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O salario minimo per legge o applicazione dell’art. 39*

Essenzialmente le obiezioni al salario minimo per legge attengono alla discussione se tale potere debba appartenere alle parti sociali che lo esercitano liberamente tramite la contrattazione collettiva o allo Stato che lo esercita tramite la legge.

In realtà forse stiamo parlando di due cose diverse: un conto sono i minimi tabellari fissati dalla contrattazione nazionale, che incorporano una parte di redistribuzione della ricchezza creata: premiano quindi almeno in parte  i risultati generali del comparto (una distribuzione più importante e articolata dovrà spettare alla contrattazione aziendale, che gestirà la premialità). Non a caso i minimi tabellari sono differenti a seconda dei comparti: non rappresentano un minimo vitale, ma la retribuzione minima per chi lavora in quel settore, relazionata alla ricchezza che il settore può redistribuire.

Un salario minimo legale rappresenta invece una condizione minima garantita universalmente, con finalità di assicurare a chiunque lavori un trattamento che prescinda dalle condizioni contingenti dell’impresa e/o del comparto.

Un’ipotesi che pone alcune questioni serissime, e non liquidabili con la spensierata sciatteria con la quale anche personaggi di governo e non approcciano la questione.

A chi è necessario un salario minimo di legge in un paese dove la copertura sindacale è piuttosto diffusa?  Perchè la contrattazione collettiva non può farsi carico del salario minimo universale? Come impatterebbe un salario minimo legale con il sistema della rappresentanza collettiva?

Cominciamo con la prima domanda: a chi serve?

Nel 2015 il fissato nei contratti collettivi (cioè il livello più basso, includendo eventuali tredicesime e quattordicesime) era in media di 9,41 euro, Si tratta di cifre relativamente alte rispetto al salario mediano di fatto che era di 11,77 euro lordi. Il rapporto minimo/mediano in Italia è di circa l’80 per cento quando in Francia il salario minimo nazionale lordo, che in molti casi equivale ai minimi negoziati negli accordi settoriali, è circa il 60 per cento e in Germania è intorno al 50 per cento. Incrociando i dati ISTAT su minimi tabellari e salari scopriamo che circa il 10 per cento dei lavoratori riceve un salario orario mediamente del 20 per cento in meno rispetto al minimo settoriale. Vuol dire, a dati 2018, circa 2.300.000 persone! Peraltro, come è intuibile, la distribuzione di questi  lavoratori sotto retribuiti non è omogenea né a livello territoriale né di dimensione aziendale (vedi grafici sotto)

DIMENSIONE DELL’IMPRESA        % DIPENDENTI SOTTOPAGATI

< 10 DIPENDENTI        18,79%

11 – 15 DIPENDENTI   13,14%

16 – 19 DIPENDENTI   11,48%

20 – 49 DIPENDENTI   9,17%

50 – 249 DIPENDENTI 6,05%

> 249 DIPENDENTI    3,99%

Fonte: A. Garnero, The Dog That Barks Doesn’t Bite: Coverage and compliance of sectoral minimum wages in Italy, IzaDiscussion Paper No. 10511.

 

Del resto sono depositati al CNEL ben 868 CCNL, 320 di più rispetto al 2012, di cui solo 1/3 firmati da CGIL CISL e UIL; anche a voler aggiungere a questi i Contratti stipulati da Sindacati autonomi dalle tre maggiori Confederazioni ma dotati di una vera base associativa e attori di pratiche sindacali “serie” è evidente che sono centinaia i CCNL che possiamo definire di comodo, che, formalmente legali, fissano però condizioni salariali al ribasso.

Va tenuto conto anche di una percentuale difficile da definire con precisione, ma certamente non irrilevante, di lavoratori autonomi “economicamente dipendenti”, essenzialmente finte  “partite IVA” o monocommittenze. Stiamo parlando di una platea di circa 5.300.000 lavoratori autonomi, per cui se parliamo di 3.000.000 di persone sottopagate tra autonomi e dipendenti ci avviciniamo alla realtà probabilmente per difetto.

Seconda domanda: perchè non può bastare la contrattazione sindacale?

Perchè l’art.39 della Costituzione è rimasto inattuato: esso riconosce efficacia obbligatoria universale soltanto per gli accordi siglati da Sindacati Registrati che rappresentino la maggioranza degli addetti del settore cui si riferisce il CCNL. Purtroppo nessuna Organizzazione Sindacale è, per l’appunto, registrata, e comunque rimane ancora forte l’ostilità dei sindacati ad una legge applicativa dell’art. 39. L’accordo resta pertanto vincolante solo per chi lo sottoscrive, e nulla può vietare ad un’organizzazione che si autodefinisce sindacale tramite regolare procedura notarile di firmare un contratto con retribuzioni al ribasso, che poi qualunque impresa non aderente alle Associazioni Datoriali “ufficiali” può applicare ai propri dipendenti. E’ ben vero che la giurisprudenza consolidata, nel caso di contenzioso giudiziario, riconosce ai lavoratori la retribuzione fissata dai CCNL siglati dai Sindacati “maggiormente rappresentativi”, ma evidentemente non si tratta di un rimedio efficace, visto il numero dei lavoratori sottopagati!   Ancora più difficili le condizioni di quei lavoratori che per effetto di un “accordo”, ricevono sì una busta paga con le dovute retribuzioni contrattuali, ma sono costretti a restituirne una parte al datore di lavoro. Né si capirebbe perché il presidente di Legacoop, Mauro Lusetti invoca il salario minimo per legge per difendersi dai ribassi anomali nelle gare di appalto.

