La drammaticità degli eventi aiuta a prendere coscienza. Sul piano emozionale, morale e politico. E’ quello che è successo con il dramma di Lampedusa. Il Mediterraneo è un cimitero, chi non lo sa. Ma la gran quantità di annegati all’imbocco della porta d’Europa ha prodotto un dolore e un’attenzione diffusi e non cancellabile da un qualsiasi evento successivo. La vergogna, come ha urlato a caldo Papa Francesco, ha assalito le nostre coscienze. La paura, che è stata il “dominus” con cui si è affrontato il tema immigrazione, si è rivelata un anestetico inefficace. E quindi, la politica ha scoperto, una volta ancora, la propria inadeguatezza, il proprio ritardo nel capire e gestire il fenomeno.
La spinta all’emigrazione verso di noi non è più soltanto la fame. E’ anche la guerra. Anzi, è questa a rendere i flussi, un esodo. Una miscela micidiale che nessuna legislazione “respingente” può contrastare. Fame e/o guerra moltiplicano il bisogno di correre verso la speranza. Non verso l’Eldorado; chi si imbarca sa che ciò che gli aspetta non sarà rose e fiori. Ma verso la vita sì, fatta di cibo, di lavoro, di libertà. E a correre sono in tanti, vecchi, adulti, giovani, bambini. Intere famiglie, ma anche soli, benché ragazzini. Per questo, ogni morte da e su quei barconi inadeguati e malandati è il suggello atroce di una disperazione che voleva trasformarsi in aspirazione.
Misurarsi con l’esodo non è facile, ma vergognarsi è insopportabile, alla lunga. Bisogna agire su due fronti: quello di una politica europea che sappia rispondere alla complessità della questione e quello di scelte coerenti da parte del nostro Paese, in chiave inclusive. I due fronti non possono viaggiare in modo scoordinato, devono avere una coesione programmatica. Soltanto in questo modo, l’efficacia dei provvedimenti può essere meno contraddittoria di quanto si registra in questa fase. D’altra parte, trattandosi non solo di regole ma anche di risorse da mettere in campo, è meglio che il tutto avvenga con la migliore omogeneità possibile.
A livello europeo, finora, il tema dell’emigrazione è stato sviluppato prevalentemente sotto il profilo della sicurezza. Quindi, come fenomeno da tenere sotto stretto controllo possibilmente preventivo. Da ciò, una delega sostanzialmente assoluta alla legislazione nazionale e alle scelte operative di ogni singolo Stato. Non funziona. Lampedusa è l’esempio a noi più noto. Ma la stessa situazione soffrono la Spagna o la Turchia che sono individuati dai trafficanti come principali canali per far entrare in Europa migliaia e migliaia di emigranti. Il problema è sempre più europeo e sempre meno da gestire in modo dissuasivo se non repressivo.
Una nuova politica europea deve essere caratterizzata innanzitutto da una strategia di coinvolgimento degli Stati che si affacciano sul Mediterraneo per definire politiche di sostegno allo sviluppo di quelle economie. Inoltre, deve incentrarsi nella promozione dell’accoglienza, nella condivisione delle misure di coordinamento. La logica dell’emergenza va abbandonata a favore di quella della normalità del fenomeno. Che va organizzato, una volta che l’emigrato entra nello spazio di Shengen; che va assistito, anche nelle sue scelte di destinazione; che va armonizzato, in fatto di diritto d’asilo. Come dovrebbe essere normale che a pattugliare il tratto di mare che separa le coste africane da Lampedusa e ad accogliere dignitosamente la gente che vi sbarca siano forze e risorse di spettanza dell’Europa.
All’Italia, se non vuole continuare a vergognarsi, competono poche ma sostanziose messe a punto. La prima, smetterla con il populismo, il razzismo, la paura del diverso. Cecile Kyenge viene insultata da personaggi minoritari certo, ma la loro persistente immunità è uno schiaffo al civismo della maggioranza. Chi pensa di rappresentare i più non può limitarsi alla dichiarazione di solidarietà, ma deve agire in modo da smentire ogni tolleranza di atti di violenza, anche se solo verbali. La seconda mossa deve essere quella di cancellare il reato di clandestinità e di correità per chi soccorre i profughi. Questo non vuol dire non avere regole, ma semplicemente saper coniugare la disciplina dell’accoglienza con il rispetto della dignità di chi approda da noi per sfuggire alla fame e alla guerra.
La terza scelta è di civiltà. Nell’ambito di politiche strutturali di integrazione sociale ed economica di quegli immigrati che restano nel nostro Paese, assicurare ai bambini nati nel nostro Paese lo “ius soli”. Sono un milione i minori che stanno aspettando di sapere se appartengono alla comunità italiana in cui vivono o se devono considerarsi appartenenti al Paese d’origine dei genitori che forse neanche conoscono. Devono diventare due milioni, per occuparcene? Sono i figli di persone che risiedono in Italia, a vario titolo, da anni. Alcuni vivono sotto la soglia di povertà ( il 42% nel 2010, dati della Fondazione Leone Moressa che redige il Rapporto annuale sull’economia dell’emigrazione) e quindi da assistere, ma il 23,8% risulta proprietario di casa e ben il 75% dei nuovi italiani possiede un c/c bancario, con una propensione al risparmio modesta (oltre 600 euro medi l’anno), ma reale. Che senso ha, tenere i loro minori a bagnomaria?
Il coraggio, non la paura ha sempre cambiato in meglio il nostro Paese. La vergogna ci deve aiutare a pensare in positivo alla prospettiva multietnica della nostra società. Siamo ancora lontano da quella di altri Paesi europei (abbiamo un “rifugiato” ogni mille abitanti a fronte di 9 in Svezia, 7 in Germania, 4,5 in Olanda), ma la tendenza è segnata. Ed è meglio che questo processo avvenga in condizioni di crescente responsabilità da parte di tutti, piuttosto che si imponga sull’onda di un conflitto, non augurabile, tra irresponsabilità e bisogni.