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Costruiamo la transizione

COP 28 ha raggiunto un risultato importante: ha fissato la data, il 2050; una data credibile concordata tra tutti, compresi i Paesi produttori di gas e petrolio e grandi consumatori che dotano i loro stadi di aria condizionata.

Si sono sbagliati? Sicuramente no; finalmente siamo culturalmente arrivati a pensare una transizione dai tempi credibili verso l’economia che avrà come motore (almeno prioritario) l’energia da fonti rinnovabili.

Sarà un percorso complicato pieno di tira e molla, che potrà essere realizzato se, superando enfasi e radicalismi, verrà avviata una transizione nei valori della cultura, della ricerca scientifica, del benessere sociale. Gli elementi di maggiore attenzione dovranno risiedere nella valutazione e nel rispetto delle necessità, delle possibilità, delle convenienze sostenibili

Iniziamo dalle convenienze. La prima, che hanno tutti i Paesi non produttori d’idrocarburi, è quella di abolire la voce “spesa energetica” diventando loro stessi produttori della loro energia: il sole sorge ovunque, il vento spira ovunque, l’economia del riciclo si realizza ovunque. 

Questo è il primo e vero punto di appoggio: dalla dipendenza all’autonomia, dalla spesa all’investimento.

Per non incorrere in facili radicalismi, dobbiamo avere la consapevolezza che il processo di sostituzione delle fonti energetiche sarà più semplice e celere nelle aree povere, marginali, in via di sviluppo e prive di fonti fossili. Sono queste che possono adottare, come motore della loro qualificazione, lo sviluppo incentrato su produzione e uso di energie pulite.

È chiaro come, avanzando la transizione e l’inversione della predominanza delle fonti fossili, aumenterà la tolleranza del sistema-Terra, tanto più se accompagnata da importanti processi di riforestazione generali e specifici. Questa maggiore tolleranza permetterà alle economie a forte produzione e consumo di energia da fossili, di riconvertirsi in tempi compatibili.

S’impone ora una riflessione generale: gli attuali cambiamenti climatici e dei sistemi ambientali non derivano da lenti processi biologici ma da condizioni convulse indotte da processi umani. È questo che riguarda il nostro presente: siamo noi che dobbiamo scegliere in quale presente vogliamo vivere.

È qui che la prima strada della transizione si potrebbe dividere: chi vive un presente piacevole nelle aree a clima temperato (le ottobrate romane, il clima del bel Paese, ecc.), dovrebbe essere sollecitato alla mitigazione dei processi di cambiamento. Al contrario un londinese che fino ad oggi ha vissuto nell’invidia per il bel clima mediterraneo, venderebbe volentieri l’ombrello per comprarsi un bel “panama”. Chi oggi dal mar Baltico viene nel Mediterraneo per la stagione balneare, sarebbe ben contento di avere sotto casa un piacevole mare temperato e davanti i Paesi Scandinavi.

Ricordiamocelo bene: i processi accelerati riguardano il presente con gli attuali assetti colturali, umani e paesaggistici. Delle due l’una: o, nelle aree oggi climaticamente privilegiate, si cambia il modo di produrre energia, oppure si accettano i cambiamenti delle attuali zone climatiche con le relative conseguenze sui nuovi assetti distributivi della flora, della fauna, dei paesaggi ecc. Cambiando il clima, cambia l’agricoltura ma cambiano anche i luoghi di vacanza, i luoghi temperati ecc.

Gli attuali cambiamenti indotti, essendo ‘celeri’ (anche per le accelerazioni derivate dalla natura che reagisce con veemenza nella ricerca dei suoi equilibri), implicano scelte che configureranno il nostro mondo nell’immediato.

La transizione deve essere programmata nella valutazione e nel rispetto delle necessità, delle possibilità, delle convenienze sostenibili e reciproche.

I cambiamenti riguardano il presente, riguardano noi, le nostre abitudini, il benessere a cui dovremmo rinunciare o quello che dovremmo acquisire.

Oggi noi cittadini dei Paesi (ex?) temperati abbiamo troppo caldo in estate, e d’inverno iniziamo la stagione sciistica (e spesso la continuiamo) solo sugli innevamenti artificiali. I “futuri”, di cui sempre ci preoccupiamo, non sono quelli delle ere geologiche, ma sono i nati in questo secolo, nella nostra visione storica-generazionale.

