legale, esattamente al fine di tutelare importanti quote del mercato del lavoro non coperte dalla contrattazione salariale o per affrontare situazioni di minimi estremamente bassi.

Nella maggior parte dei casi la legislazione sui minimi si è sviluppata in paesi dalle relazioni deboli, e una delle richieste della Ces è che i Governi si avvalgano sempre della partecipazione delle Parti sociali nei processi di questo tipo. Il tema che la Ces ha sollevato, con la campagna Pay Rise, è innanzitutto la necessità di far crescere i salari promuovendo una convergenza verso l’alto per superare alcune delle problematiche più evidenti, lo squilibrio e quindi la competizione fra Paesi, il differenziale salariale di genere, il lavoro povero. La strada maestra individuata è quella del rafforzamento delle Parti Sociali nella contrattazione collettiva e un rafforzamento del dialogo sociale.

In Italia siamo di fronte a una situazione nettamente diversa. Nel nostro Paese, la contrattazione collettiva nazionale non ha perso la propria efficacia generale e i campi di applicazione di tutti i Ccnl ci permettono di affermare che ogni attività economica e ogni lavoratore subordinato è coperto oggi da un Ccnl di riferimento e che anche i lavoratori a termine e in somministrazione godono delle stesse tutele retributive degli altri lavoratori subordinati.

Semmai dobbiamo denunciare come si stia affermando una tendenza opposta e problematica a quella europea, ovvero la proliferazione contrattuale, la diffusione di contratti poco e per nulla rappresentativi e in dumping (anche dal punto di vista retributivo) rispetto ai contratti stipulati dalle parti sociali maggiormente rappresentative. Questo è il vero problema, insieme alla evasione contrattuale e al crescente sommerso in molte attività, che affligge la regolazione salariale in Italia e che il CNEL ha ben evidenziato tramite i dati del proprio Archivio sui contratti nazionali, dimostrando l’aumento esponenziale di Ccnl stipulati soprattutto in settori a forte intensità lavorativa e a forte compressione di costi. In questo senso siamo in grado di rendere disponibili i 228 contratti stipulati da Cgil Cisl e Uil, sugli oltre 700 disponibili al CNEL .

Cgil Cisl e Uil ritengono, pertanto, che una norma di legge che si proponga di fissare un salario minimo orario legale per tutti i lavoratori dipendenti debba partire da questa realtà stabilendo il valore legale dei trattamenti economici complessivi previsti dai Ccnl. Questo al fine di aumentarne l’efficacia e di consentire l’adozione di adeguate sanzioni nei confronti di chiunque non rispetti quanto in essi contenuto.

Le quote di lavoratori che le statistiche e gli studi valutano come non coperti dalla contrattazione salariale nazionale (10-15% della popolazione lavorativa) sono, quindi, legate alla eccessiva diffusione del lavoro irregolare, di forme di sottoccupazione (basti pensare al fenomeno delle false cooperative che con regolamenti aziendali violano i Ccnl o delle false partite Iva che la recente riforma fiscale “flat tax” porteràa diffondersi) e di part-time involontari che l’introduzione del salario minimo legale non porterà a mitigare.

Il tema è particolarmente delicato nel campo degli appalti, dove il rischio di dumping e di evasione è più elevato e pare utile anche in questa circostanza ricordare che per la parte sociale e lavoristica il Codice dei contratti pubblici rappresenta uno strumento da valorizzare e quindi siamo contrari a rimetterlo in discussione su subappalti, applicazione dei Ccnl, responsabilità in solido, clausole sociali.

Si tratta invece di intervenire stabilendo, da un lato, il valore legale di quanto previsto dai Ccnl e, dall’altro, con controlli più puntuali e interventi correttivi a ridurre queste fasce di sfruttamento, agendo, contemporaneamente, contro il fenomeno dell’evasione contrattuale.

Da questo punto di vista, Cgil, Cisl e Uil ribadiscono la necessità di implementare gli investimenti sulle risorse umane dedite all’attività ispettiva poiché se prendiamo i dati Inps sulle aziende private con dipendenti riferiti all’anno 2017 (circa 1,8 milioni di aziende private) e li mettiamo in rapporto ai 4 mila ispettori del lavoro in organico (2,5 mila ispettori del lavoro, a cui si aggiungono 1,5 mila ispettori Inps e Inail), emerge che ogni ispettore dovrebbe controllare mediamente 456 aziende in un anno.

È del tutto evidente che c’è un forte sbilanciamento delle forze ispettive rispetto al fenomeno del lavoro irregolare che rende impossibile fare controlli a tappeto. Dare valore legale ai Ccnl stipulati dalle organizzazioni comparativamente maggiormente rappresentative, inoltre, avrebbe anche il merito di facilitare gli Ispettori del lavoro nei loro controlli.