Il punto è che, come dimostrano le tabelle sopra riportate, la gran parte dei sottopagati si colloca nelle aziende minori e nelle Regioni in cui il confine tra lavoro regolare e lavoro nero è poco netto, la presenza del sindacato è  marginale, e quindi c’è poca propensione da parte dei lavoratori ad affrontare cause giudiziarie, dall’esito peraltro non sempre scontato, per reclamare una retribuzione equa. Tutto questo rende la “via giudiziaria” certamente praticabile ma insufficiente a risolvere radicalmente il problema.

Terza domanda: il salario minimo per legge invaderebbe lo spazio della contrattazione collettiva?

Dipende: se la retribuzione minima viene fissata a ridosso dei minimi tabellari previsti dai CCNL certamente potrebbe risultare depotenziata la Contrattazione Nazionale, anche se occorre ricordare che il CCNL si occupa di altre cose oltre al salario base: maggiorazioni per straordinari, turni ecc., riposi, orari, inquadramento, formazione continua, diritti sindacali, permessi, ecc. E comunque non verrebbe minimamente limitata la contrattazione di secondo livello, aziendale o territoriale.

Viene segnalato viceversa il rischio che fissando un minimo significativamente inferiore ai minimi contrattuali si possa indurre parte delle imprese ad adottarlo per risparmiare rispetto al CCNL. È vero, ma è anche vero che le aziende che potrebbero essere interessate a quest’operazione sarebbero sostanzialmente le stesse che già oggi non applicano nessun CCNL o ne applicano uno di comodo, e che determinano un ribasso retributivo mediamente del 20%: sarebbe quindi probabilmente opportuno ragionare attorno a questa soglia per determinare effetti concreti. Scendere troppo significherebbe creare le condizioni per un peggioramento; salire senza arrivare a ridossi dei minimi contrattuali dovrebbe concretamente migliorare le condizioni di quel 10% di dipendenti che sono sottopagati, per non dire degli “autonomi” che non godono neppure di una simulazione di contratto collettivo e sono in completa balia dei rapporti di forza con il committente.

Del resto in Germania il minimo salariale di legge (vedi sopra) è attorno al 50% del salario mediano reale e ciò non ha minimamente intaccato il ruolo della contrattazione collettiva. Vero è che in Germania il tessuto di piccole imprese, che sono più propense ad eludere i CCNL, è molto inferiore all’Italia, e che la rappresentanza sindacale è più diffusa e soprattutto non frazionata. D’altra parte, questo paragone deve tener conto di una condizione normativa molto differente: soltanto la piena attuazione dell’art.39 restituirebbe al Sindacato la potestà legale per fissare minimi retributivi con valore obbligatorio. Oppure si potrebbe pensare (absitiniuriaverbis) a cambiare la Costituzione Più Bella Del Mondo…

I minimi contrattuali si applicano indifferentemente su tutto il territorio nazionale. Tuttavia (vedi grafico sotto), dati i ben noti diversi livelli di sviluppo tra le regioni, il peso relativo dei minimi tabellari è diverso sia che li si compari al potere d’acquisto regionale (del capoluogo di regione nella figura) sia rispetto al salario mediano regionale (il cosiddetto indice di Kaitz).

Questo naturalmente pone un ulteriore problema alla determinazione del salario minimo: un livello ragionevole in Lombardia potrebbe essere fuori mercato in molte zone del sud, e viceversa un livello accettabile al sud potrebbe essere irrisorio al nord. Crediamo che, se si vuol fare un’operazione che abbia effetti reali sulle retribuzioni, sia opportuno individuare un minimo orario medio per poi riparametrarlo per aree territoriali.

Infine, una considerazione politica: è condivisibile l’opinione che in materia retributiva sarebbe meglio affidarsi alla contrattazione tra le Parti Sociali, ma è altrettanto vero che in una cornice normativa come la nostra questa contrattazione non può avere effetti erga omnes. Ora è vero che il Parlamento potrebbe deliberare a seguito di un accordo tra le parti sociali (la cui piena rappresentatività dovrebbe essere oggetto di una formale legittimazione) ma non si comprende per quale ragione non si dia attuazione all’art.39 della Costituzione. Del resto si invoca continuamente il rispetto di questo o quell’articolo della Suprema Carta: perchè mai l’art.39 dovrebbe essere meno “sacro”? Sarebbe la soluzione più chiara e coerente, oppure si accetta un intervento di parziale supplenza del legislatore. L’alternativa è lasciare i sottopagati nella loro triste situazione.

 

*Da Mercato del Lavoro News, bollettino organo della Fondazione Anna Kuliscioff, n. 46

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