Facciamo chiarezza: con il termine futuri ci preoccupiamo del nostro presente e di quello leggermente “dilatato”.

La questione è questa: se vogliamo mantenere per noi il mondo così come lo abbiamo conosciuto, con gli ulivi, le vigne, i ghiacciai, il mare e le sue zone di pesca e di balneazione dove e come sono, ma anche le nostre abitudini e attitudini alle stagioni e ai trend climatici, allora dobbiamo cambiare il modo di produrre energia e gli attuali paradigmi dello sviluppo.

Se invece vogliamo che le zone climatiche e tutti gli assetti paesaggistici si spostino di qualche parallelo, (con gli attuali “paesaggi temperati” spostati verso i poli), allora continuiamo a produrre energia nei modi attuali, favorendo il mantenimento del suo modello di sviluppo e aspettando che imploda nei territori oggi considerati “confortevoli”. Ci sarà comunque chi investirà in città, uliveti e vigne nelle nuove regioni temperate.

È inutile nascondersi dietro il dito: vanno valutate le alleanze tra estrattori e produttori di energia da fonti fossili e agricoltori, immobiliaristi e cittadini di aree che nei cambiamenti climatici possono acquisire benessere.

La transizione deve essere il frutto di una cultura e di una diplomazia che prescinde dalle dichiarazioni e dagli interessi parziali.

Quello che lascia perplessi rispetto al successo a breve degli auspicati cambiamenti, non riguarda tanto le risoluzioni della politica e della diplomazia, quanto la fotografia degli attuali trend economici, produttivi e sociali di formazione e distribuzione delle merci e della ricchezza. Sta vincendo come sempre “la resistenza passiva”. Gli assetti consolidati si “fidano” delle “comodità” e delle “abitudini” sociali acquisite.

Che tutto cambi, purché nella formazione maggioritaria delle merci e della ricchezza nulla cambi? Se sarà così, addio transizione. La transizione è un percorso che deve portare subito risultati importanti che, anche se parziali geograficamente o settorialmente, servono da esempio mitigando i valori negativi e migliorando quelli positivi. 

Se i cambiamenti climatici riguardano il mondo, anche le variazioni economiche (produttive e di consumo) devono riguardare il mondo, e non nel riduttivismo della globalizzazione bensì nelle politiche delle scelte, degli equilibri, della salute nostra e del Pianeta.

La transizione si potrà governare solo con la politica economica.

L’economia ancora diffusa e imperante continua ad essere la stessa: con la stessa energia, le stesse abitudini, le stesse prevalenze. Del resto non si spostano milioni di lavoratori o migliaia d’impianti con i tempi che imporrebbero gli attuali cambiamenti climatici. Questo le lobby lo sanno ed è questo che fa del risultato un “successo di Tantalo” viste le fatiche che ci aspettano.

La transizione si attua di pari passo con la costruzione di un nuovo modello di sviluppo. Per questo è sempre più diffusa la convinzione che sia un vantaggio per tutti avviarlo nei territori oggi in trend negativo rispetto alla formazione e produzione di merci e ricchezza. Invece di “esportare” la tradizione produttiva dell’industrializzazione e della post-industrializzazione, costruiamo il nuovo in tutte le economie nascenti, nei territori che oggi non raggiungono gli standard di sviluppo e benessere delle aree ricche.

Istituti di ricerca, Università, mondo della cultura e della scienza sono sicuramente disponibili a fornire progetti di cooperazione complessi e anche d’integrazione tra modelli.

Facciamo in modo che i Paesi (e le Regioni) in via di sviluppo non continuino ad avere modelli e aiuti “tradizionali” che smaltiscono solo modelli e tecnologie dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione del tempo che fu.

Perché non proporre che tutta l’economia di cooperazione sia legata allo sviluppo sostenibile? Quasi ovunque le condizioni climatiche e naturali lo favorirebbero. Anche per il nostro Sud sarebbe una manna. L’AIE (Agenzia Internazionale dell’Energia) lo sta proponendo.

Per il nostro Sud, e per anni, le politiche nazionali hanno fallito cercando di imporre un modello di sviluppo a lui estraneo per filosofia e cultura, e allora perché non provare con lo sviluppo sostenibile?

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