Evidenziamo, inoltre, come la sola definizione di un salario minimo legale orario, se non dovesse riconoscere valore legale ai minimi salariali predisposti dai Ccnl, ben difficilmente riuscirebbe a garantire quel “trattamento economico complessivo” che la contrattazione collettiva ha ormai sancito in ogni comparto lavorativo, così come le forti tutele normative da essa garantite. Infatti, le attuali retribuzioni dei lavoratori italiani non sono costituite meramente dai minimi orari ma sono composte da più voci retributive (13^ e in alcuni casi 14^ mensilità, dinamiche retributive dei livelli di inquadramento, maggiorazioni per prestazioni orarie o di altro tipo, ferie, indennità, EDR ed altri voci e premi retributivi settoriali di carattere nazionale) e da ulteriori tutele che risultano essere sostanziali e fondamentali per un dignitoso rapporto di lavoro (riduzioni di orario contrattuali, tutele per malattia, maternità, infortuni superiori a quelle di legge, erogazione di un welfare previdenziale e sanitario diffuso e significativo). In sintesi, l’effettiva retribuzione oraria di un lavoratore coperto da Ccnl è ben superiore al semplice minimo tabellare. Del resto tale riferimento alla retribuzione oraria complessiva determinata dalla contrattazione è utile e necessario che diventi vincolo normativo anche per le gare di appalto al fine di impedire la logica del massimo ribasso e delle pratiche in dumping.

Di conseguenza, riteniamo che per rispettare e consolidare il ruolo salariale svolta dai Sindacati e dalla contrattazione collettiva sia possibile assumere i minimi tabellari dei Ccnl come salario orario minimo per legge, in modo da garantire queste tutele retributive adeguate e indispensabili.

Cgil, Cisl e Uil sono, inoltre, fortemente preoccupati da probabili effetti collaterali pericolosi che l’introduzione del salario minimo orario legale diverso da quanto predisposto dai Ccnl rischia di comportare. Esso, infatti, potrebbe favorire una fuoriuscita dall’applicazione dei Ccnl rivelandosi così uno strumento per abbassare salari e tutele delle lavoratrici e dei lavoratori. In particolare, tale rischio diviene maggiormente concreto stante la diffusa struttura di piccole e micro imprese presenti nel tessuto economico italiano e la natura della validità della contrattazione collettiva nel nostro Paese. Rischiamo infatti, con l’introduzione di un salario minimo legale, che un numero non marginale di aziende possano, appunto, disapplicare il Ccnl di riferimento (semplicemente non aderendo a nessuna associazione di categoria), per adottare il solo salario minimo e mantenere “ad personam”, o con contrattazione individuale, i differenziali a livello retributivo, senza dover erogare né il salario accessorio né rispettare le tutele normative che ad oggi il Ccnl garantisce. La struttura dell’economia italiana e le caratteristiche di molte piccole e micro imprese rischiano di favorire in misura esponenziale una vera e propria diaspora dalla contrattazione nazionale. Riteniamo tale rischio gravissimo e dannosissimo per il diritto ad una retribuzione e ad un trattamento dignitoso e migliorativo per i lavoratori italiani, sempre considerando che il valore del Ccnl non può essere confinato ai soli aspetti salariali.

Non di meno l’introduzione di un salario minimo legale che non coincida con quanto stabilito dai Ccnl costituirebbe un fortissimo disincentivo al rinnovo di alcuni contratti nazionali, relativi a settori ad alta intensità lavorativa, a basso valore aggiunto e a forte compressione dei costi. In tali settori già oggi il rinnovo dei contratti avviene con ritardi che pesano sui lavoratori e l’introduzione del salario orario minimo rischierebbe di rendere irraggiungibile un loro rinnovo.

Più che un problema di inadeguatezza dei minimi, infatti, nel nostro Paese c’è una evidente inadeguatezza dei livelli medi e mediani dei salari. Tema su cui gli interventi più opportuni, oltre alla già citata riforma fiscale sono il rilancio degli investimenti a partire da quelli pubblici per creare lavoro e aumentare la produttività totale dei fattori.

L’indicazione di un salario minimo legale rischia quindi di standardizzare al ribasso la condizione di molti lavoratori, piuttosto che costituire un fattore di emersione.

Inoltre, un salario minimo orario diverso da quello previsto dai Ccnl non servirebbe nemmeno a sostenere quella crescente quota di cosiddetti “lavoratori poveri” dovuti alla forte crescita registrata dai rapporti di lavoro a part time involontario nella struttura dell’occupazione italiana. Per questi lavoratori servirebbe poter lavorare di più o contare su altre forme di integrazione.

L’adozione per legge dei minimi salari previsti dai Ccnl potrebbe, inoltre, essere un efficace strumento anche per tutelare le forme di lavoro legate alla diffusione delle piattaforme digitali. I lavoratori inquadrati come collaboratori ma legati alla economia delle app devono poter godere di trattamenti normativi e retributivi legati a Ccnl di riferimento, come recentemente sancito anche dalla Corte di Appello di Torino in merito all’inquadramento e ai diritti dei riders, in attuazione dell’art.2/d.lgs. 81/2015.

Osserviamo inoltre che in tutti i paesi europei nei quali è stato introdotto il salario minimo legale orario, sono state previste fasce di lavoratori particolari e di specifiche tipologie contrattuali (spesso giovani Neet, apprendisti, disoccupati di lunga durata, ecc.) esentate dal rispetto dello stesso. Vogliamo però considerare in modo interessante e utile alcune disposizioni che i Ddl in discussione predispongono nel loro articolato. In particolare, il Ddl 658, nel combinato disposto dagli artt. 2 e 3, stabilisce che in prima battuta la retribuzione proporzionata e sufficiente, ai sensi dell’Art. 36 della costituzione, è quella stabilita dal trattamento economico complessivo dei Ccnl, a partire da quelli stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale in ogni categoria. Da questo punto di vista, sottolineiamo che il riferimento ai Ccnl riesce a garantire e tutelare efficacemente anche le specificità dei diversi settori produttivi.

Nella Relazione di accompagnamento al Ddl 658 si sostiene che la misura serva per superare una situazione in cui alcuni comparti sarebbero regolati dalla legge (appalti pubblici e cooperazione) mentre altri non lo sarebbero. Pare utile evidenziare che le leggi che regolano il rispetto dei minimi contributivi ai fini previdenziali e assicurativi riguardano tutte le imprese e fissano riferimenti precisi sui Ccnl da applicare. Queste leggi (decreto 388/89, l.549/95) sono state prese a riferimento anche per la convenzione INPS CNEL del giugno 2018 ai fini della costruzione della banca dati dei contratti nazionali e per la circolare INL per orientare le attività ispettive.

Cgil Cisl e Uil condividono la necessità di fissare, inoltre, i trattamenti economici così definiti con validità “erga omnes” per tutte le imprese e per tutti i lavoratori di ogni settore, riuscendo in tal modo a conferire valore legale e generale ai livelli di retribuzione di natura contrattuale.

È questa la strada maggiormente utile a contrastare anche il crescente e dannoso fenomeno dei cosiddetti “contratti pirata” che realizzano un vero e proprio dumping salariale agendo spesso non solo e non tanto sui minimi tabellari ma anche su diverse altre voci retributive.

A tal fine è indispensabile che vengano recepiti, in via sperimentale, i contenuti e le soluzioni per la misurazione della rappresentanza sindacale predisposti in particolare in attuazione del Testo Unico tra Cgil Cisl Uil e Confindustria del gennaio 2014, ma anche da tutti gli altri protocolli con tutte le altre controparti che devono trovare immediata attuazione. Analogamente è indispensabile e non più procrastinabile realizzare una medesima soluzione per la misurazione della rappresentatività delle Associazioni datoriali.

Dobbiamo evidenziare a tal fine come in questi mesi il Ministero del Lavoro non abbia voluto dare attuazione alla convenzione definita con Inps, Confindustria e Cgil Cisl e Uil proprio per giungere alla definitiva misurazione per ogni settore manifatturiero della reale rappresentatività di ogni organizzazione sindacale. Si tratta di una ingiustificata mancanza che chiediamo venga rimossa. Tutti questi atti richiedono la leale collaborazione delle Istituzioni e rappresentano il presupposto degli stessi interventi normativi che si dovranno compiere da parte delle stesse.

Siamo convinti che se il Parlamento procederà nello stabilire gli ulteriori criteri indispensabili a valorizzare e rendere efficaci universalmente le disposizioni sulla retribuzione stabilite dai Ccnl negoziati da organizzazioni autorevoli e rappresentative, come sancito dalla nostra stessa Costituzione, lo stesso darà un importante contributo a fare in modo che i trattamenti minimi e complessivi definiti negli stessi vengano adottati come quelli a valore legale per tutte le imprese legate al campo di applicazione dello stesso, realizzando di fatto quella estensione erga omnes che inibirebbe il dumping contrattuale e contribuirebbe a ridurre e probabilmente eliminare quelle sacche di bassi salari ingiustificati che nelle pieghe delle attuali norme si sono diffusi. Il tutto senza stabilire unaunica misura universale di salario minimo orario legale.

 

*Memoria presentata nell’audizione su salario minimo orario presso la Commissione Lavoro del Senato, Audizione del 12 marzo 2019

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